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QT n. 4, 22 febbraio 2003 Monitor

Un Eduardo minore

In scena all'Auditorium di Trento, con i bravissimi Silvio Orlando e Rocco Papaleo, gli atti unici minori di Eduardo De Filippo: spettacolo forse debole, eppur divertente.

Alessandro Contino

Eduardo al Kursaal: è un’opera giovanile di Eduardo. Un pot pourri della napoletanità, uno spettacolo a episodi proprio come un piatto di fritto misto: si gustano piccoli e diversi personaggi della farsa napoletana, reinventati e attualizzati da Eduardo sulla scorta di quanto aveva fatto suo padre Scarpetta. Uno spettacolo fatto per la risata immediata che De Filippo metteva su per riempire il tempo tra un’opera di maggiore impegno e un film, in poche parole, per fare soldi. Non è l’Eduardo delle grandi commedie che scriverà più avanti e che lo renderanno un monumento del teatro; questo è solo un gioco, una farsa.

Silvio Orlando.

Apre le scene l’internazionale prestigiatore napoletano dalla lingua sgrammaticata: Silvio Orlando, bravissimo, e Rocco Papaleo, bravo anch’egli, ingaggiato come spettatore-spalla per i soliti trucchi, ma la messa in scena dei trucchi è rimandata alla fine. Segue infatti la recita della disatrosa sala di incisione con musicisti falliti e malati, e zoccole elevate al rango di grandi cantanti: si pestano, si insultano, si fanno le corna, suonano malissimo, non incidono. Poi la scena del morto, emblematica quanto comica la gigantografia del morto sul fondale, con la moglie che non si rassegna e sguaita, l’impudente vicina di casa, l’immancabile portiere dello stabile che rivendica denaro dal defunto, i compagni di lavoro del morto che sfogano il proprio malocchio ai danni di un poveretto di passaggio.

E’ poi la volta dell’affollato Club degli Aristocratici Cacciatori, in realtà una bisca clandestina gestita dalla malavita, dove si truffano ingenui pollastri.

Infine la paradossale scena della moglie isterica che si calma solo se il marito le spara un colpo di pistola (a salve, ma lei non la sa, e crede ogni volta di essere graziata della Madonna). Il povero amico del marito è la vera vittima di questo assurdo comportamento, forse un po’ metafora del vecchio maschilismo italiano.

Un applauso tutto speciale è andato ad una vera attrazione: il gallo sbucato dal cappello di Papaleo, che ha chiuso le scene: è l’ennesimo ma definitivo punto risolutivo, quello in cui si sciolgono tutte le trame. Riassumendo, hanno evocato sulla scena la magia, l’arte e la povertà, la morte e la scalogna, la truffa e la delinquenza, l’amore, la discordia e la morte. Ciclicamente chiude la magia, che all’insaputa del ciarlatano si fa vera magia: il colombo diventa un gallo.

E’ stato uno spettacolo debole in certe parti, ma tutto sommato divertente; ci siamo fatti trascinare dalla lingua, e dalla battuta ad effetto. Esattamente come doveva accadere cinquant’anni fa.

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