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Perché il mondo non può essere più come prima

In un mondo così vulnerabile, la salvezza non può venirci da guerre e da sempre più asfissianti misure di controllo. Da “Il tetto”, mensile di Napoli.

Raniero La Valle

L’11 settembre gli Stati Uniti sono stati messi in ginocchio da diciannove suicidi armati di coltellini e taglierini. Almeno quattro di loro avevano imparato a pilotare gli aerei nelle scuole aeronautiche americane. Secondo alcuni questa è la prova che l’attentato ha avuto una lunghissima premeditazione e aveva alle spalle una organizzazione terroristica altamente specializzata e ramificata in tutto il mondo.

Tuttavia la preparazione dei dirottatori-piloti non deve aver richiesto molto tempo e un’altissima specializzazione, perché essi non hanno dovuto imparare a decollare e ad atterrare, cosa assai difficile, ma solo a virare, cosa a cui almeno uno di essi sembrava unicamente interessato, come ha rivelato uno dei suoi inconsapevoli istruttori, e imparare a dirigere un aereo già in volo contro un obiettivo. Uno dei terroristi ai comandi, quello del secondo aereo scagliatosi contro le Twin Towers, ha infatti sbagliato manovra, secondo gli esperti che lo hanno visto, e ha dovuto abbassarsi, finendo così per schiantarsi in un punto molto più basso della seconda Torre, al 66° piano, senza di che le due Torri, grazie alle vantate tecniche costruttive, forse non sarebbero entrambe cadute.

Può darsi che i Servizi di intelligence finalmente destatisi, abbiano ora scoperto l’esistenza di un’organizzazione terroristica ricchissima, tecnologicamente sofisticata, capace di progettare piani a lungo termine e con centri di reclutamento e basi in tutto il mondo; altrimenti la lunga guerra dichiarata da Bush dovrebbe trovare un altro motivo. (...) Tuttavia i dirottamenti dell’11 settembre, per quanto lucidamente progettati, potrebbero aver richiesto molto meno: meno soldi, meno tempo, meno organizzazione e meno odio di quanto si è pensato. Ciò può rendere la cosa ancora più preoccupante per il futuro, ma può spiegare il flop dei servizi segreti. Anche le Brigate Rosse sembravano chissà che, e con pochi militanti hanno spiantato l’Italia. Così, non si può essere certi che i terroristi avessero previsto e voluto che le due Torri, attaccate agli ultimi piani, crollassero (come non fu previsto dai soccorritori dopo che l’impatto era già avvenuto, tant’è che vi trovarono la morte). Può darsi che ne sarebbero stati contenti, ma non è detto che la loro intenzione fosse di provocare migliaia di morti, la crisi economica mondiale e il collasso del capitalismo, cioè quella "nientificazione" della civiltà occidentale che è stata loro attribuita.

Lo stesso Luttwak, nei commenti delle prime ore, diceva che non era stato colpito nessun punto nevralgico della potenza americana. E’ probabile che i terroristi volessero essere riconosciuti come nemici degli Stati Uniti, non come nemici dell’umanità e probabilmente neanche "di tutto il mondo ricco e sviluppato". Ciò non toglie nulla alla loro spietata volontà di morte, e al nostro sgomento di fronte a questo scatenamento del male. Però serve alle nostre analisi, alla scelta di nostri comportamenti successivi. L’efferato atto terroristico è stato subito definito un atto di guerra; ma se atto di guerra, è anche in una ragione umana, per quanto crudele e perversa; trasferirlo nel diabolico, nel mostruoso, nel non umano, non ci aiuta né a capirlo né a darvi risposta.

Invece proprio questo è avvenuto. La lettura che subito ha preso piede è stata quella di una lotta tra uomini e mostri; tra "il mondo", che Bush ha promesso di portare alla vittoria, e il non-mondo, il Nemico nel quale è ricompreso tutto ciò che nega, che sfregia, che usurpa il nome di umano.

A ciò hanno concorso due fattori. Il primo è che per una sconfitta (e l’America si è sentita sconfitta) è molto più rassicurante essere sconfitti da un mostro, da un satana, piuttosto che da un potere concorrente, piuttosto che da persone comuni, anche se suicidi e assassini. E contro un mostro è molto più facile eccitare gli animi alla mobilitazione, alla vendetta, tanto più che i diretti colpevoli sono già morti.

Il secondo è che gli effetti dell’attentato terroristico sono stati effettivamente mostruosi, senza paragone rispetto agli effetti di ogni altro terrorismo, se si prescinde da quello delle guerre. C’è stato come un moltiplicatore, che ha enormemente dilatato l’impatto distruttivo degli aerei schiantatisi sulle Torri e sul Pentagono.

