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Dopo le grandi piogge: quello che non abbiamo imparato

Il territorio ha tenuto? Il clima sta cambiando? E sono da temere conseguenze drammatiche? Gli interrogativi sulla politica ambientale dopo le piogge e frane di fine novembre.

Il territorio ha tenuto oppure no? E’ stata superata la prova? Queste le domande dopo le piogge di fine novembre, le frane, le strade interrotte, i corsi d’acqua minacciosamente sopra il livello di guardia.

Opere di imbrigliamento in un corso d'acqua montano.

Nel 1996, nell’anniversario dell’alluvione che inondò Trento e le valli, pubblicammo un’inchiesta dal titolo: "Trent’anni dopo: oggi cosa accadrebbe?". Ora, dopo gli ultimissimi accadimenti, tentiamo di aggiornare le conclusioni di allora.

Dunque, innanzitutto alcuni dati di fatto. Hanno suscitato allarme i fiumi e i grossi corsi d’acqua. Non i torrenti e i ruscelli. Le situazioni di crisi sono venute soprattutto dai versanti, dai prati in forte pendenza: di qui le frane, che hanno investito le case e inghiottito le strade.

Di qui le opposte valutazioni: "il territorio ha tenuto" secondo l’assessore Grisenti. "Abbiamo avuto conferma della fragilità del Trentino" secondo l’ex assessore Micheli.

"Il fatto è che l’acqua è stata tanta, ma molto diluita nel tempo – spiega il dott. Mario Cerato, dirigente del Servizio Sistemazioni Montane – Per questo sono rimasti tranquilli i torrenti (che risentono delle piogge violente, molto concentrate), hanno destato preoccupazione i fiumi (sensibili soprattutto alle grandi, lunghe piogge su tutto il bacino) sono entrati in crisi i versanti, messi in movimento dalla grande quantità d’acqua."

Come prima conclusione potremmo essere abbastanza tranquilli, se l’evento, come da più parti detto, fosse "eccezionale". Il fatto è che due anni fa, nell’autunno 2000, si ebbe un evento del tutto analogo, i fiumi raggiunsero le stesse quote, praticamente identiche, e anche allora si parlò di "evento eccezionale", con tempo di ritorno (probabilità statistica che si verifichiancora) di 100 anni. E invece, due anni dopo, ci risiamo. Sorge il dubbio: non è che il clima stia effettivamente cambiando, e che quindi anche gli strumenti statistici siano da rivedere? E che quindi sia saggio prevedere precipitazioni più intense di quelle cui eravamo abituati?

"Sul cambiamento del clima gli studiosi sono al lavoro, e non sono ancora pervenuti a risultati sicuri – ci risponde Cerato – Però sappiamo che i cicli piovosi ci sono sempre stati: per esempio la grande alluvione del 1882 fu accompagnata negli anni prossimi da altri due eventi consimili; e poi per decenni si susseguirono precipitazioni normali. Io non considererei superata la strumentazione statistica che abbiamo."

Di diverso avviso è l’avv. Gianluigi Ceruti, esperto in diritto ambientale, vice-presidente di Italia Nostra nazionale, già deputato per i Verdi, oggi docente presso la Scuola di specializzazione in Gestione dell’ambiente naturale.

"I mutamenti del clima, che oggi possono per vari motivi essere violenti e imprevedibili, vanno prudentemente messi nel conto. Faccio un esempio: la piena del Po che nel 1951 allagò il Polesine, si verificò con una portata di 11.000 metri cubi al secondo, che giustamente fu considerata eccezionale. Da allora in poi infatti, le piene giunsero a un massimo di 9.000 mc/sec. Bene, gli argini sono stati rinforzati per resistere a una portata di 11.000 metri cubi: questo mi sembra un livello di precauzione adeguato."

l Trentino nel corso dei secoli ha imparato dai disastri – sostiene Walter Micheli, già assessore provinciale all’ambiente – Dopo la disastrosa alluvione del 1882 fece aprire a Vienna una laurea in Ingegneria Forestale; dopo quella del 1966, diede luogo al Piano urbanistico, dopo Stava, alla legislazione ambientale…"

IIn effetti dal ’66 l’effetto combinato della cura dei boschi da parte dei forestali, e la trasformazione dei pascoli in bosco, come conseguenza dell’abbandono della montagna, ha portato a un raddoppio della biomassa delle nostre foreste: con tutti i noti effetti positivi in termini di trattenuta della pioggia e consolidamento del suolo. Contemporaneamente la cura dei bacini montani, le briglie che diminuiscono le pendenze, hanno di molto attenuato l’azione dirompente dei piccoli torrenti in piena lasciati a se stessi.

Ma a questa positiva azione dell’uomo, se ne è associata una negativa, che probabilmente la ha controbilanciata. Si tratta dell’estendersi in ogni dove delle opere di impermeabilizzazione ed urbanizzazione. Le prime impediscono il deflusso delle acque nel terreno, e convogliandole direttamente nei corsi d’acqua, eliminano la funzione-spugna del territorio, e tagliano i tempi che intercorrono tra la pioggia e il deflusso del torrente.

Canalizzazione per proteggere un insediamento.

Ancora più grave è l’estendersi indiscriminato dell’urbanizzazione. Le costruzioni situate in zone a rischio costituiscono un evidente pericolo: e difatti lo si è visto in questi giorni, con le frane e gli allagamenti. Ma anche le opere di protezione si rivelano, in un’ottica complessiva, ancor più dannose. Infatti, se per proteggere una casa devo canalizzare un ruscello, ne diminuisco la dispersione dell’acqua nel terreno, e ne aumento la velocità: questa dinamica, moltiplicata per i tanti insediamenti in zone a rischio, aumenta artificialmente la pericolosità delle precipitazioni.

"Irrigidire i fiumi, è un errore che si paga. Cementificarli e poi farne canali, è semplicemente sconsiderato – afferma Ceruti – Ora, il Trentino è meno colpevole di altre regioni, come la Campania o la Calabria, ma anche da voi ci sono errori gravi, opere non solo inutili, dannose.

"Le canalizzazioni dei piccoli corsi d’acqua la facciamo solo dove siamo costretti: per smaltire le portate nelle aree abitate – ci risponde il dott. Cerato – Certo, la diminuzione del rischio si dovrebbe fare, prima ancora che con mezzi tecnici, con l’oculatezza dell’urbanizzazione: il che non sempre accade."

Il caso più clamoroso? L’Avisio. Responsabile delle piene che nel corso della storia hanno allagato Trento, viene sconsideratamente provocato. L’area del suo alveo viene invasa di costruzioni, una volta realizzata la strada di fondovalle, intorno stanno sorgendo come funghi aree artigianali, per proteggere le quali si costruiscono argini, muri, che aumenteranno ancora portata e velocità dell’acqua.

"Nell’urbanistica c’è poca considerazione delle esigenze dell’acqua – conferma Cerato – La fascia di rispetto dell’Avisio è fissata in 10 metri. Ma il fiume ne vuole almeno 50." E prima o poi se li prenderà.

"In certe aree non si dovrebbe costruire. Punto e basta. Vediamo quello che succede sull’Etna – risponde Cerato – Io non credo che si dovrebbe intervenire neanche con una lira di risarcimenti. Che non bisogna costruire nelle aree vulcaniche lo si sa. Eppure sulle falde del Vesuvio sono cresciute delle città. Che sarebbero da abbattere subito, invece che risarcire quando se le prenderà la lava."

Probabilmente è vero che il Trentino ha imparato da ogni catastrofe. Ma forse non ha ancora imparato abbastanza.