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Afghanistan: nebbia, bombe e papaveri

Non è facile capire la politica militare USA in Afghanistan. Si ha la sensazione che si perda nella nebbia, dove solo a tratti appare un abbagliante sole sanguigno. La guerra sembrava finita, questa almeno era la sensazione diffusa dalle corrispondenze della stampa. L’operazione "Anaconda", la battaglia di Gardez e la trappola dove sono morti nove soldati americani e 40 sono rimasti feriti hanno colto di sorpresa l’opinione pubblica.

L’America è profondamente turbata e comincia a temere che l’Afghanistan si trasformi in un nuovo Vietnam. Il duello fra Davide e Golia, l’incubo del gigante che non può schiacciare la pulce si agita nelle coscienze dei cittadini USA. I quali non possono dimenticare che era stato assicurato fin dall’inizio che l’intervento in Afghanistan non sarebbe stato né una Normandia per quantità di truppe, né un Vietnam per massacro di militari: tutto si sarebbe ridotto a qualche massiccio bombardamento, a nugoli di B52 e di aerei senza pilota, e a qualche drappello di forze speciali che si sarebbero limitate ad aiutare i guerriglieri afgani contro i Talebani.

Purtroppo ci sono già 65.000 soldati americani nel teatro di guerra afgano, e altri 5.000 sono in arrivo. Temere un nuovo Vietnam è inevitabile: più soldati combattono, più è probabile perdere politicamente la guerra. Il dilemma infatti è il seguente: se gli USA non aumentano le proprie truppe, non possono vincere, né catturare Osama bin Laden e lo sceicco Omar. Se invece le aumenta, cresce il numero dei caduti in battaglia, e allora il fronte interno vacilla e sbanda. A questo punto si spalanca "la botola - scrive Vittorio Zucconi del - pagheremo ogni prezzo per difendere la libertà dell’America", come ha dichiarato Bush nei giorni della battaglia di Gardez con le prime grosse perdite americane. Una botola, anzi un buco nero in cui l’America non vuole sprofondare, perché troppo le ricorda il Vietnam che militari e politici avevano giurato di non ripetere, e in cui invece sembrano già impantanati.

Comincia allora ad affiorare il dubbio, gli americani e non solo loro cominciano a porsi delle domande: qual è il vero obbiettivo della guerra? Abbattere il regime talebano, catturare bin Laden e Omar? Pacificare l’Afghanistan, di cui si controlla ora solo Kabul? Attaccare e distruggere i terroristi dovunque si trovino: in Irak, nelle Filippine (dove già si combatte), nello Yemen, in Somalia o in Geòrgia? Dove ancora? Quando si potrà parlare di vittoria?

Tra queste domande si insinua lo spettro del Vietnam. Kabul non è Saigon, commenta Zucconi, "ma neppure il Vietnam sembrava il Vietnam, all’inizio".

Intanto l’opinione pubblica di tutto il mondo apprende con stupore che l’effetto collaterale più imponente di questa confusa e nebbiosa guerra è stato l’aumento della produzione di oppio in Afghanistan, dove fioriscono ampie distese di papaveri per 55.000 ettari. Approfittando della guerra e del seguente stato di anarchia, trafficanti e contadini hanno ricominciato a piantare papavero da oppio.

Il raccolto primaverile si prevede attorno alle 2.300 tonnellate, in grado di trasformarsi in 230 tonnellate di eroina pura. L’oppio afghano trasformato in eroina si riverserà per una buona metà in Europa e in America per un fatturato di oltre 50 miliardi di euro (pari a circa 100.000 miliardi di lire).

La guerra paradossalmente non semina solo denti di drago, ma semina anche oppio che a sua volta produce eroina alimentando il mercato di morte per droga. Ciò getta un ulteriore dubbio sulla chiarezza di idee del Pentagono sulla condotta della guerra e le sue conseguenze.