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QT n. 13, 28 giugno 2003 Monitor

“Goodbye, Lenin!”

Un film mal fatto, eppure di grande successo in Germania: centra in pieno il dramma del crollo di un ideologia e i traumi personali che ne conseguono.

In Germania, lo scorso inverno, un film tedesco ha causato lunghe file agli ingressi dei cinema e lunghe lacrime in uscita. Il film, ambientato a Berlino Est, è la storia di una mamma, fedelissima del socialismo reale, che va in coma poco prima della caduta del muro. Il figlio, oppositore soft del regime, per non crearle traumi, predisporrà uno scudo protettivo intorno a lei, facendole credere che la DDR esista ancora.

"Goodbye, Lenin!" è un film che in Germania, evidentemente, si attendeva da anni. Descrive uno smarrimento che aspettava di essere sublimato in immagini. Il tempo che è passato dal biennio 1989-1990 in cui si svolge l’azione (si sono dovuti lasciar passare più di dieci anni) fa capire quanto quegli eventi storici, noti per lo più nella loro faccia gaudiosa, fossero allo stesso tempo un trauma che andava riassorbito. Un trauma per i tedeschi dell’Ovest - impreparati all’incontro-scontro con quei cugini così lontani e così vicini - e, soprattutto, per i cittadini dell’Est. Da un giorno all’altro spariscono dai loro supermercati le rassicuranti marche alimentari provenienti dai Paesi del patto di Varsavia, sostituite dai prodotti dell’Occidente. Il film, abbastanza banalmente, ci dice che l’arrivo concreto del capitalismo coincide con l’avvento del più scontato dei suoi simboli: la Coca-Cola. Questa rivoluzione nel sistema degli oggetti risulta quasi più traumatica del crollo dell’ideologia. L’ideologia è facciata, i cetrioli sostanza. Ma la nostalgia che fa commuovere gli spettatori nelle sale è dovuta al fatto che simbolicamente, con le merci, è stato rimosso il passato di mezza nazione (non si piange certo per il rimpianto di Honecker).

Per noi italiani il film risulta non riuscito, se lo guardiamo trascurando o non essendo coinvolti nelle vicende emozionali, fermandoci al livello della narrazione cinematografica. Il film sviluppa male l’ottimo spunto della storia, non tiene il ritmo del racconto, si perde in rivoli, non sa scegliere un registro. La regia sembra confusa, troppo coinvolta e tremante di insicurezza. Possibile che in almeno una ventina di inquadrature entri "la giraffa", cioè l’asta a cui è attaccato il microfono per la presa diretta? Il regista è emozionato e frettoloso: sembra avere l’ansia di dover al più presto raccontare una storia che tutti stanno aspettando di sentire.

Ma la parte che, a livello teorico, interessa di più del film, è quella della costruzione fittizia del comunismo: un figlio che ricrea, per la madre che vuole crederci, il comunismo "in una sola stanza". Questa finzione del figlio non è altro che la ridicolizzazione della stessa, tragica costruzione fittizia della realtà messa in atto dal regime della DDR. La madre, a questa fiction, voleva credere già prima; è normale che voglia continuare a crederci anche dopo.

Insomma, se il figlio inventa per la madre un comunismo "finto" quando il muro è caduto, già prima il socialismo reale era anch’esso una fiction cui si era costretti ad adattarsi. "Fiction" a partire dai telegiornali, che raccontavano una realtà addomesticata, addolcita, un mondo inesistente, in cui l’Occidente capitalista guardava con invidia ai successi economici e tecnologici dei regimi dell’Est. Oppure la fiction delle manifestazioni di massa, costruite in modo da far sembrare il consenso spontaneo e entusiasta. Lo stesso nome DDR, Repubblica Democratica Tedesca, nascondeva sotto la parola-fiction "democrazia" uno stato poliziesco.

Insomma, questo sceneggiare il comunismo da parte del protagonista del film ricalca una messa in scena propria del regime stesso. Come scrive il filosofo lacaniano Slavoj ¦izek, il socialismo che si dice "reale" aveva invece creato una societa di pura apparenza: "L’intero sistema tendeva a mantenere l’apparenza di una popolazione unita nel desiderio di sostenere il partito e di costruire entusiasticamente il socialismo; si susseguivano gli spettacoli ritualizzati ai quali nessuno ‘credeva veramente’, e benché tutti sapessero che nessuno ci credeva, i burocrati del partito erano straordinariamente terrorizzati dall’idea che l’apparenza della fede potesse disintegrarsi. Essi percepivano una simile disintegrazione come la catastrofe assoluta, come la dissoluzione dell’intero ordine sociale".

P. S. In coda a un articolo che in qualche modo parla di comunismo, non possiamo non menzionare la nostra condivisa ossessione, Silvio Berlusconi. Nell’aula di un tribunale, gli è venuto in mente di dire che la legge è uguale per tutti, ma per lui dovrebbe essere più uguale che per altri. Non si è reso conto che stava facendo una citazione involontaria dalla "Fattoria degli animali" di George Orwell. I maiali, che distorcono a loro vantaggio le comuni regole della convivenza, fanno scrivere sul muro della fattoria: "Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri." Ma il libro, appunto, non doveva essere una parodia del comunismo? La vecchia satira di Orwell alle dinamiche del potere dentro la fattoria degli animali va benissimo anche per la "nostra" azienda agricola.

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