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Il Vertice FAO fra popoli e multinazionali

A Roma dal 10 al 13 giugno si terrà il vertice mondiale della FAO sull’alimentazione. Tutti sanno che l’obiettivo della FAO è quello di combattere la fame per diminuire la povertà e che nel Vertice si discuteranno le diverse proposte di politica agro-alimentare.

Altre volte sono stati discussi questi temi, come nel precedente vertice FAO di cinque anni fa, ma gli obiettivi di ridurre la fame nel mondo del 50% entro il 2015, allora assunti, sono lontanissimi: ci sono 826 milioni di persone che patiscono la fame e diminuiscono solo al ritmo di sei milioni all’anno.

E’ quindi legittimo chiedersi: di cosa si discuterà? Quali saranno le nuove proposte di sviluppo agro-alimentare che si confronteranno? Quali sono i nodi cruciali da sciogliere? Quali interessi vi sono in gioco?

E’ noto che il vertice era programmato per l’autunno dello scorso anno, quasi in contemporanea con la Conferenza dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC-WTO), tenutasi nel Qatar. Perché questo slittamento? Ufficialmente, si dice, per la grave crisi internazionale, venutasi a creare dopo l’11 settembre, ma vi sono buone ragioni di pensare che hanno pesato anche i contrasti tra gli obiettivi dell’OMC e della FAO, quelli tra paesi ricchi e impoveriti, tra gli interessi delle multinazionali agro-industriali detentrici delle tecnologie più avanzate e i paesi del Sud dove si trova l’80% delle risorse genetiche.

Come è accaduto nel precedente vertice, anche in questo si affronteranno due diversi orientamenti. Da una parte c’è chi sostiene che, per produrre più cibo, bisogna affidarsi alle biotecnologie, alle trasformazioni genetiche delle specie animali e vegetali (transgeniche), all’uso massiccio della chimica per aumentare la produzione alimentare, alla specializzazione delle colture, alla monocoltura orientata all’esportazione, alle regole sottoscritte nel trattato del libero commercio (OMC)

Dall’altra chi, al contrario, sostiene che le politiche di sviluppo agricolo fino ad ora attuate nel Sud del mondo, talvolta fortemente sollecitate dai paesi industrializzati e finanziate dalla Banca Mondiale, non hanno prodotto gli effetti positivi promessi, anzi nella maggior parte dei casi le così dette rivoluzioni verdi sono state dei fallimenti con ripercussioni negative sulle popolazioni. Benché si produca cibo sufficiente per tutta la popolazione mondiale, quasi un miliardo di persone ne sono escluse.

I modelli di sviluppo applicati fino ad ora hanno provocato: sottrazione di terre con conseguente espulsione di intere popolazioni dalla terra, la monocoltura, la produzione per l’esportazione anziché per l’autoconsumo, cibo più caro, disoccupazione e meno denaro per comperarlo, tensioni sociali e conflitti, esodi di massa dalle campagne ed emigrazioni di massa. E le conseguenze si sono ripercosse sui prezzi dei prodotti esportati che sono andati sempre più diminuendo e si sono rivelati sempre meno sufficienti per acquistare all’estero quel che serviva. I metodi di industrializzazione dell’agricoltura non adeguati hanno creato dipendenza per quanto riguarda le macchine, i pezzi di ricambio, la fornitura delle sementi, dei fertilizzanti, dei pesticidi, dei diserbanti, e sull’ambiente (terreni diventati improduttivi dopo qualche anno). La produzione e la commercializzazione del cibo vengono usate come strumento di ricatto per tenere politicamente condizionabili: paesi, popoli, governi.

Per questo le organizzazioni che si sono confrontate nel Forum dei popoli a Porto Alegre sostengono la necessità che la prossima conferenza della FAO riconosca in primo luogo che la sovranità alimentare è un diritto inalienabile e di conseguenza che le politiche agricole siano orientate all’autosufficienza alimentare di ciascun paese con la tutela dei produttori nazionali. Le politiche di sviluppo agricolo (tecnologie, metodi di produzione, conservazione, trasformazione) devono essere non inquinanti, ecologicamente sostenibili e compatibili ambientalmente e culturalmente. Deve essere promossa la partecipazione, la gestione e la formazione delle stesse comunità rurali con adeguato supporto tecnico e finanziario da parte delle istituzioni pubbliche.

