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QT n. 7, 5 aprile 2003 Servizi

La grande paura

Dalla inquietudine domestica alla insicurezza globale.

Il 23 marzo, notte degli Oscar, il documentarista americano Michael Moore è salito sul palco a ritirare una statuetta. Al microfono ha pronunciato questo discorso di ringraziamento: "A noi piace la non-fiction e invece viviamo in tempi di fiction. Viviamo in un’epoca in cui abbiamo elezioni fittizie che eleggono un presidente fittizio. Viviamo in un’epoca in cui abbiamo un uomo che ci manda in guerra per ragioni fittizie. Che sia la fiction del nastro adesivo o la fiction dell’allarme arancione, comunque noi siamo contro questa guerra. Vergogna, Mr. Bush, vergogna. Quando hai contro il Papa e le Dixie Chicks, vuol dire che sei proprio finito."

"Bowling a Columbine", il documentario premiato, parla dei tanti paradossi americani. Il primo è il paradosso della sicurezza: più ci si dà da fare per difendersi dalla violenza, più alla fine si finisce per subirla.

Il secondo paradosso tutto americano è quello dell’educazione. Columbine è la cittadina americana teatro di una famosa strage in una scuola superiore. Il documentario procede attraverso una serie di domande ingenue: ma l’America sta educando i propri figli all’uso delle armi? Non è che una fabbrica di missili vicina a una scuola sia un cattivo esempio?

Terzo paradosso: Michael Moore - a partire da un’intervista al pacatissimo Marilyn Manson - ci mostra quanto poco diseducativi siano gli spauracchi che le grandi reti televisive non smettono di agitare e quanto poco educativi siano i messaggi "neutrali" che escono dalle cronache degli stessi grandi canali dell’informazione. Ecco il vero tema del film: la manipolazione della paura. Da parte della politica, dei media, delle multinazionali. Secondo Moore, è proprio questa manipolazione che porta ad aumentare la violenza.

Anche questa spiegazione è in gran parte ingenua, eppure la forza delle argomentazioni di Michael Moore sta proprio qui. E se c’è qualcosa che ci salva dai tanto vituperati sentimenti anti-americani è proprio la consapevolezza della presenza, nell’America della cultura, di anticorpi corpulenti come Michael Moore.

Un’altra domanda ingenua, e decisiva, Michael Moore l’ha fatta alla cerimonia degli Oscar. Perché, chiede, l’America oggi ha tutti contro? Perché ha contro uno schieramento che va dal Papa alle Dixie Chicks, cioè le Spice Girls del country? Questa domanda collega la costruzione domestica di una realtà fittizia alla sua costruzione globale. In questo mondo di fiction è utile creare una paura finta, a livello "micro" ("Tenete una pistola in casa") e a livello "macro" (un allarme terrorismo che periodicamente torna a superare i livelli di guardia). La creazione dell’ultima insicurezza immaginaria, Saddam Hussein. è in questo senso una macro-fiction potentissima.

Se pensiamo a quando la programmazione radiofonica de "La guerra dei mondi" aveva convinto migliaia di americani a intasare le strade in cerca di un improbabile rifugio, capiamo come, in certi momenti storici, basta pochissimo a creare la sensazione e poi subito la certezza di essere bersagli nel mirino di uno Sterminatore Alieno. Non a caso, la cultura islamica è ormai la più "aliena" rispetto allo stile di vita occidentale. La stessa presenza islamica in Occidente realizza un altro dei tòpoi del cinema di fantascienza: quella del nemico interno, tra noi, indistinguibile dall’umano in fattezze e comportamenti.

Creazione di un universo pauroso, di un mondo pauroso e di una società paurosa. Ecco dunque il collegamento tra l’insicurezza domestica e quella globale, che spinge a comprare il nastro adesivo per tappare ogni fessura alle proprie finestre: i nuovi Invasori Spaziali sono chimici e batteriologici.

Slavoj Zizek spiega questo trauma, causato dalla caduta delle Torri Gemelle, riconducendolo all’interno di una società americana che anche il filosofo sloveno paragona a una colossale fiction, che già contiene in se stessa la minaccia di una catastrofe. L’attacco dell’11 settembre, secondo Zizek, invece di aver risvegliato l’America da questa assenza dal reale, ha realizzato l’immaginario catastrofico hollywoodiano, e quindi, paradossalmente, ha confermato la fiction. Questo "inimmaginabile" era proprio l’oggetto di una fantasia di minaccia da tempo coltivata: l’America ha visto realizzato l’incubo "televisivo" sui cui aveva tanto fantasticato.

Rileggere alcune righe scritte da Zizek dopo l’11 settembre fa ulteriormente stupire e indignare per la piega che ha preso oggi il corso della storia: "L’America potrebbe persistere e rafforzare la posizione del ‘Perché dovrebbe succedere a noi? Cose come queste non dovrebbero succedere qui!’, con un conseguente aumento di aggressività verso l’esterno. Oppure potrebbe finalmente attraversare lo schermo fantasmatico che la separa dal mondo esterno, accettando di stare nel mondo Reale. Qui risiede l’unica lezione degli attacchi: l’unico modo per assicurarsi che non succeda più qui è impedire che accada in qualsiasi altro posto".