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QT n. 7, 5 aprile 2003 Servizi

Ma dove stiamo andando?

I quesiti che ci pone la guerra: cosa è l’”interesse nazionale”, quale realisticamente è nel mondo il ruolo dell’Italia e dell’Europa, quanto conta la forza delle idee, quanto la dignità dei popoli. I cinici hanno sbagliato tutti i calcoli: forse non hanno ragione loro. Un’intervista al prof. Sergio Fabbrini, politologo, dell’Università di Trento.

Si stanno disvelando gli effetti negativi dell’avventura bellica anglo-americana: con maggior anticipo e virulenza di quanto anche i critici più accesi si fossero immaginati. Tre erano gli obiettivi conclamati della guerra irakena: rovesciare Saddam; instaurare un regime democratico in Medio-Oriente; togliere un importante punto di appoggio al terrorismo. Ora, dopo i primi quindici giorni di guerra, non solo si sono mancati quegli obiettivi, ma si sono raggiunti risultati opposti. Saddam, prima isolato e screditato, ora è il difensore della patria per gli irakeni, il paladino della causa araba e in genere di tutti gli oppressi: la sua fine, peraltro più che probabile, apparirà come un martirio. In questo contesto anche la democrazia, già merce difficilmente esportabile, è improponibile, se portata dai vincitori di una guerra sanguinosa e devastante. Infine il terrorismo, che esce legittimato, anzi santificato, come estrema arma di risposta degli oppressi: da ogni angolo del mondo islamico sorgono a migliaia gli aspiranti martiri.

Come si vede, risultati devastanti. I folli progetti di potenza (disegnare l’Impero Romano del ventunesimo secolo) dei fondamentalisti insediatisi alla Casa Bianca, dopo aver isolato l’America, rischiano di trascinare l’intero Occidente in un pauroso vortice di azioni/reazioni/vendette/ritorsioni.

Per fortuna c’è un argine a questa deriva: il movimento pacifista, che con le sue dimensioni planetarie è riuscito nel non facile compito di far percepire anche agli islamici la scissione fra opinione pubblica, valori dell’Occidente, Chiese cristiane da una parte, e l’azione di alcuni governi dall’altra. Se oggi non si intravede uno scontro di religioni o di civiltà, se i giornalisti occidentali sono accolti fraternamente dalle popolazioni bombardate, lo dobbiamo ai milioni di persone, dal Papa all’ultimo dei manifestanti, che hanno espresso una visione altra dei rapporti tra nazioni e popoli.

Per questi motivi Questotrentino intende portare il suo contributo a questo movimento. Da una parte aprendo una pagina alla pubblicizzazione delle relative iniziative; dall’altra approfondendo alcuni dei tanti temi che la tragedia della guerra apre. Utilizzando in questo la peculiarità del periodico, che non può stare dietro al susseguirsi delle notizie, ma che può con più calma riflettere su argomenti altrimenti trattati superficialmente, e subito dimenticati. In queste pagine in un’intervista con il prof. Sergio Fabbrini, docente di Scienza politica alla facoltà di Sociologia di Trento, discutiamo dell’interesse nazionale, molla di tutti i comportamenti delle nazioni, secondo i (cinici) commenti di questi giorni; dall’altra parliamo della forza delle idee (e dei sentimenti) come pulsione degli uomini e motore della storia. Sono temi secondo noi di grande significato nei giorni in cui l’Europa entra in crisi e con essa l’idea di un "interesse europeo"; in cui piccoli, poveri stati dell’Africa si rifiutano di vendere il proprio voto all’Onu all’unica superpotenza mondiale; in cui un popolo si sacrifica stringendosi attorno al proprio pur tirannico governante.

Sono giorni in cui l’esercito più potente del mondo deve rivedere tutti i propri piani (dall’invasione da nord, non permessa dai turchi, alla sollevazione degli sciiti a sud, allo sbriciolamento del regime nel resto del paese) per aver considerato come irrilevante un fattore che invece risulta ancora fondamentale: la dignità dei popoli. Forse è vero che non siamo nell’età dell’Impero romano: dominare con la forza (ammesso che i romani usassero solo la forza) è oggi possibile?

