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QT n. 10, 19 maggio 2001 Monitor

I due volti dell’alpinismo

Il 49° Festival si è svolto sobriamente nella molteplicità delle manifestazioni in programma, in un’atmosfera forse un po’ distratta e sotto tono, carente della convinzione e dell’entusiasmo abituali, e accompagnato da un pubblico regolare e discreto ma meno affluente del solito.

"Grossglockner - der schwarze Berg" di Georg Riha.

Complici, può darsi, anche la sua durata - dieci giorni invero troppi e stancanti - e l’abbondanza dispersiva delle iniziative, convegni, tavole rotonde, confronti e dibattiti, mostre di ogni tipo, sovrapposte spesso alle proiezioni in concorso, il che obbligava a scegliere ed escludere; non sempre del resto la quantità eleva il livello, e se da un lato offre varietà di spunti e tematiche, a volte va invece a scapito della qualità, favorita da asciuttezza e approfondimento. Come sempre, la parte più coinvolgente e significativa resta quella filmica, con molti filmati dalle immagini splendide, non più strabilianti per rarità e verginità di contenuti e spazi, già tutti esplorati, percorsi, mostrati in ogni estensione e anfratto, piuttosto per l’alto livello estetico-linguistico raggiunto e per la consapevolezza della labilità del confine tra realtà e illusione di realtà, che si confondono.

Prevalgono, per numero e qualità, i film documentari, mentre quelli a soggetto sono scarsi, inincisivi, spesso fasulli, restando pretestuoso l’assunto, artefatto e faticoso lo sviluppo; sembra assai arduo realizzare l’incontro e l’amalgama tra contesto ed emozioni quotidiane, pregnanza dell’ambiente naturale, peculiarità di un’esperienza alpestre, eccezionale o no, sempre frutto di un humus umano e sociale in cui nasce e si svolge. I tentativi in questo senso non danno quasi mai risultati soddisfacenti: a riprova di ciò, la mancata assegnazione da parte della giuria del premio per il migliore film a soggetto.

La sezione più nutrita risulta quella dell’alpinismo e montagna, dove non c’è però alcuna vera novità rispetto agli ultimi anni, e i filmati, con immagini sempre più suggestive nella perfezione delle riprese, ripercorrono luoghi, esperienze, vie verticali e vertiginose, che sono i classici e consolidati da tempo, arricchiti però di sofisticati dettagli, e soprattutto di nuova attenzione al sentire dei protagonisti, alle loro relazioni in situazioni estreme di convivenza e sopravvivenza, e anche alla vita di ogni giorno delle popolazioni ospiti degli ormai numerosi aspiranti alla conquista delle altitudini: insieme agli scenari sterminati, all’ebbrezza dell’ascesa, all’epico cimento, si tende così a cogliere e filmare pure l’evolversi dei sentimenti, l’amicizia, la rivalità, l’insofferenza, la solidarietà, la pazienza, quale tensione intima li sorregge e li spinge nei rischi tremendi che affrontano, la lenta e snervante attesa nei campi-base del momento opportuno per l’intrapresa, la condivisione di spazi coperti minimi, di disagi, di stati d’animo. Le testimonianze di nuove imprese, che spesso ricalcano le antiche, sulle vette sacre dell’Himalaya sono irrinunciabili accanto al tema centrale di questa 49a edizione, le Alpi, presenti nel fascino di forme e colori, di bellezza e incanti, anche nell’idea di cultura e identità, e percorse in una serata speciale insieme ad alcuni alpinisti famosi di ieri e ai giovani emergenti di oggi, attraverso i loro ricordi e le emozioni ancora vive e attraverso i filmati d’epoca, dal primo del 1911 sul Monte Bianco, fino al momento d’oro dell’arrampicata negli anni ‘60 e via via fino ad oggi.

Scalate tra rocce e crepacci, ghiaccio, gelo e penuria d’ossigeno, vastità e magnitudini, per toccare le quali la volontà dell’uomo si impone sforzi sovrumani e rischia se stesso, imprese dove l’ascesa fisica coincide con l’ascesa interiore. L’immagine cioè, in qualche caso, si sforza di far vedere, dell’alpinismo, oltre le azioni da brivido, anche il lato più nascosto, intimo, come dice l’alpinista-regista Gerhard Baur, da anni partecipe al Festival con i suoi lavori d’autore, "quella grande emozione data nell’alpinismo dal gioco fra la mente e il corpo". Di tale duplice tensione si fa simbolo esplicito un alpinista locale, il roveretano Sergio Martini, protagonista di un filmato che è l’espressione del suo vissuto, raccontato col pudore e la profondità della passione e della convinzione maturata, in cui, dai primi passi adolescenziali fino alla scalata di tutti gli 8000, la montagna è compagna e punto costante di confronto nel cammino intrecciato di fisico e spirito, percorso unico per un viaggio esistenziale che si rispecchia nella bellezza e nella difficoltà delle vette.

