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Il Gesù di Mel Gibson

Il film di Gibson sulla passione e la crocifissione di Gesù ha originato un ampio dibattito sui giornali e in TV. Molti non hanno apprezzato la crudezza delle immagini, osservando che il film è pieno di violenza e di sangue e che il suo realismo nasconde il vero messaggio del cristianesimo. Altri invece hanno scritto che la crudeltà delle scene valorizza il martirio di Gesù per la salvezza degli uomini. Altri ancora che il film di Gibson ha "distrutto di un colpo i tanti Cristi zuccherosi di Hollywood" (René Girard su Repubblica).

E’ certamente un bene che il film abbia riportato sui media la figura di Gesù, così importante nella storia della cultura. Ma il dibattito non coglie, a me pare, l’essenza della figura di Gesù evitando un giudizio sulla sostanza del cristianesimo, salvo naturalmente lodevoli eccezioni. Una di queste è Thomas Cahill che ha scritto: "Ancora oggi la sua figura dà scandalo perché il suo è un messaggio rivoluzionario... Nel discorso della montagna pronuncia frasi come beati i poveri di spirito..., parole sconvolgenti ancora oggi, per non parlare di beati i miti in un mondo segnato dalla violenza". Forse Gibson ha rimosso questo aspetto e ha concentrato l’attenzione sul momento finale di Gesù, che è certamente tremendo come dice Isaia nel salmo 53,2: "Non ha bellezza né apparenza; l’abbiamo veduto: un volto sfigurato dal dolore" (Joseph Ratzinger, in Repubblica).

Ma non è questo il punto, a mio parere. La questione è se il cristianesimo iniziato da Gesù, e raccontato nei Vangeli, è ancora valido. Benedetto Croce scrisse sulla sua rivista La Critica nel novembre 1942 il famoso articolo "Perché non possiamo non dirci cristiani". C’era già stato il macello della prima Guerra mondiale ed era in pieno svolgimento l’ecatombe della seconda e lo sterminio degli Ebrei. Dopo le stragi belliche e dopo Auschwitz lo scritto di Croce vale ancora? Nonostante tutto io credo di sì. A prescindere dalle argomentazioni del filosofo, non va dimenticato che il cristianesimo è l’unica delle grandi religioni che vuole l’uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio. Ed è anche l’unica che afferma che Dio si è fatto uomo, appunto in Gesù.

Osserva acutamente il filosofo Umberto Galimberti: il cristianesimo, che nell’incarnazione riconosce il suo atto fondativo, prevede un Dio che si fa uomo, cioè si desacralizza, e un uomo che partecipa della natura divina. E’ stato Gesù, ma poteva essere chiunque altro. Se la deduzione è corretta, la sacralizzazione dell’uomo ha come conseguenza necessaria che tutti gli uomini sono uguali di fronte a Dio, cioè sono fratelli che devono vivere nella solidarietà, nella comprensione reciproca, nel rispetto e nella difesa dei diritti di tutti. Osserva Galimberti: "La storia cristiana che è poi la storia dell’Occidente, è una successione di eventi che è la più clamorosa smentita dell’annuncio evangelico. Ma è una smentita di fatto, non di mentalità", o di cultura.

"Riconosciamo infatti nella Dichiarazione dei Diritti umani, proclamati dalla Costituzione americana e poi dalla rivoluzione francese, versioni laicizzate della mentalità cristiana, così come riconosciamo nella rivoluzione comunista e nella sua tensione all’uguaglianza un altro evento che ha le sue radici profonde nell’annuncio cristiano" (in Repubblica del 10 marzo, pag. 37).

Credo che in questo credenti e non credenti possano convenire e farne una sinergia per migliorare il mondo. Constatiamo che stiamo vivendo in una sorta di età dell’odio, che utilizza anche le religioni come strumento di fanatismo: allora il messaggio di Gesù, che non esita a cacciare i mercanti dal tempio perché non sanno o non vogliono sapere che non è amore per Dio quello che non passa per l’amore per gli uomini, torna ad essere ancora un punto di riferimento, se non di soluzione. I laici non credenti attualizzano il messaggio d’amore di Gesù nella lezione di Kant secondo cui "l’uomo deve essere trattato sempre come fine e mai come mezzo". Anche su questo laici e credenti debbono convenire.