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QT n. 9, 5 maggio 2001 Servizi

Ultime dallo Slavinac e dintorni

Una frana da non dimenticare: per ragioni di sicurezza, ambientali, turistiche.

Dopo l’allarme dello scorso novembre, pare quasi caduta nel dimenticatoio la frana Slavinac, forse percepita adesso in valle di Cembra come una tra le tante altre (Coston Grigne ’84 e ’87, Graon ’86, Monte Gorsa ’88, Dossi ’82, Slavinac ’88 e ’00) che hanno scandito negli anni l’attività estrattiva del porfido. In realtà questa volta il rischio è stato ben maggiore sia per la quantità di materiale, sia per la vicinanza all’abitato, sia per i temibili effetti collaterali che essa potrebbe ancora innescare.

La frana dello Slavinac. I puntini numerati indicano i luoghi oggetto di intervento e controllo.

Si è incaricato di vigilare su questa "distrazione" il comitato "Slavinac", costituito a Lases lo scorso novembre con l’obiettivo di informare la popolazione ed avanzare proposte sui problemi sociali, ambientali e urbanistici di Lases. Numerose le assemblee pubbliche tenute e i contatti promossi: con sindacati, WWF, servizio geologico provinciale, Espo, professori universitari di Vienna e geologi del Salisburghese.

Questi ultimi, invitati in val di Cembra per un parere sulla frana, hanno avanzato, dopo un sopralluogo condotto l’11 marzo scorso, alcuni suggerimenti: 1. raccogliere le acque meteoriche incombenti sulla frana e condurle all’esterno dell’area a rischio; 2. attuare prima possibile il progetto Bonomi (caricare il piede della frana, a mo’ di barbacane, con dei gradoni di materiale per ridurne il volume in caso di caduta); 3. nuovi monitoraggi sul culmine del dosso per controllarne il movimento, sul muro in calcestruzzo a monte della strada comunale e in alcuni punti del bosco; 4. installare due inclinometri sulla strada comunale nella zona della scogliera da spingere in profondità fin sotto la quota del lago. Gli esperti di Salisburgo definiscono la seconda richiesta "urgente".

Quella di caricare il piede della frana non è un’indicazione nuova: già nell’aprile ’99 l’avevano suggerita, assieme a tecnici della Provincia, due esperti del campo, Barla e Cancelli, incaricati dalla Pat di supervisionare la frana. Avevano proposto anche di accertare in profondità il tenore del materiale porfirico con dei carotaggi da spingere fino a 70-80 metri (spesa prevista: 353.5 milioni) e di utilizzare poi i fori per installarvi degli estensimetri e degli inclinometri con cui tenere sotto controllo i movimenti della roccia.

Nei fatti, si è perso tempo prezioso: i lavori, iniziati appena qualche mese fa (tra fine 2000 ed inizio 2001), sono stati completati in marzo e soltanto a fine maggio dovrebbero essere disponibili i dati definitivi.

A quel momento - garantiscono al Servizio Geologico - sarà possibile avere un’idea chiara del fenomeno e predisporre il progetto di messa in sicurezza (spesa prevista ben 2 miliardi).

Su due punti concordano le in-dicazioni di tutti gli esperti: la necessità di eliminare mediante impermeabilizzazione l’acqua meteorica che si infila ad ogni pioggia nelle crepe e nelle fratture a monte della frana e la messa in stabilità del piede della stessa: lavori previsti per inizio 2002.

Veramente degna di menzione la collaborazione avviata dal comitato con il Servizio geologico della Provincia. Il 19 marzo scorso, in risposta ad una richiesta, il dirigente Cocco rassicura sullo stato della frana: movimenti ridotti e di piccole masse. Quanto alla richiesta di ampliamento del monitoraggio proposto dal comitato su consiglio dei professori austriaci, il Servizio geologico addirittura dichiara la sua disponibilità a prendere in considerazione l’ubicazione di nuovi capisaldi di controllo suggeriti dal comitato stesso.

Naturalmente "gli altri", quelli del porfido, tentano di arginare questo attivismo rilanciando ai promotori del comitato l’obsoleta accusa di voler bloccare le cave e buttar via la più importante risorsa economica della valle. Il comitato propone un incontro anche a loro ricordando che, in termini di immagine, il prodotto porfido nel mondo avrebbe solo da perdere da una notorietà legata allo sfregio ambientale causato dal suo scavo e dall’essere gli scavatori additati come gli unici beneficiari del massacro della Valle.

Ma ancor prima di venire giù, la frana ha travolto il biotopo, situato nella parte meridionale del lago. Nel novembre-dicembre 2000 il livello dell’acqua viene abbassato in gran fretta di 2,5-3 metri per impedire ad una potenziale onda d’acqua, valutata in due metri di altezza, di travolgere mezza Lases nel caso alcune centinaia di migliaia di metri cubi di roccia scivolassero nel bacino: conseguenza immediata è la messa in secca di buona parte del biotopo.