Quale ne è stata la causa? È’ proprio questo che bisognerebbe chiedersi, perché la risposta ci dà già un’indicazione di che cosa si dovrebbe fare, invece della vendetta, per evitare che qualcosa di analogo possa accadere domani.

Questa causa è la estrema vulnerabilità di sistemi tecnologici, economici e di organizzazione sociale che pur sembrano corrispondere a una ineccepibile razionalità scientifica.

Si pensi al precedente delle centrali nucleari. Esse funzionano e devono funzionare, anche a prova di eventi altamente traumatici come i terremoti. La scienza fornisce le regole, i calcoli, ed è in pari con se stessa. Ma gli incidenti di Three Miles Island e di Chernobyl hanno mostrato che la produzione di energia nucleare si pone oltre la soglia di un rischio accettabile, e che eventi imprevedibili, anche di ridotta entità, possono trasformare le centrali in cause di danni incommensurabili, tanto è vero che in Italia il nucleare è stato bandito.

In realtà la vulnerabilità, oltre ogni ragionevole rischio, si è estesa col progresso tecnico a tutto il sistema.

Chi mai costruirebbe edifici lunghi quasi mezzo chilometro, o degli stadi, capaci di ospitare decine di migliaia di persone dotandoli di una sola uscita? Un architetto che li costruisse sarebbe considerato, prima che incompetente, criminale. Ma i grattacieli con 110 piani e sette sotterranei hanno una sola uscita, il pianterreno, e per di più raggiungibile solo per le scale, essendo gli ascensori i primi ad andare fuori uso. Si può fare a meno dei grattacieli, che sono belli, profittevoli, utili e consoni alla modernità? Il mito della modernità risponde di no. Benissimo, ma allora - questa dovrebbe essere la lezione dell’11 settembre - bisogna stare in pace con tutto il mondo. Forse che non è possibile?

Si può costruire un sistema di aviazione civile che trasporti milioni di persone, con aerei giganteschi come taxi e su vie aeree intasate come autostrade urbane, che sia a prova di temperino, e perfino di una biro usata con destrezza come un’arma? No, non si può, e allora se si vuole continuare a volare e a vivere così, occorre stare in pace con tutto il mondo.

E’ possibile che il denaro, le azioni, i crediti e ogni altro prodotto finanziario che sono la rappresentazione simbolica di tutti i beni materiali della terra, del cibo, delle risorse, delle fabbriche, degli strumenti di produzione e di lavoro di tutti, possano essere manovrati, appropriati, trasferiti da una parte all’altra del globo alla velocità della luce, senza che speculazioni irresponsabili possano travolgere l’economia di interi Stati, senza che la vita fisica di milioni di persone possa essere messa in pericolo, e addirittura distrutta? No, non si può, e allora bisogna fare patti di convivenza più forti degli interessi privati, occorre stabilire regole di coesistenza, cioè di rispetto e garanzia dell’esistenza in vita degli altri, regole che reggano all’urto delle transazioni, alle confische della ricchezza, al dirottamento dei capitali.

E’ possibile evitare che il mercato, affidato ormai a livello globale alla libera mano del profitto, abbandoni l’Africa all’AIDS, l’India e altro mezzo mondo alla fame, faccia schiavi in Thailandia, getti i bambini nella strada in Brasile, riduca alla miseria i poveri, di tutti i continenti, senza che da qualche punto del sistema si sprigioni una rivolta e si inventino forme di lotta che le armi dei ricchi non possono fronteggiare?

No, non è possibile, e allora se si vuole continuare col mercato bisogna progettare non una sicurezza impossibile, ma la pace per il mondo, bisogna mettersi d’accordo perché la vita, il nutrimento, il lavoro, la dignità siano accessibili, o almeno restino una speranza per tutti gli uomini e le donne della terra.

E’ possibile condurre guerre decennali contro l’Iraq, contro la Palestina, umiliare e tenere in ostaggio le masse arabe, bandire, esecrare ed uccidere i loro capi, senza che la loro frustrazione, il loro risentimento e la loro rivolta divengano terreno di cultura dell’estremismo religioso? No, non è possibile.

La vera lezione dell’11 settembre è che il mondo, anche e proprio perché è un mondo progredito, tecnicizzato, manufatto e fragilissimo, non si può continuare a governare così; o si governa con la ricerca del consenso, con tutte le mediazioni necessarie e la ricerca incessante delle possibili soluzioni dei problemi, oppure è un mondo che si frantuma, ben al di là delle separazioni, dei muri, delle distanze di sicurezza, degli "apartheid" che si vorrebbero stabilire per salvaguardare solo delle singole parti.

