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QT n. 17, 13 ottobre 2001 Servizi

La difficile psichiatria condivisa

Il messaggio di un convegno a Trento (“Le parole ritrovate”): per combattere il disagio psichico, ma anche i rischi di guerra, occorre la condivisione.

Le parole ritrovate”, cioè persone affette da disagio psichico, i loro familiari, il mondo del volontariato e i cittadini finalmente ammessi a dire la loro, a proporre, a sperimentare nel campo del disagio psichico e della malattia mentale accanto agli operatori. “Le parole ritrovate” è il titolo dato all’incontro svoltosi a Trento fra venerdì 5 e sabato 6, con una folta partecipazione proveniente un po’ da tutta Italia, che ha riempito la sala della Regione. Tutto nasce a Trento nel ’92 dalla necessità, da parte di alcuni medici e operatori psichiatrici, di confrontare le proprie esperienze con quanto si fa altrove. Dell’anno successivo è un primo tentativo di collegamento con altre realtà, ma solo nel ’98 si riesce a dare un seguito a quel primo incontro, e dall’anno scorso, finalmente, l’iniziativa riparte, stavolta con l’ambizione di non perdere più i contatti, stabilendo un coordinamento costante ed organizzando, fra un convegno e l’altro a Trento, ulteriori momenti di confronto qua e là per l’Italia. E così si è fatto: a Catania, a Cinisello Balsamo, prossimamente a Genova. Oltre all’immancabile sito: www.leparoleritrovate.org

Ma vediamo di che si tratta. Soprattutto negli ultimi dieci anni, nella psichiatria come in altri ambiti del sociale, il volontariato è spesso intervenuto per tappare i buchi dell’intervento pubblico: mille iniziative avviate con entusiasmo, non sempre con la necessaria professionalità, spesso senza alcun appoggio dalle istituzioni (amministrazioni locali, aziende sanitarie…), e quasi mai a conoscenza di quanto, nella stessa direzione, si faceva altrove. Difetti e lacune di cui, col tempo, ci si è resi conto e che appunto hanno spinto alla ricerca di un collegamento. Contestualmente anche le istituzioni comprendevano il valore di quelle esperienze e sempre più spesso le sostenevano, con un contributo economico e di professionalità.

Al convegno di Trento si è parlato di questi mille progetti, tutti diversi ma tutti rivolti nella stessa direzione: il disagio psichico non è una faccenda privata degli psichiatri, perché richiede il coinvolgimento anzitutto del malato, e poi di chiunque gli stia intorno. Quest’anno si è parlato soprattutto dell’abitare: ed ecco, da Collegno, l’idea di inserire il paziente all’interno di una famiglia “affidataria”, sostenuta economicamente dall’ente pubblico; mentre a Verona c’è un ragazzo – anche lui con qualche problema – che ha accolto a casa sua altre persone come lui, potendo comunque contare sul sostegno di operatori. Due esempi fra i tanti possibili: da Prato ad Arzignano, da Chivasso a Martina Franca, da Livorno a Catania, fino a Trento, dove questa collaborazione fra strutture pubbliche e privato sociale ha già una lunga storia.

In queste pagine presentiamo un’ampia sintesi dell’intervento tenuto in questa occasione da Giuseppe Lumia [/a](parlamentare dell’Ulivo, già presidente della Commissione antimafia, da sempre impegnato nei temi del sociale e del volontariato), intervento che bene riassume il senso dell’incontro di Trento. E poi un articolo di Romano Turri, direttore di “Liberalamente”, periodico del Centro di salute mentale di Trento, che ci racconta l’interessante esperienza di collegamento in corso fra decine di giornali pubblicati, un po’ in tutta Italia, ad opera degli utenti dei Servizi di salute mentale.

Carlo Dogheria

Bisogna “fare con”. Fare con loro, ascoltare loro, coinvolgerli. Naturalmente fare con non si improvvisa: è una dimensione che richiede formazione, richiede un approccio culturale molto aperto.

Immagine del convegno "Le parole ritrovate".

Il fare con non nasce spontaneo: nella nostra società nasce spontaneamente il fare per. Anche adesso, in questo particolare momento storico, ecco che arrivano i nostri e sistemano il mondo. Arriva l’Occidente e mette tutto a posto: facciamo per loro, facciamo per il mondo. Invece fare con il mondo è più complicato.

