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“Looney Tunes: Back in Action”

Il film di Joe Dante mescola umani e cartoni, obbedienza ai codici di Hollywood ed autoironia cinefila. Gag a profusione, ma un po' di corrosività in più non sarebbe guastata.

Il cinema di Joe Dante cammina sullo spigolo in cui, come in certi acutissimi tetti di chiese di montagna, si congiungono e si scontrano due vettori contrapposti: sta dentro e fuori Hollywood, tra il mondo degli umani e quello dei cartoons, tra il cinema per ragazzi e il cinema per adulti; sarebbe il classico regista indipendente, ma ha sempre lavorato al servizio delle Major. Il suo ultimo film, Looney Tunes: Back in Action è un esempio perfetto di tutte queste contraddizioni.

Il film racconta la storia del licenziamento di Daffy Duck da parte della Warner Bros. L’operazione si rivela un grosso errore di marketing. La WB ci ripensa e manda una dirigente, insieme a Bugs Bunny, alla caccia di Daffy. Ma l’anatra, nel frattempo, ha fatto società con uno stuntman per andare alla ricerca di un brillante dalle doti magiche… Alla deriva in questo canovaccio, Joe Dante si conferma un maestro nella capacità di tener assieme i più disparati universi e riferimenti.

Looney Tunes: Back in Action è girato stando dentro il sistema di codici imposto da Hollywood. La pulizia degli ambienti e delle riprese è totale; la trama ubbidisce a tutte le regole di progressione della storia: inseguimenti, salvataggi all’ultimo secondo eccetera; c’è il lieto fine; gli attori sono belli e ben truccati. Eppure Joe Dante sguazza dentro il sistema californiano e ci gioca, infilando, appena può, elementi di auto-ironia ("Se questo fosse un film…") e citazioni a iosa da un condiviso patrimonio di conoscenze: da capisaldi del cinema fantastico, spionistico, di fantascienza (a decine), d’avventura, d’autore. Una delle citazioni letterali più spassose e più adulte viene da Psycho, con Bugs Bunny a sostituire Janet Leigh nella doccia. Tocchiamo con mano le contraddizioni cui è sottoposto il cinema di Joe Dante quando leggiamo in un’intervista che questa scena, pur così riuscita, è stata selezionata tra altre a giudizio del regista più efficaci (in una, Bugs Bunny si trasformava in entrambe le gemelline di Shining) dopo le preview, quelle proiezioni in anteprima che consentono alle Major di modellare il film sul gusto del pubblico. Non ci verrà mai dato di sapere cosa potrebbe fare un talento come Joe Dante se solo potesse scatenare liberamente, e con quei mezzi, la propria fantasia.

Ma il pozzo senza fondo che fornisce al film gag a profusione è quello dei cartoni animati della Warner Bros, capaci di costruire, distruggere e ricostruire un mondo in pochi minuti. I grandi padri fondatori dei personaggi Warner (Tex Avery e Chuck Jones) hanno già un posto d’onore nelle enciclopedie del cinema. Dei cartoni animati si sa tutto, hanno due dimensioni, si sa chi è il vincente e chi è il perdente. Si sa che Gatto Silvestro / Taddeo / Wile E. Coyote non mangerà mai Titti / Daffy Duck / Beep Beep. Ai bambini piace, si sa, conoscere già tutto, e gustarsi le repliche infinite. Ma la frenesia e la metatestualità di Looney Tunes: Back in Action possono piacere anche agli adulti, per quanto al film manchi un po’ di quella corrosività "pop", nascosta sotto la patina, che nei Gremlins, La seconda guerra civile americana, in Small Soldiers sapeva essere il filo di ruggine sul ferro del sistema patriottico americano.

Magari è giusto così, è giusto rendere omaggio e adeguarsi alla piccola e semplice funzione consolatrice che i cartoni animati sanno svolgere. Quelli della Warner Bros ci permettono di specchiare le nostre giornate nella ripetitività del gesto di quegli animaletti che vivono per uno scopo che non riescono a realizzare: rimangono impantanati nella estensiva creatività delle loro esistenze da cartoni animati, rendendosi così simili, nell’agire sempre uguale, a teneri, docili, consolanti impiegati dell’assurdo.

Nella ciclicità delle cose del mondo, ognuno deve svolgere e rispettare il proprio piccolo ruolo. Diversamente dalla Disney, nessuna morale apparente: ai cartoons e a noi rimane solo il conforto derivante dall’iterazione e dall’assimilazione del fallimento, di cui è paladino e vate il mai troppo amato predatore Wile E. Coyote. Sappiamo tutti che fare il tifo per il coyote serve a poco: la legge di gravità gioca contro di lui e la ditta Acme, che gli fornisce i masochistici strumenti per (non) catturare Beep Beep, dell’età della tecnica è una metafora più efficace della gabbia d’acciaio di Max Weber.

Eppure è questo il migliore dei mondi possibili, ci spiega Wile E. Coyote meglio di Leibniz: Marco Giusti, nel suo Dizionario dei cartoni animali, scrive che esiste una puntata "conclusiva" in cui Wile E. Coyote riesce a catturare il roadrunner. Subito dopo, e prima del "Questo è tutto, gente!", il coyote - l’eterno perdente, il muto parafulmine del male del mondo, l’inseguitore di una preda che non deve raggiungere - esibisce questo cartello: "E adesso cosa faccio?".

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