C’è stato un gran discutere, nei giorni in cui si decidevano le posizioni delle varie nazioni rispetto alla guerra, di "interesse nazionale". "La Francia lo fa solo per il proprio interesse nazionale... anche l’Italia dovrebbe perseguire il proprio interesse nazionale..." ecc. Facendo per di più coincidere questo "interesse" con altri interessi più terra terra, i contratti della compagnia petrolifera, appalti, forniture militari. Di fronte ai grandi temi della pace e della guerra, del terrorismo e della sicurezza, del potere mondiale, dell’indipendenza dei popoli, è questa una visione realistica della politica, o invece miserabile, di corto respiro? Quella per cui l’Europa poi si arena sulle quote latte?

"La cosa importante è che siamo passati attraverso l'Onu".

"L’interesse nazionale - ci dice il prof. Fabbrini - è una metafora che nell’età moderna viene definita dall’élite al potere, per creare legittimazione consenso. In alcuni paesi europei, Francia, Prussia e poi Germania e Inghilterra, è una nozione che storicamente si è trasferita da élite a élite, incarnandosi nelle istituzioni statali, a prescindere quasi dai governi. Ad esempio la Francia si è sempre definita, sia nei governi di sinistra come di destra, come potenza mediterranea, con un rapporto privilegiato con il mondo islamico. O la Germania del dopoguerra, che ha elaborato il proprio passato come frutto del ‘diavolo tedesco’, pericolo da scongiurare immettendo la Germania in un’organizzazione sovranazionale come l’Europa. O l’Inghilterra come ponte tra Europa e America."

E l’Italia?

"Quello è il problema. Mancando di élite politiche, la vera politica estera della Dc è stata il sostegno alla politica della Chiesa cattolica. E il Pci è stato sempre diviso tra l’essere tra i padri della Costituzione e l’avere l’Urss come punto di riferimento."

Eppure c’è stata la costante filoeuropea.

"A parte con Degasperi, l’Italia nell’Europa ha avuto un ruolo minimo, svolgendo un’opera di mediazione, ma senza una visione propria. E questo atteggiamento è stato ripreso dalla destra, ma senza nemmeno il retroterra della Dc, la sua capacità di mediazione e la sintonia con la Chiesa. Ed ecco oggi l’Italia, senza una politica estera, vivere di mezzucci. L’Italia è uno dei grandi paesi che non ha un interesse nazionale, inteso come visione complessiva, non come supporto a qualche miliardo in appalti. Il fatto è che non c’è mai stato un vero interesse per la politica estera, non a caso relegata, nei giornali, nelle pagine interne."

In queste carenze tutte italiane rientra anche la cultura dei commentatori politici? Quelli per i quali la Francia si sarebbe opposta alla guerra per via dei contratti petroliferi della Elf?

"Certo. E’ miserevole dare tale importanza a un fattore secondarissimo, quando il punto vero è la visione del ruolo della Francia nel mondo.

In Italia invece, in assenza di una politica estera del governo, i cittadini se ne sono fatti una propria: opponendosi alla guerra non in base a una visione nazionale, ma seguendo il principio del pacifismo."

Si spieghi meglio.

"La società italiana è costretta a fare la politica estera da sola, sui grandi princìpi, mentre un governo dovrebbe guidare i princìpi verso obiettivi. Prendo ad esempio il ministro degli esteri tedesco Fischer, un grande politico, ma proprio perché parte da una visione complessiva: la necessità di definire una politica estera europea, con un seggio unico – dell’Europa, non di due paesi – nel Consiglio di sicurezza dell’Onu, il che constringerebbe i vari paesi alla discussione, al confronto, impedendo che ciascuno vada per conto suo".

Ma in questo revival di "interessi nazionali" ci può essere posto per un "interesse europeo"?

"Dovrà nascere da una negoziazione tra i punti di vista nazionali. Però si deve sapere quali sono questi punti di vista. E’ il caso dell’Italia (che per esempio si è ben guardata dal porsi come parte attiva della soluzione del problema Israele-Palestina, su cui l’Europa potrebbe essere risolutiva, proponendo un’associazione al proprio mercato); ci sono i nuovi paesi europei, che preferiscono il rapporto con una potenza lontana come gli Usa piuttosto che l’egemonia francese o inglese; i paesi scandinavi... Come uscirne? Come proposto da Ciampi, con un’azione di promozione da parte dei sei paesi fondatori".

