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QT n. 6, 22 marzo 2003 Monitor

“La finestra di fronte”

Interessante, ben costruito su una densa rete narrativa, seppur con limiti di svolgimento, il film di Ferzan Ozpetek sulle differenze dei punti di vista.

Una coppia neo-proletaria, Giovanna e Filippo, si prende cura di un vecchio che ha perso la memoria. Seguiamo l’anziano nel suo vagare per Roma senza meta apparente: presto le sue gambe lo portano a cercare il ghetto. Il suo polso ci mostra che è un reduce dei campi di concentramento. Il rapporto del vecchio con la sua memoria e i suoi sentimenti mai dimenticati si intreccia quindi con la storia di una famiglia, la cui saldezza è minata dall’insoddisfazione - soprattutto lavorativa - dei due coniugi. In più, la finestra di fronte è abitata da un dirimpettaio, interpretato da Raoul Bova, dal quale Giovanna rischia di lasciarsi sedurre.

La trama de "La finestra di fronte" poggia su un’architettura piuttosto ben studiata ed efficace. Sotto la superficie, il tema su cui si basa il nuovo film di Ferzan Ozpetek è importante e profondo: sviluppato in varie forme, il tema è quello dell’assunzione di un punto di vista esterno e dell’uscita dagli schemi abituali, più comodi, di interpretazione.

Questo nucleo non è mai nascosto: viene suggerito dal titolo e poi reso esplicito. Il film non si limita però a raccontarci la storia di qualcuno che riesce a guardarsi dalla finestra di fronte, ma è capace anche di tessere la costruzione scenica in funzione di questo presupposto: le persone, le situazioni, le cose, sono ambigue. Tutto dipende dal punto di vista con cui le si guarda.

Due esempi. Il primo può essere costruito a partire dalla parola "cibo". Nel film, la parola "cibo" si declina principalmente in "torte": quelle che prepara Giovanna (lo fa come secondo lavoro per il pub di un’amica) e soprattutto i capolavori del vecchio ebreo smemorato, che prima della pensione era stato un famoso pasticcere. Non ci viene in mente subito, però, che la parola "cibo" è evocata anche dalla prima professione di Giovanna, che lavora come contabile in un pollificio. Se pensiamo alla parola "cibo", quindi, occorre ricordarsi di guardarla da tutti e due i punti di vista presentati dal film: "cibo" non è solo la torta al cioccolato ma anche i polli che penzolano sgozzati dai ganci, pronti a essere decapitati dall’operaia cinese. E’ un gioco delle ambiguità tra acquolina e disgusto.

L’altro esempio: l’anziano smemorato, prima di fare il pasticcere, da giovane era garzone in una forneria: una professione "buona" per definizione. Ma se appena si prende la parola "forno" e si pensa alla religione del fornaio e poi alla storia ebraica, le reazioni provocate da questo significante sono molto diverse. Sono piccole distorsioni nei punti di vista, che provocano distorsioni emotive difficili da sanare.

Il regista Ferzan Ozpetek ci invita quindi, sin dalla costruzione del film, a saper uscire dal punto di vista più facile, a guardare la realtà con gli occhi di chi la vede dal di fuori. La conseguenza diretta di queste premesse è quella del titolo: anche la propria vita, la propria famiglia, il proprio rapporto di coppia, bisogna saperli vedere da un punto di vista secondario, non usurato, non immediato. Questo cambiamento percettivo svelerà per forza qualcosa di nuovo su noi stessi.

D’altra parte, il messaggio proviene da un regista arrivato in Italia dalla Turchia per studiare cinema e poi stabilitosi qui. La sua sensibilità al diverso non ha niente di artificiale: il diverso - l’omosessuale, l’ebreo, lo straniero - è comunque portatore di punti di vista alternativi, perciò il suo contributo è positivo di per sé, a prescindere da quale sguardo in più egli suggerirà. Ozptek ha dovuto per forza guardare noi e la nostra storia dal di fuori. Ci invita, chiedendoci uno sforzo, a fare lo stesso.

Eppure, dopo aver evidenziato la densità di questa rete narrativa, occorre mettere in rilevo alcuni grossi limiti di svolgimento che pregiudicano in parte la riuscita del film: su questa struttura fondante viene costruito un edificio che sta sì in piedi, ma traballa decisamente. Ci sembra ormai di poter dire che è una caratteristica di Ozpetek quella di sfiorare in ogni film il confine con la soap opera. E l’operazione pare decisamente involontaria. Nella seconda parte, il film barcolla, la storia d’amore non conquista, il finale consolatorio infastidisce. Se nei dialoghi la sceneggiatura scorre via fluida, i momenti in cui i personaggi monologano sulla vita - per se stessi o per gli altri - risultano moraleggianti e banalmente verbalizzati.

Ma il film molte cose le dice bene, specialmente nel modo lieve in cui risolve la spiegazione della sua ipotesi di partenza: Giovanna, dall’appartamento del dirimpettaio in cui è finalmente penetrata, guarda le finestre di casa sua. Solo allora si rende conto di quanto sia calda e animata; di quanto vivi, veri siano gli spiriti che la abitano. In un’intervista, Ferzan Ozpetek ci ha raccontato la fiaba turca che gli ha ispirato il film: "Un bambino vede dall’altra parte del Bosforo una casa dal tetto dorato. Deciso a visitarla, attraversa lo stretto, ma quando arriva il sole si è spostato. Ora è il tetto della sua casa a risplendere di luce dorata."

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