Ma non è una lezione che le attuali classi dirigenti possano intendere. Al contrario, si è andato creando un clima da olocausto per montare la più grande spedizione punitiva che si sia mai vista sulla faccia della terra. Bush ha annunciato prima una guerra infinita, poi una "giustizia infinita". In America l’unica deputata su 421 deputati e 98 senatori che abbia votato contro i pieni poteri a Bush per la sua guerra, deve girare sotto scorta. Due sik scambiati per arabi sono stati aggrediti ed uccisi. In Italia ha provato Bruno Vespa con "Porta a porta" a costruire un piccolo olocausto italiano con i morti italiani e quelli di origine italiana di Manhattan, così da aggiungere una ragione nazionale alla nostra ansia di fare giustizia. I governanti americani hanno annunciato che alla CIA sarà restituita la licenza di uccidere, e che la guerra contro il terrorismo sarà una guerra mai vista, che dovrà essere condotta senza limitazioni, cioè senza obbedire alle regole che il diritto umanitario aveva cercato di imporre ai conflitti. Nella stessa trasmissione di "Porta a porta" si è avanzato il timore che l’opinione pubblica italiana non sia pronta ad accettare che in una guerra contro il terrorismo, il terrorismo possa colpire anche tra noi. Il Presidente della Camera ha detto che occorre accettare questo rischio; anzi non si dovrà ripetere quello che accadde nel 1970 dopo gli attentati di Fiumicino, e che non piacque agli americani. Ciò che allora accadde fu che Moro e il governo, attraverso azioni politiche mirate verso il mondo arabo, riuscirono ad ottenere che il territorio italiano fosse tenuto fuori da ulteriori azioni terroristiche.

Furono così evitati molti dolori e molte vittime, ma ciò viene ora considerato disdicevole. All’osservazione fatta dal giornalista Borrelli, secondo cui la presenza del Papa che invita alla pace potrebbe incrinare la determinazione italiana alla guerra, Vespa lo ha tranquillizzato dicendo che "il Papa non è il parroco di Roma" (infatti ne è il Vescovo), e il Presidente del Senato ha garantito per la Chiesa, perché "ha la dottrina della guerra giusta".

Intanto, mentre gli Stati Uniti già muovevano l’armata, nessuno si preoccupava di chiedere e di discutere contro chi si dovesse scatenare. La guerra era a sorpresa. (...)

Non si tratta si essere solo contro il terrorismo, ma contro la lettura religiosa, esorcistica, apocalittica del terrorismo, senza chiudersi alla lettura delle cause politiche che lo hanno fatto insorgere e trasformato in fenomeno di massa, e che tuttora lo alimentano.

Non si tratta solo di essere per la pace, ciò che è sempre più frustrante, perché questo mondo la pace non la dà e nemmeno lo potrebbe, ma di esprimere una nuova cultura per il mondo, di stare in un altro modo al mondo, di ripristinare, anzitutto, il presupposto dell’unità e dell’indivisibilità del mondo, dell’unicità ed uguaglianza di tutta la comunità umana, del suo unico e indivisibile destino.

Ciò non poteva ancora suonare idealistico, irrealistico, impolitico a Genova, prima dell’esplodere della Grande Mela. Ma oggi è chiaro che il mondo, vissuto e gestito così, va a pezzi; che la distruzione è concepita non solo nei centri della rivolta e nei campi dei terroristi, ma nei salotti buoni della borghesia mondiale, nelle redazioni dei giornali, nei consigli d’amministrazione e nelle sale ovali dell’Occidente progredito e civilizzatore.

In ciò, per aver compreso ciò, il mondo dovrebbe essere non più come prima. Dovrebbe schiudere le porte alla solidarietà e alla giustizia. Si dovrebbero riaprire trattative, riannodare legami, ristabilire l’autorità del diritto e delle istituzioni internazionali, restituire ruolo, competenze e vigore all’ONU.

Questo è un mondo di continenti perduti, di ingiustizie conclamate, di oppressioni esibite, in cui tre persone da sole sono più ricche di 43 popoli interi. E se una volta ci si provava ad arricchirsi arricchendo, a crescere facendo crescere, a consumare estendendo il consumo, a esercitare la libertà estendendo la libertà, oggi non ci si crede più, si sa che con questo sistema non è più possibile; la stessa realtà fisica della terra è arrivata ad un limite che non si può forzare; non è più possibile un mondo di eguali, sono possibili solo due mondi dove essere uomini non può voler dire la stessa cosa dall’una e dall’altra parte, anzi possono esserci solo un mondo e un non-mondo.

L’illusione, che animò gli anni ‘60 e ‘70, della panacea dello sviluppo, è caduta; senza un mutamento profondo delle politiche, delle culture e delle ortodossie economiche dominanti, il mondo non si può aggiustare (iustari, che è il senso dello ius, secondo San Tommaso), l’ingiustizia non ha rimedio, si può solo progettare e gestire un mondo che vada bene per una parte, una minoranza dell’umanità, e lasci indietro gli altri, i soprannumerari, gli esuberi, quelli che stanno nella parte discendente della cosiddetta curva di Gauss.