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“Elephant”: i tempi della scuola

Il film di Gus Van Sant, bello e angosciante, sulla strage nella scuola di Columbine: e sulla difficoltà a capire, sulla drammatica insufficienza di ogni spiegazione.

La prima inquadratura è sul cielo. L’inquadratura, classica, richiama quel cinema americano che esalta gli spazi aperti, la libertà, i pali della luce che collegano comunità distanziate dai deserti. Ma iniziano subito a emergere segnali di inquietudine: le nuvole sono troppo veloci, accelerate; il cielo è graffiato dalle scie degli aerei. Si fa buio in fretta.

Quando lo sguardo ci riporta alla terra, la temporalità si rallenta di colpo. Si capisce già che "Elephant" è un film riempito da questo lavoro sul tempo. L’azione si svolge attorno e soprattutto dentro una scuola superiore americana, che rappresenta Columbine, teatro della strage di studenti per mano di altri studenti. La storia la conosciamo già. Per inciso, è incredibile come due film diversissimi - questo e "Bowling for Columbine" di Michael Moore - siano riusciti ad affrontare un episodio di cronaca in modo così riuscito. Pensiamo a cosa succede in Italia, quando si affronta un soggetto della storia recente; a cosa verrebbe fuori da un film - ma sarebbe o sarà di sicuro un telefilm - su Novi Ligure...

Se conosciamo già la storia, aspettiamo di sapere come il regista ce la vorrà raccontare. L’interesse è catturato dai tempi del racconto. Il cielo è velocizzato e le azioni dei personaggi sono rallentate, come se l’occhio della macchina da presa - costringendo a osservare una selezionata porzione di realtà, e quindi a un’attenzione più profonda - fosse per sua natura simile allo sguardo di una mosca, che vede più lenti, più interpretabili e prevedibili, i movimenti attorno.

Sapendo che il film tratta la storia di Columbine, tutto lo svolgimento è un’attesa del momento terribile della strage. E’ un film d’attesa, un film che segue i suoi personaggi con discrezione, pazienza e affetto. La cinepresa di Gus Van Sant carrella precedendo e soprattutto seguendo da dietro le spalle gli spostamenti dei giovani protagonisti per i lunghi, asettici corridoi della scuola, il classico liceo visto mille volte - ma mai così - nei tanti film e telefilm sulle highschool americane. Armadietti, grandi palestre, spogliatoi, la bacheca delle coppe, studenti con le felpe addosso.

Sembrano tutti in grado di compiere una strage, di farsi del male o di fare del male, se solo ci riuscissero. Chiunque alla fine potrebbe prendere il mitra, anche la ragazza impacciata e troppo brutta per stare a bordo campo coi pon pon. Ma lei non ci riesce, anche se probabilmente lo vorrebbe, stanca di sentire le voci alle sue spalle, provenienti da compagne lontane e fuori fuoco. Finirà anzi, in questo film che dipinge un orizzonte di predestinazione, per essere la prima vittima dello spleen assassino dei suoi compagni.

Il titolo, "Elephant", oltre a richiamare il documentario di un regista inglese, Alan Clarke, cui Van Sant si è rifatto, si ispira a un racconto buddista: un gruppo di ciechi esamina ciascuno una parte del corpo di un elefante (uno tasta la zanna, uno l’orecchio, uno la coda…) e ognuno di loro ritiene di poter riconoscere meglio il reperto, di poterlo identificare con qualcosa che già conosce: un ramo, un masso, un serpente…

Ma c’è un’altra traccia che ci piace seguire partendo dal titolo "Elephant", una canzone dei King Crimson che si intitola "Elephant Talk", il cui testo dice: "Parlare, solo parlare / Argomentare, accordarsi, avvertire, adeguarsi / Articolare annunci / E’ solo parlare / … / Parlare, solo parlare / Troppo parlare / Parlottare / Parole in pattumiera / Espressioni, editoriali, esternazioni, esclamazioni, esagerazioni / E’ tutto un parlare / Elefante che parla, elefante, barriti".

Insomma, di fronte a certi fenomeni si è ciechi: è impossibile comprenderli e spiegarli. Gli indizi ci sono, ma non aiutano e non consolano. E quando se ne parla, si finisce per barrire, magari per usare quelle parole che Van Sant non adopera; è meglio lasciarle agli intrusivi ospiti di Vespa e Costanzo: "giovani", "disagio giovanile", parole inutili che servono solo a semplificare il discorso a chi le adotta.

Eppure le spiegazioni ci sarebbero. E’ che sono tante, troppe. Anche sommandole, non se ne cava niente, almeno se si segue la direzione dello sguardo compassionevole di Gus Van Sant. Michael Moore, invece, alle sue spiegazioni ci crede. Ha trovato le risposte che cercava, e se ne accontenta, gli bastano: le colpe sono della televisione, della sconsiderata diffusione delle armi, della cultura delle armi, del cattivo esempio della fabbrica di missili vicina alla scuola.

Anche Van Sant vorrebbe tanto capire, ma dei brandelli di risposte che offre quasi si vergogna: sì, ci sarebbero la mancanza d’amore, i videogiochi, padri alcolizzati, l’estetica del nazismo, sensi di inadeguatezza fisica, omosessualità repressa - proprio in una scuola in cui educano alla diversità sessuale… Ma cosa spiegano, tutti questi elementi? Non spiegano perché due di quei tanti ragazzi hanno deciso di entrare nella loro scuola armati fino ai denti.

Gus Van Sant sa di essere cieco e di toccare appena un pezzettino della pelle dell’elefante. Sa che le sue sono spiegazioni insufficienti, che ogni spiegazione è insufficiente. Sono proprio questi gli attimi più belli di "Elephant", i momenti nudi in cui il film, soffrendo per la propria sincerità, ammette e accetta la sua condivisibile debolezza.

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