Le contraddizioni dell’impostazione neo-liberista, invece, sono evidenti. Da una parte essa dice di voler aumentare la produzione per sconfiggere la fame, ma allo stesso tempo si distrugge l’esubero di produzione per tenere alti i prezzi (nei paesi industrializzati il 30% dei cereali viene usato come cibo per gli animali).

I paesi del Sud del mondo, ogni volta che aumentano la produzione per l’esportazione, creano un’eccesso di offerta che fa precipitare i prezzi.

Come può essere credibile affermare di voler ridurre la fame stimolando gli scambi commerciali tra chi produce cose diverse se poi l’Organizzazione Mondiale del Commercio obbliga tutti i paesi a liberalizzare il commercio, mettendo così in competizione il piccolo contadino con le grandi imprese, eliminando ogni norma nazionale che tuteli i propri produttori, lasciando così mano libera alle agenzie, agli speculatori, alle borse, alle multinazionali che controllano il mercato globale nello stabilire i prezzi?

Con quale denaro possono comperare il cibo quei milioni di contadini del Sud rimasti senza terra e senza lavoro a causa dell’industrializzazione dell’agricoltura e senza nessun’altra possibilità di lavoro nel loro paese?

L’elenco delle conseguenze negative indirette della politica neoliberista sarebbe ancora più lungo; ne citiamo solo alcune. Le multinazionali che producono in laboratorio i brevetti transgenici, si appropriano delle specie tipiche locali, ne modificano il DNA, depositano il marchio, obbligano gli agricoltori a pagare le sementi a prezzi maggiorati, non potendo essi riprodursi le sementi geneticamente modificate da usare l’anno successivo. Ciò provoca una dipendenza totale dei paesi poveri dalle multinazionali estere delle sementi e del germoplasma.

Le monocolture agrochimiche industrializzate richiedono l’abbandono dei procedimenti di rotazione delle colture e il periodico riposo del terreno. La conseguente perdita di fertilità del terreno costringe ad acquistare sempre maggiori quantità di fertilizzanti chimici.

Le varietà altamente produttive spesso hanno bisogno di trattamenti speciali (nuovi tipi di antiparassitari, anticrittogamici, pesticidi, ecc.) rivelando un’ulteriore dipendenza dalle multinazionali della chimica.

L’uso di insetticidi senza protezioni, la mancanza di acqua potabile per lavarsi e cucinare, l’uso dell’acqua dei pozzi o dei corsi d’acqua provoca gravi problemi di salute per i lavoratori agricoli e le loro famiglie.

La resa delle sementi tradizionali non può competere in quantità, qualità e prezzo con le produzioni transgeniche.

Tutto ciò produce emigrazione di milioni di contadini o verso altre terre da coltivare (aumentando la deforestazione e i dissesti idrogeologici), o verso le città con i conseguenti problemi sociali, emarginazione, conflittualità che sorgono nelle baraccopoli.

Quali orientamenti prevarranno nella prossima conferenza della FAO? Prevarranno scelte di sviluppo agricolo che diano lavoro e cibo delle popolazioni impoverite, o i profitti delle multinazionali?

Ma c’è un altro pericolo: potrebbe accadere che gli interessi contrapposti siano tali da limitare le conclusioni a dichiarazioni di principio. Anche questa soluzione non dispiacerebbe alle multinazionali agro-alimentari, perché significherebbe non dover assumere impegni vincolanti: senza norme e vincoli, alla fine prevale l’arroganza dei i più forti .

E’ importante allora che le organizzazioni sociali, laiche e religiose, le forze democratiche, sindacali e politiche, facciano di questo problema oggetto di riflessione, facciano sentire la loro voce a chi discute nel vertice FAO e manifestino in modo pacifico ma visibile, per far prevalere la globalizzazione dei diritti fondamentali.

E’ indispensabile aprire attraverso gli organi di informazione un dibattito su queste problematiche, rompere questo silenzio. E’ urgente una presa di coscienza diffusa delle scelte e interessi che producono una immane, colpevole e intollerabile strage di poveri affamati, dodici volte i morti pianti l’11 settembre ogni giorno.