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QT n. 16, 27 settembre 2003 Servizi

L’Europa sofferente e i suoi molti medici

A Trento, oltre cento studiosi al capezzale della grande malata. Con idee molto diverse. Cronaca del convegno “Europa in costruzione. La forza delle identità, la ricerca di unità”.

Più di cento studiosi si stanno interrogando con puntiglio da ore, nell’aula Kessler dell’Università di Trento, su ciò che distingue la “scienza politica” dalla “sociologia politica”. Non trovano l’accordo ovviamente, come scolastici medievali impegnati a dibattere sul sesso degli angeli. E’ la “cosa”, ciò che studiamo, o il “punto di vista” da cui la studiamo, o piuttosto i “numeri” che ad essa applichiamo, che ci distingue? E che cosa allora ci unisce? Gli ingegni a confronto sono quelli di Gian Enrico Rusconi, di Leonardo Morlino, di Gianfranco Poggi.

Gian Enrico Rusconi.

Si alza a un certo punto dalla platea Ilvo Diamanti, e trascina il dibattito, dal cielo rarefatto dell’universo, sulla terra polverosa d’Italia. Si interroga: “Sono io un politologo, un sociologo, un esperto di marketing, o uno studioso di teoria della comunicazione, quando analizzo il partito che ha Forza Italia per nome?”

I politologi, asettici e freddi, quelli almeno che mi stanno vicini, sorridono rinfrancati, rallegrati anzi, dalla domanda semplice semplice. Ma Gian Enrico Rusconi, incupito, subito li disillude: “Quando io provo a spiegare il fenomeno Berlusconi ai colleghi al di là delle Alpi, essi strabuzzano gli occhi. Non capiscono, o io non riesco a farmi capire.”

Così, brutalmente, l’Italia è collegata, oltre le Alpi, all’Europa, e la “scienza politica” alla “sociologia”. E tutte insieme, le scienze, l’Italia, l’Europa, alla “storia”. Non è sorpreso il vecchio cronista se l’attualità entra, senza ritegno, con nome e cognome, a scompaginare, sia pure con grande rispetto, la pura teoria delle scienze chiamate a interpretare il nostro presente di cittadini. Lo attendeva anzi, da una buona mezzora, questo momento. Né scandalizzati saranno i lettori di Questotrentino.

Girolamo Arnaldi.

Qualche lettore strabuzzerà forse gli occhi al sapere invece che nell’Aula Grande dell’Istituto Trentino di Cultura, in Via Santa Croce, a definire “demente” il nostro Presidente del Consiglio è Girolamo Arnaldi. Egli è infatti uno storico del Medioevo, uno dei massimi, docente all’Università La Sapienza di Roma. Si occupa di papi e di imperatori, di ordini mendicanti, di contadini e di borghesia. E’ lì invitato a tenere una lezione sul tema “Gli Studia / Die Hoehen Schulen” dal Centro per gli Studi Storici Italo-Germanici, in occasione del convegno “Europa in costruzione. La forza delle identità, la ricerca di unità” (secoli IX-XIII).

Che cosa può essere successo di tanto grave, nell’età di mezzo, fra Carlo Magno imperatore e papa Bonifacio VIII, per spingere un anziano, e fragile, storico medievista a qualificare il nostro premier con l’aggettivo su riferito, non proprio un elogio? Allora non avevano inventato lo Stato moderno, né quindi le dittature, sia pure benigne. La magistratura non era un potere separato, e quindi i magistrati non potevano impazzire nel loro delirio d’onnipotenza, nel tentativo d’instaurare il comunismo. Non c’era la televisione, né il conflitto d’interessi ad essa attinente. Né, credo - ma su questo potrei sbagliarmi - era stato inventato lo champagne da bere sulla terrazza di una villa in Sardegna.

E’ che con i fatti lo storico entra in un corpo a corpo continuo, pone loro domande sempre nuove, che vengono dal suo presente, dai suoi interessi di uomo di oggi. La storia è questo dialogo fra storico e fatti, fra presente e passato, e perciò non ha mai fine lo studio, nemmeno delle età più lontane. La storia, scrisse Walter Benjamin, non si costruisce in un tempo omogeneo e vuoto, ma in un tempo riempito di “adesso”. La condizione è che lo storico sia onesto e sincero, disponibile al confronto con altre interpretazioni, sia mosso solo dalla volontà di capire il presente attraverso il passato, e il passato attraverso il presente. E il futuro: quando interroghiamo il passato, lo facciamo mossi da progetti, da paure, da speranze, che nutriamo sull’avvenire. Girolamo Arnaldi polemizza a distanza anche con Marc Bloch, e la sua interpretazione delle invasioni barbariche, ma non lo chiama “demente”. Certo, quello è morto, armi in pugno, combattendo contro i nazisti. E poi, in fondo, per un’intera settimana, venticinque storici prestigiosi, italiani, tedeschi, e non solo, si arrabattano per confutare tacitamente, con tutte le precauzioni del caso, proprio la tesi del più noto fra loro, Jacques Le Goff, di cui la Repubblica diffonde la prolusione al convegno. “Gli Europei del Medioevo”, è il titolo dato in redazione.

Gli storici talvolta semplificano le cose, talaltra, da guastafeste, giustamente le complicano. A Trento sostengono che nel Medio Evo non esistevano gli Europei, né c’era l’Europa. In quello scenario, dai confini indeterminati, che oggi noi chiamiamo l’Europa, nascono identità politiche nuove (la Germania, la Francia, l’Italia, la Spagna), arrivano popoli nuovi (i Normanni, gli Slavi, gli Ungari, gli Scandinavi), si esercitano influenze dall’esterno (i Bizantini, gli Ebrei, i Musulmani), si formano lingue e scritture molteplici. E’ “diversità” la parola che spiega, l’identità che distingue, e separa. Non nasce l’Europa, capace di unire ciò che prima era diviso.

