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Il Signore degli Anelli - Il ritorno del Re

Qualche stanchezza, la formula un po' ripetitiva, l'ideologia reazionaria più fastidiosa: comunque anche la terza parte della trilogia da Tolkien rimane uno spettacolo grandioso.

Otto, sette più, fra sei e sette. Sono i voti che daremmo ai tre episodi della trilogia del "Signore degli Anelli". Per questo punteggio calante possiamo identificare tre ragioni, che fanno del "Ritorno del Re" la parte a nostro giudizio meno convincente di una saga comunque di alta qualità.

Primo motivo: una certa assuefazione da effetto speciale. Il trattamento che Peter Jackson e la sua squadra sono riusciti a fare degli effetti speciali è una delle cose più riuscite della trilogia. In particolare, è molto efficace l’integrazione del mondo creato al computer con gli elementi scenografici della Nuova Zelanda: la vicinanza tra paesaggio e ricreazione della realtà non era mai stata realizzata in modo così perfetto dal punto di vista tecnico. In tanti altri film ad alto budget capita che gli effetti speciali costringano gli attori a muoversi in uno spazio bidimensionale, che i personaggi creati al computer rimangano visibilmente finti. Nel "Signore degli Anelli" i numerosi mostri frutto di computer-graphics sono naturali nei movimenti e quasi tangibili nelle fattezze. Era da un pezzo che non trovavamo un personaggio che attira l’occhio su di sé come Gollum. Di lui, metà attore vero metà elaborazione digitale, affascina ogni singola espressione.

Passiamo al però: al terzo film la stupefazione di fronte a effetti così riusciti è già in parte svanita. A queste cose ci si abitua in fretta. Con la mente meno presa da tali derive dell’immaginario, si sta più attenti agli altri elementi della costruzione cinematografica, con il rischio di scoprire che non convincono fino in fondo.

Secondo motivo: le scene di battaglia. Anche qui, premettiamo che le scene di battaglia, per essere scene di battaglia, sono molto belle, girate in modo da immergere completamente nell’atmosfera del combattimento corpo a corpo, come se fossimo in un cinema a 3D. Noi spettatori carichiamo con la cavalleria, viaggiamo in aria con il getto di una catapulta, subiamo, da dietro la porta della cittadella, i colpi di ariete degli orchi. Il problema è che si punta troppo su questa componente. Questo insistere, ancora, rischia di nascondere una mancata capacità di far emergere altri aspetti dell’epica tolkieniana; magari, come nel primo episodio, alcuni passaggi minori, l’attesa, le pause piene di pathos. Dopo le lunghe scene di battaglia de "Le due Torri" ci si aspettava in effetti un cambiamento di registro, la ricerca di una motivazione diversa all’interazione dei personaggi.

Eppure, come abbiamo detto, anche se razionalmente ci sembrava di avere già dato, le battaglie continuano a stupirci. Certo, bisogna stare al gioco, accettare che nelle scene di massa dei combattimenti muoiano quasi solo e quasi tutti i cattivi, con il minimo sacrificio, dalla parte dei buoni, di un paio di personaggi tutto sommato sacrificabili. Questa continua ad essere una cosa fastidiosa: non sta in piedi che in mezzo a centinaia di orchi il nostro isolato eroe li infilzi tutti, uno alla volta, a colpi di spada. Piaccia o non piaccia, è una regola aurea del cinema di guerra: i morti nemici cadono a decine e senza volto, i morti amici sono individualizzati e contornati dai commilitoni fino all’ultimo respiro.

Ma allora, a rifletterci bene, questo stereotipo nella costruzione delle scene di battaglia non è così inverosimile come può sembrare. Basta informarsi sul "body count", sulle perdite americane e irachene nella guerra che c’è in Iraq e pensare al diverso risalto riservato alle morti: gli iracheni, come gli orchi, muoiono a centinaia e senza nome. Ancora una volta il trattamento della fiction non fa che caricare fino all’inverosimile un fatto del tutto reale: l’effettiva disparità nel numero delle morti e nel trattamento della morte all’interno dello schieramento dei buoni e dei cattivi. In definitiva, anche in Iraq le proporzioni nel numero dei caduti sono, all’incirca, quelle della Terra di Mezzo di Tolkien: per ogni buono muoiono più di venti cattivi.

Terzo motivo: Tolkien non era di destra? Siamo alla classica diatriba tra una destra che ha sequestrato "Il Signore degli Anelli" ponendolo in un posto d’onore della sua biblioteca e una sinistra che contesta l’appropriazione indebita. Occorrerà però riconoscerlo: a tutti gli effetti, se si guarda "Il ritorno del Re", una certa idea del perché la destra giovanile organizzasse i campi Hobbit viene. Il film è pieno di riferimenti a "onore", "lealtà", "sacrificio", per il "sovrano" o per la "patria", nel rispetto di una "dinastia del sangue" capace di generare "ordine" e "cameratismo".

In più, l’aura finale di tramonto di una civiltà, il definitivo addio a un’era di magia, trasuda della nostalgia di un conservatore per il pre-moderno e per l’epoca in cui le virtù erano ancora virtù. Tutto è legittimo e la frittata la si può girare come si vuole. Ma bisogna dimostrarsi proprio ben disposti per non sospirare di fronte alle scene del film sbilanciate su questo filone di pura retorica tolkieniana.

Se il terzo film e la trilogia si nascondono dietro un’orgia di effetti speciali, di scene di battaglia e sollevano addirittura qualche perplessità ideologica, possiamo lo stesso dire che l’operazione di Peter Jackson è pienamente riuscita. La messa in immagini del libro di Tolkien o andava fatta con questo spreco di mezzi, di fortune e di energia, o andava lasciata intentata. La semplice alternativa era far rimanere Frodo, Aragorn, Gandalf e compagnia in pace dove stavano, tra le pagine di un libro che continuerà ad essere amato.