All’inizio si parla di un provvedimento contingente dettato dal pericolo ma poi, rifatti i conti in base ai lavori previsti per la messa in sicurezza della frana, si inizia ad allungare i tempi: due anni, poi tre, forse quattro. Chiaramente una condanna a morte per il biotopo all’asciutto per un tale periodo.

Già moltissime cozze d’acqua dolce marciscono all’aria: un danno doppio, perché questi mitili, oltre a far parte della catena alimentare, si nutrono filtrando acqua. Ipotizzabile una sorte analoga per molti altri ospiti abituali della palude, quali rospi, rane e altri anfibi.

Nessuno si è preoccupato di intervenire a tutela dell’area: se nei momenti di immediata emergenza il biotopo era certo un problema minore, altrettanto non si può dire per questi ultimi due mesi in cui la frana sembra essersi fermata.

Durante l’inverno flora e fauna non hanno sofferto per la mancanza d’acqua: insetti, anfibi, rettili, piccoli mammiferi erano in letargo e molti uccelli migrati verso sud, ma con il risveglio primaverile, l’area in secca ha certo ostacolato la ripresa del ciclo della vita ed il ricostituirsi della catena alimentare.

Il biotopo non ha una lunga vita alle spalle: si era pensato di salvaguardare l’area con vincolo ambientale una quindicina d’anni fa, quasi ad espiazione del grande sfregio ambientale della zona da sempre imputato furbescamente alle cave aperte e non a quelli che le scavavano; ma tant’è, pentirsi tardi è meglio che mai!

Delimitato nei suoi confini attuali con la delibera n. 8784 del 1988, l’area interessa una decina di ettari e si compone di tre parti: Palù Redont, Valle Fredda e palude di Lases. Quella a rischio è quest’ultima, localizzata nella parte verso sud della superficie lacustre, là dove lago, canneto, palude, alghe e bosco si rimescolano per dar vita all’ area umida.

Moltissimi i tipi di insetti, anfibi, uccelli e piccoli mammiferi presenti, mentre accanto a canne e carici, le piante dominanti nella fascia paludosa, molte altre hanno conquistato uno spazio, come l’esquisimeto, il giunco, il rovo, il cardo rosso. In primavera è facile scorgere ammassi globosi di uova di rana, mentre sulla superficie dell’acqua scivolano i gerris, quegli insetti che sembrano pattinare sull’acqua. Tutto però ruota attorno all’acqua: tolta quella, è come togliere l’aria.

Il comitato ben comprende la situazione e avanza alla Provincia due proposte concrete, forse le uniche: anzitutto chiede di deviare nel biotopo l’acqua di un canale di sgrondo posizionato per impermeabilizzare l’area della frana. Questo garantirebbe una certa umidità nella parte del biotopo al momento privo di circolazione idrica.

Allo stesso scopo propone poi di convogliare l’acqua della sorgente Casina rosa, situata sul lato est del lago, in centro al biotopo. Il suggerimento è accolto dalla Provincia che predispone un progetto per la messa in posa di un tubo di circa 150 metri: una spesa a pochi zeri rispetto ad altre ben più sostanziose previste in zona.

Per ora la situazione è questa: buona parte dell’area umida del biotopo è in secca e, ben visibile, tra la superficie del lago ed i prati e boschi circostanti, un colletto di roccia nuda e rossastra alto due metri e mezzo: lo spessore d’acqua mancante.

Ma il lago basso non preoccupa soltanto rane, salamandre, cozze lacustri, bisce d’acqua e ambientalisti. L’APT dell’altopiano di Pinè e Cembra il 16 gennaio 2001, con una lettera indirizzata al Comune di Lases, fa presente la sua preoccupazione per le dannose conseguenze scaturite dalla decisione di abbassare il livello del lago, "uno dei più belli del Trentino". Spulciamone qualche passo: "Il lago può essere considerato un gioiello della natura, quasi una perla incastonata in un luogo dalle straordinarie emergenze naturalistiche... Esso racchiude interessanti nicchie ecologiche come la palude a sud del lago, le bombe vulcaniche, le buche del ghiaccio in Valle Fredda. [..] Un insieme di bellezze naturalistiche che, sia i residenti sia i turisti sempre numerosi, possono godere percorrendo il sentiero circumlacuale; un percorso piacevole e interessante per la varietà nel paesaggio e per la presenza di una flora particolarmente pregiata... Il lago contribuisce a conferire al paese di Lases un fascino ed un richiamo particolare..."

Qualcuno crede ancora che lo Slavinac sia solo una frana?