Dove il processo è di “unità” ci si riferisce alla Chiesa, all’Impero, che sono entità universali, non certo europee. La religione cristiana unifica certo, ma perseguita anche, ebrei, musulmani, ed eretici. Anche dove c’è ricerca dell’unità, trasversale, oltre i confini, nelle corti, nelle fiere, nei monasteri, nelle università soprattutto, non si pensa certo all’Europa. L’Europa era una pura espressione geografica, là dove vedevano tramontare il sole le civiltà affermate di allora, l’islamica e la bizantina.

E’ vero che un oscuro cronista franco definisce con l’aggettivo “Europeenses” gli eserciti di Carlo Martello ordinati sul campo, a Poitiers, nel 732, a contenere l’espansione dei musulmani. Ma poi gli Europei si sono maciullati fra loro per secoli sui campi di battaglia, fino alle guerre mondiali del XX secolo. E’ dopo l’immane catastrofe, alla metà del “secolo delle tenebre”, che i francesi Jean Monnet e Robert Schuman, il tedesco Konrad Adenauer, e l’italiano Alcide De Gasperi, si pongono come progetto l’Europa. E nonostante i successi (la moneta dell’euro è il più importante), il percorso sarà, ed è, travagliato.

Alberta M. Sbragia, dell’Università di Pittsburgh, nell’introduzione al Convegno degli scienziati della politica, afferma infatti che a tutt’oggi non esiste un’identità europea, una solidarietà che oltrepassa le frontiere tra popoli. La democrazia si è affermata, è connaturata agli Stati-nazione, ma è impensabile in Europa una democrazia post-nazionale. Dove non esiste il demos, non può nascere, sa il politologo, la democrazia. Ma il politico non è un politologo, né un sociologo, riconosce con rispetto la scienziata americana: il politico può anche spezzare le catene causali della scienza. Nella storia, dove non c’è demos, nè quindi democrazia, si può però avviare un processo di democratizzazione.

Colpisce la simpatia, quasi la compassione, con cui Alberta M. Sbragia descrive i tentativi, i piccoli passi, i compromessi, su paragrafi e articoli della Costituzione, in cui si arrovellano i politici per approdare agli Stati Uniti d’Europa. Inietta in loro fiducia quando si domanda, senza retorica, se oggi la California, con i suoi trenta milioni di abitanti, entrerebbe a far parte degli Stati Uniti d’America, accanto al Wyoming, il cui mezzo milione pesa enormemente di più nell’elezione dei due senatori che spettano ad entrambi gli stati.

Sono complessi i problemi nell’impervio processo di democratizzazione su cui siamo avviati. Che cos’è la cittadinanza europea? Come difendere, e riformare, il Welfare di cui ci siamo dotati? Come si contano i voti? Come rapportarsi all’unica superpotenza, l’americana, che la storia ha prodotto? Come accogliere chi preme alla porta dal Terzo Mondo?

Si muove anche in modo an-intenzionale la storia. E’ la tesi di Giorgio Cracco, il direttore dell’Isig. Certo non sapevano, né volevano, essere europei, nel Medioevo, quei cristiani che inventano un cristianesimo per le città, oltre che per le campagne. Quella Chiesa che si organizza sul territorio in parrocchie, e in questo modo lo unifica. Quegli studenti che migrano, per imparare, da Parigi a Bologna, e viceversa. Sul piano dei sentimenti, si incomincia a sposarsi per amore, non per interesse. E’ questa l’Europa che vive oggi dentro ognuno di noi, anche se non ci pensiamo. Che si confronta con il patrimonio delle altre culture, invece che imporre il proprio con la violenza, come ha cercato di fare in più occasioni nel corso della sua storia.

Si muove anche dal basso la storia, in modo imprevisto: lo riconosce Gherardo Ortalli. Il movimento per la pace, sulla scia di Francesco d’Assisi, non ha portato la pace universale. Ma alle guerre fra Perugia ed Assisi abbiamo posto rimedio: furono nuove identità le nazioni che nacquero, ma anche tensione all’unità.

Dal basso il movimento new global oggi non si vergogna, in Europa, di occuparsi d’Europa, che è un pezzo del mondo da trasformare. Sono ruvide le sue parole, non hanno la compassione con cui lo storico guarda all’impresa che è immane. Ma le commissioni intergovernative da sole non riusciranno, hanno bisogno della scossa di chi pensa in modo immediato all’acqua, al cotone, all’istruzione, alla salute, alla pace. E’ senza garanzia di successo questo progetto, ma merita l’impegno che anche a Riva del Garda si è visto.

Che l’Europa si costruisca dal basso, anche da quello delle periferie, l’ha sostenuto a Trento, recentemente, in un’aula di Giurisprudenza affollata di docenti e studenti, anche Giovanni M. Flick, giudice della Corte Costituzionale. E’ la dimensione locale, i bilanci sociali, ambientali, di sviluppo sostenibile, di integrazione delle minoranze culturali e religiose, che possono fronteggiare gli interrogativi della globalizzazione. Flick non sapeva delle elezioni provinciali di Trento, ma noi lo sappiamo che a quel voto si decide anche l’Europa. Noi: gli studiosi compassati ai convegni, i giovani universitari, il variegato mondo new global. Il limite è che fra loro si conoscono poco.

Ma blaterare di Putin da trascinare oggi nel cantiere europeo, significa bloccare i lavori. Per questo Berlusconi è un demente: parola di Girolamo Arnaldi.