E la stessa visione, che è speculativa e cinematografica, nel senso "di fare cinema, anche documentario, per proporre una visione interiore" (Baur), ritoviamo in alcuni filmati montani, ad esempio, per fare qualche nome, degli austriaci Georg Riha o Michael Schlamberger, di Giorgio Balducci, specie di Gerhard Baur, e altri, dove si entra col cuore nel cuore della montagna, sia essa l’alpe Bavarese Allgaeu, il Grossglockner, le Dolomiti..: con tecniche perfezionate, moderne ma personalissime perché sostanziate si può ben dire da una poetica e da uno stile d’autore, capaci di restituire la naturale lentezza piena e viva di un mondo ormai raro, le luci e le ombre, gli splendori e le vertigini che catturano lo sguardo e toccano la sfera emozionale, si esalta la maestosità della montagna e di tutto il suo habitat, facendo di ogni dettaglio un prezioso, incastonato in armonia e compartecipe della vita dell’insieme; qui la forza della natura e la sua complessità bella e terribile, la gamma delle sue varietà, che portano gioia o disagi, conforto o pericolo, incutono rispetto e ammirazione, che non tengono a distanza, accostano invece con prudenza e predispongono a percorsi, appunto fisici e interiori, tra le sue vie, le sue nude rupi, la vegetazione, scoprendo la imprevista vitalità che vi pullula anche nel gelo e nell’apparente immobilità invernale.

In contrasto con questa tendenza si va affermando la nuova moda dell’arrampicata artificiale, un alpinismo tutto tecnica, tutto agilità e velocità, che sottrae le difficoltà e l’anelito allo sguardo, carpito solo da volti rilassati, movimenti danzati, passi che paiono alla portata di ognuno, rilucenti oggetti dell’abbondante materiale tecnico, e in fondo, forse, un punto d’arrivo. Dove si è, cosa c’è intorno, il quadro ambientale non importano, l’azione può essere ovunque, anche, paradosso dell’humor inglese, nella stanza da letto attrezzata a dovere, dove lo sportivo, chiuso su di sé e soddisfatto, dà spazio alla virtuale prestazione. Come informa il catalogo, si tratta di alpinisti di grande bravura nell’affrontare un universo verticale di massima difficoltà, l’occhio però vede per lo più, o crede di vedere, un gioco in corso, facile, lesto ed elegante, vede un confronto muto tra dinamismo agile e parete levigata, sostituiti al pathos ambizione e puntiglio, al dialogo tra due anime un silenzio narcisistico, disturbato in genere da una colonna sonora stordente e dal ritmo martellante. Resta evidente tra i due modi un divario di intenti, due visioni non solo dell’alpinismo, ma dell’esistenza, di cui esso si fa metafora, consono il progressivo mutamento al mutamento di un mondo sempre più ossessionato dalla fretta e di una comunicazione sempre più frammentata e vorticosa, che preclude pensiero e rielaborazione.

I filmati di esplorazione hanno riservato immagini seducenti e rare, per descrivere esperienze avvincenti che spaziano in tutte le latitudini, realtà ambientali e umane di forte interesse e impatto, che si addentrano in civiltà dimenticate o in via di assorbimento, operazioni di lotta col tempo per salvare dall’indifferenza e dall’ingordigia tesori artistici di molti secoli di storia, e anche situazioni di sfruttamento di uomini o animali, secondo la regola del non rispetto di ciò che esiste fuori di sé e del proprio interesse.

Infine la fiction, non nuovi lavori, ma una retrospettiva di vecchi film, già visti, e certo tra le migliori fiction di montagna, poche, uscite nel corso degli anni. Fra essi ricordiamo "La grande conquista" di Luis Trenker, ‘38, e "Cinque giorni un’estate" di Fred Zinnemann, ‘82, due autori che con la loro opera hanno segnato la storia del cinema. A distanza anche di decenni dall’uscita, e a una ripetuta visione, questi film mantengono efficacia e freschezza della prima volta e la capacità di coinvolgere: sanno infatti disegnare atmosfere e sentimenti autentici, cause ed effetti, ricostruire ampi contesti, in cui la vita scorre nella pienezza della sua umanità e la montagna è parte viva della storia narrata, metafore culturali e esistenziali; testimonianza di come anche l’avventura alpina può divenire una palpitante e credibile rappresentazione cinematografica.

Il film di Trenker, in bianco e nero, riporta al 1865, anno della prima epica conquista del Cervino, ripresa con fedeltà ai fatti, che vede in competizione due alpinisti, l’inglese Whymper e l’italiano Carrel, prima amici decisi a scalare insieme, poi, causa le rivalità e gli intrighi delle comunità locali, separati nell’ascesa agognata. Arriva primo l’inglese, ma l’amicizia tra i due e la generosità avranno modo di trionfare sulle meschinità e perfidie umane. Eccezionali riprese alpestri, una fotografia di grande realismo e forte espressività sostengono il senso del pathos e della narrazione, una passione vera per la montagna e l’umanità che la abita, di cui sono portati alla superficie i sentimenti, i conflitti, gli ideali e le rivalità.

Il secondo film, ambientato sulle Alpi dell’Engadina, è l’ultimo di Zinnemann e l’unico in cui egli, ormai vecchio, attinga ai ricordi della propria vita e dell’attrazione per la montagna, per raccontare una controversa storia d’amore e di ascensioni sulle vette, cinta da uno scenario splendidamente fotografato da Rotunno, intessuta di sinceri pensieri sullo scorrere del tempo, che si vorrebbe fermare nei suoi attimi lieti, ma che sordo e inesorabile procede sfuggendo.