Il fare per - prendiamo l’esempio dall’agricoltura - può avere bisogno di prodotti manipolati perché deve gonfiare la carne degli animali, carne che poi però, quando la cuociamo, si squaglia. Il fare con adopera ingredienti sani, ma ciò richiede più fatica, più attenzione, più cura.

Il fare con è una scienza, è un’idea, un modo di essere che ci costringe a passare dall’idea di progetto all’idea di autoprogetto. Il progetto è tipico del fare per: io progetto e tu sei il contenitore della mia realizzazione. Invece l’autoprogetto riguarda il fare con. L’autoprogetto impone: alzati e camminiamo insieme, mettiamoci in gioco insieme, ideiamo insieme l’intervento che dobbiamo fare. E nel disagio mentale questo è fondamentale. Dobbiamo ideare insieme le cose che vogliamo fare, perché spesso le nostre idee non corrispondono a quelle delle persone con cui dobbiamo fare un cammino. Mescolare le idee, metterle in gioco rende quelle idee più ricche, più feconde, le migliora e quindi l’autoprogetto ha bisogno di tanta condivisione. Nello stesso tempo ha bisogno di individuare i percorsi, gli obiettivi, i tempi, i modelli organizzativi.

Lo stesso discorso vale a livello di rapporti mondiali. E’ successo che l’Occidente calava con i suoi progetti di cooperazione allo sviluppo: andava in alcuni paesi e decideva quello che si doveva fare lì. “Ti faccio l’ospedale”; ma non si è deciso insieme che bisogna fare l’ospedale: siccome io leggo il tuo bisogno e capisco che tu hai bisogno dell’ospedale, te lo faccio. Ma poi, quell’ospedale, non dà buoni risultati: come mai? E poi scattano i razzismi striscianti.

Lo stesso vale per il disagio mentale. Ma come, io penso per lui, poi lui magari, rifiuta e mi dà una sberla? In fondo penso: “Se lo rinchiudo e lo costringo, forse mi dà più risultati”.

Il bene sbattuto in faccia non è bene,non produce niente di buono. Tu puoi avere le migliori intenzioni del mondo, puoi essere motivato, ricco dei migliori valori, ma quando prendi questo bene, lo sventoli e lo sbatti in faccia, quel bene si disperde, si trasforma in un boomerang.

Ecco perché abbiamo bisogno di autoprogetti, a tutti i livelli. In famiglia, dove si progetta per i figli: dalle due alle quattro al corso di lingue, poi a tennis, poi alla lezione di musica... I figli sono dei pacchi postali, i preti e le famiglie sono delle realtà che erogano dei servizi. Poi, alla fine, tuo figlio se ne frega...

La musica e lo sport sono cose positive, ma quando non sono il frutto di una condivisione non danno nessun significato, nessun frutto. Lo stesso vale in tutti i contesti, a cominciare dalle relazioni internazionali: quelli che si riuniscono e vogliono decidere dei destini del mondo, dovrebbero cominciare anche loro ad ascoltare il mondo cosa vuole, sennò non ne usciamo. Se qualche familiare, qualche operatore dei servizi, qualche politico pensa che tutto si possa risolvere con una buona ingegneria progettuale calata dall’alto e sbattuta in faccia a chi ha bisogno, ne risulterà uno spreco di energie e di risorse.

Vorrei farvi un esempio concreto proprio nel campo del disagio mentale. Quell’Italietta pasticciona che spesso, in modo trasformistico, azzanna le cose buone e le distrugge e tenta di manipolare risultati anche positivi che si sono raggiunti, che cosa fa? Comincia organizzando in modo del tutto insufficiente i servizi alternativi. Poca rete. Lo conoscete il progetto obiettivo per la salute mentale? Stupendo. Lo si realizza al 20-30% e quindi si privilegia la cultura dell’abbandono: le famiglie abbandonate, i territori abbandonati. Dopo un po’ l’abbandono produce così tanto bisogno che una risposta, qualunque essa sia, è ben accetta. Noi dobbiamo rifiutare questa logica.

Tempo fa mi trovavo nel mio ufficio, alla Camera e mi telefonano che alla Commissione Affari Sociali c’è un progetto per azzerare tutto il lavoro che abbiamo fatto con fatica in questi anni, e riportare in vita il concetto che chi vive l’esperienza del disagio mentale è pericoloso per sé e per gli altri. E’ un disegno di legge che, partendo da questo presupposto, fa rientrare dalla finestra quello che abbiamo buttato fuori dalla porta e ripropone la riapertura dei manicomi. Sono due disegni di legge degli onorevoli Burani e Procaccini di Forza Italia e di Marco Ce della Lega. Loro motivavano: vogliamo fare un buon intervento, essere moderni, quindi, strutture con moduli di 50 posti che poi si possono mettere insieme, magari riutilizzando le vecchie aree manicomiali, e lasciando la gestione ai privati.