E’ una proposta realistica? A parte l’accidente (transitorio, speriamo) del governo Berlusconi?

"Beh, nel centro-destra di sicuro non c’è l’obiettivo dell’Europa come polo politico. Quando Berlusconi propone l’ingresso non solo della Turchia, ma anche della Russia, vuol dire che vede l’Europa solo come area di libero scambio. In senso contrario sta invece lavorando, in collegamento con Ciampi, Giuliano Amato, come vice-presidente della Convenzione per la Costituzione europea, cui in pratica è stata delegata la scrittura della Costituzione. Si punta su istituzioni che obblighino i paesi nazionali ad approssimarsi per arrivare a un’unica posizione europea, sulla falsariga del posto unico nel Consiglio di Sicurezza all’Onu. Così nel WTO c’è un unico rappresentante europeo, cosa che già si è rivelata feconda: è stata proprio l’Europa a spingere per la riduzione dei debiti dei paesi del Terzo mondo, e per i protocolli di Kyoto".

Qui arriviamo al cuore del problema. L’Europa deve avere una voce unica, d’accordo. Ma per fare che cosa?

"Non può essere un’altra America, un’altra vera potenza militare, per il ritardo tecnologico e per la riluttanza ad investire così tanto in armamenti. Dovrà essere una potenza civile, che promuove il diritto, di cui vediamo una prima espressione nel Tribunale Penale Internazionale. Dovrà giocare la sua forza, anzitutto economica, per impedire gli abusi.

Ma non potrà essere del tutto imbelle; dovrà avere una propria capacità militare, soprattutto per interporsi in situazioni critiche, per pacificare, in aree come i Balcani o la Palestina".

Disegno di Toti Buratti.

Qui arriviamo a un altro dei grandi temi che ci paiono sollevati in questi giorni: la forza delle idee, contrapposta alla forza delle armi o alla visione miserevole degli interessi spiccioli. Nel soldato irakeno che invece di arrendersi va con il suo ferrovecchio contro i tecnologici supertank alleati, per difendere il suo paese pur governato da un tiranno, non c’è qualcosa che va oltre gli schemi brutali dell’arrogante superiorità del più forte e ricco?

"Il grande errore della destra è storicamente stata l’idea che tutto si giochi sul piano dei meri interessi; e quello della sinistra più rigida il ricondurre tutto alle condizioni materiali. Invece più studiamo la politica, più vediamo come essa sia motivata da una congerie di opinioni, di sentimenti, che non hanno sempre a che fare con gli interessi.

Così oggi: l’idea forte è che il mondo non è una giungla in cui domina il più aggressivo, ma un insieme ordinato. L’America migliore non ha esercitato un predominio, ma un’egemonia, ponendosi dei vincoli con la creazione delle istituzioni multilaterali, l’Onu, la stessa Nato, gli accordi commerciali del Gatt. Ed è dentro queste istituzioni che è cresciuta l’idea del diritto internazionale: è la rivincita di Kant, contro i cinici che, anche a sinistra, vedono tutto come rapporti di potere."

Così abbiamo oggi un’opinione pubblica...

"Appunto, oggi il New York Times afferma che al mondo esistono due superpotenze: Bush e l’opinione internazionale. La quale non a caso si è mobilitata su un principio giuridico, che nessuna guerra è legittima se non approvata dall’Onu".

Veramente, se Colin Powell fosse riuscito a comperarsi qualche paese dell’Africa o del Sudamerica, la guerra ci sarebbe stata con l’avallo dell’Onu. E il movimento di opposizione ci sarebbe stato ugualmente.

"Ma qui sta il punto: Powell e Blair quei paesi non sono riusciti a comperarli. Oggi non è così facile. E’ cambiato lo spirito dei tempi".

E’ lo stesso motivo che anima la pur disperata resistenza irakena. E che rende velleitari i disegni di ridisegnare un nuovo Impero Romano...

"Certo. E’ un errore tragico questo dell’attuale amministrazione americana. Dall’Impero romano sono passati duemila anni, e non tutti invano. Con Internet, i giornali, le Tv, i popoli hanno cultura, mezzi di espressione. Non è il mondo che si immaginava Rumsfeld".