Insomma, invece di punire chi non ha applicato la 180, il Progetto obiettivo, tutte le leggi che ci danno degli strumenti come non mai, premiamo invece quelli che hanno boicottato la 180 e il Progetto obiettivo. Quelli che non hanno applicato la legge, che non sono stati rispettosi della legalità, quelli che hanno disapplicato in modo illegittimo la legge, adesso vengono premiati in nome di quel modo paternalista del fare per. Voi illusi idealisti, voi che volevate fare i servizi a rete, voi che volevate personalizzare l’intervento, voi che volevate mettere il contesto del disagio mentale dentro una logica integrata, dove c’è bisogno di tanti momenti di prevenzione e anche di cura e di intervento per le fasi acute, voi che vedevate la questione in modo globale...: basta, bisogna semplificare.

I privati faranno il business e lo Stato pagherà una bella retta per queste strutture, dove magari il ricoverato avrà una bella cameretta col lettino personalizzato e la TV, ma vivrà comunque all’interno di un luogo custodiale, separato da tutto, che costringerà ad un’eterna assistenza; un luogo di mantenimento dove gli affetti, le relazioni, il lavoro non entrano, un luogo soporifero o violento a seconda del privato che lo gestirà.

Ecco perché noi, alla cultura dell’abbandono, dobbiamo far corrispondere la cultura dell’accoglienza. Perché, alla cultura dell’abbandono, spesso corrisponde la cultura della pericolosità. Prima ti abbandono, poi tu diventi pericoloso. Prima abbandono al suo destino il sud del mondo, poi il sud del mondo diventa pericoloso, quindi, a quel punto, lo debbo punire. E così a casa: tu abbandoni il ragazzo decidendo per lui senza coinvolgerlo, poi quello la mattina si alza e ti dà uno schiaffo, e tu non sai più come fare: è diventato pericoloso.

L’abbandono porta alla pericolosità e la pericolosità porta alla custodia e la custodia porta alla istituzionalizzazione: ti piglio, ti porto in un posto e ti separo dal tuo mondo, ti separo dai tuoi odori, da quella cultura, da quelle luci, da quel panorama, da quel contesto. Lo scelgo io per te.

Noi all’abbandono dobbiamo sostituire l’accoglienza; alla pericolosità, la condivisione; alla custodia, le strutture aperte; alla istituzionalizzazione i servizi aperti.

Nel mondo dell’autoprogetto, dobbiamo mettere al centro la giustizia. Se ci illudiamo che il tema è semplicemente come organizzare meglio quel certo servizio, prima o dopo arriva un affarista, pensa che del disagio mentale si può fare un business e si fa fare una legge sul tipo di quella che prima ricordavo.

E poi occorre un po’ più di amore per le diversità. So bene che non è facile amare le diversità. E’ più facile amare quello che conosciamo e abbiamo visto da sempre. Amare le diversità è molto più complesso, richiede più fatica, ma dobbiamo capire che nella diversità ci possono essere delle ricchezze e delle opportunità per tutti.

L’altra cosa che torno a sottolineare è il tema della riforma della politica: tutti dobbiamo ritornare a fare politica. So che questo è un tema difficile perché la politica è nella polvere, spesso non merita rispetto, perché anche nel passato recente, ad esempio quando la mia coalizione stava al governo, errori se ne sono fatti ed anche ingiustizie, e non da poco; però dobbiamo ricordare che comunque la politica arriva e interviene, anche se tu te ne disinteressi. E se la politica è priva di partecipazione (una partecipazione - intendiamoci - che non si può pretendere lasciando le forme della politica così come sono), produce guasti. C’è bisogno nella politica, sì di decisione; ma se non c’è più partecipazione, la decisione diventa arroganza, arbitrio.

Anche questo nostro tempo ha bisogno di chi la sera lascia stare le pantofole, dimentica l’attrazione, spesso manipolatrice e deviante della TV, ed esce insieme ad altri, discute su come organizzare i servizi, le politiche sociali, come scegliere un certo sindaco, un certo parlamentare, un certo progetto. C’è bisogno di più partecipazione a livello locale e a livello mondiale.