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QT n. 9, 1 maggio 2004 Monitor

Kill Bill 2

Il film di Quentin Tarantino, pur con una storia debolissima, è ricco e forte. Capirne il perchè è più difficile..

Se si chiudesse un bambino, sin dalla nascita, in una stanza con uno schermo che proietta, no stop e a caso, film e telefilm di ogni genere, di sicuro quel bambino avrebbe un’idea piuttosto vaga e distorta su quello che è il mondo di fuori. Se lo immaginerebbe frenetico, rischioso, popolato di gente con la pistola in fuga continua o al continuo inseguimento. "Kill Bill" - che trova tutta la sua vitalità nel rifarsi ad altri testi, all’effetto-corpus da essi creato, alle convenzioni e ai modi della verosimiglianza resi possibili dal sistema dei generi - è il film che questo bambino potrebbe girare. La geografia del film è la geografia del cinema: dal deserto americano, alla Cina, al Giappone, passando per l’Italia minore degli horror e dei western. Quentin Tarantino somiglia davvero a quel bambino chiuso in una stanza e nutrito di cinema.

"Kill Bill", nel suo complesso, è un film di una ricchezza incredibile. In tutto e per tutto opera unica, risulta tuttavia piuttosto diverso nelle sue due parti: se il primo volume era dedicato all’azione e al combattimento, il secondo ha momenti addirittura lenti, dialoghi lunghi, racconti attorno al fuoco, conversazioni chiarificatrici, filosofie sui fumetti… Bill, nel dialogo finale con la Sposa, lì per ucciderlo, le spiega con un bel ragionamento gran parte di quello che è il senso del film: dice alla Sposa che lei è come un fumetto, come Superman. Superman rimane Superman anche quando fa Clark Kent, recitando la parte dell’imbranato, calandosi nella parte dell’impiegatuccio in cui ritrova le caratteristiche principali di noi umani. Ma la vera natura di Superman è quella del supereroe, e non può cambiarla. Così i personaggi di "Kill Bill" rispondono a questa esigenza di essere caratteri (esemplari) di una fiction, bidimensionali, veri e propri fumetti, costretti al rispetto del proprio ruolo, alla continua rincorsa dell’avventura, alla ricerca di un lieto fine che a volte non si trova ma che in generale le regole del gioco impongono di trovare, anche a costo di dover uccidere tutti.

"Kill Bill" è tanto ricco quanto la storia è, appunto, debole, al limite del risibile. La trama racconta di una Sposa che si deve vendicare della sua ex-banda di killer donne (le Vipere) e dell’amante/procacciatore (Bill) che l’ha praticamente uccisa nel giorno del suo matrimonio.

Dato in mano a un altro regista, questo soggetto: 1) non avrebbe trovato produttori; 2) sarebbe diventato una noiosa parodia. Per farsi un’idea, basta pensare ai film di Robert Rodriguez, amico fraterno di Tarantino, che condivide con lui tante passioni artistiche e cinematografiche. Robert Rodriguez è il regista di "C’era una volta in Messico" (2003) e "Dal tramonto all’alba" (1995). Questi due film sono per molti versi paragonabili a "Kill Bill": entrambi operazioni-frullatore, che prendono spunto da un pretesto narrativo minimo e iper-convenzionale e sono arricchiti da una forte ricerca registica, dal gusto delle citazioni e dalle deviazioni dalla storia principale. Eppure i due film di Rodriguez in gran parte non funzionano, mentre invece il film di Tarantino convince, cattura, trascina, ha forza. Di "C’era una volta in Messico" Mauro Gervasini su "FilmTv" dice che "è bello solo in senso ghezziano, per quelle piccole cose che con il cinema non c’entrano nulla"; dello stesso film Paolo Mereghetti scrive: "I confini fra citazionismo e parassitarietà si fanno labili", mentre su "Dal tramonto all’alba" sempre Mereghetti sentenzia: "Ci si alza da tavola sazi, rintronati e col bisogno irrefrenabile di rifarsi la vista con un Bresson o un Mizoguchi".

Il problema, a questo punto, è chiedersi cosa ha in più Quentin Tarantino rispetto a Robert Rodriguez e a tanti altri epigoni, fiancheggiatori ed esponenti di questo cinema post-moderno, giocattolo che finisce di frequente per avvitarsi su se stesso. Dopo aver visto "Kill Bill", la risposta più sensata potrebbe essere "boh". Il film funziona, ma se si cerca di spiegare perché, in gran parte ci si perde. Certo, si può parlare di tante cose. La più evidente è il gusto del dettaglio. Certe scene che sarebbero "normali" sono arricchite da piccoli dettagli, di sceneggiatura, di messa in scena, di regia, di scenografia, che conferiscono alle sequenze forza, consistenza, tenuta. Un esempio di sceneggiatura: in un dialogo, un interlocutore accusa l’altro di essere inutile "come un buco del culo sul gomito". Una piccola battuta, e per di più volgare, eppure già basta a rendere brillante il dialogo. Un esempio di messa in scena: l’ex Vipera con la benda entra nel caravan del suo socio Budd. Lui le serve un drink. Mentre parlano di spade, di soldi e della Sposa, lui continua, frullando ghiaccio e qualcosa tipo gin, a prepararle questo improbabile drink, che versa poi in vecchi barattoli di vetro riciclati. Anche questo è un dettaglio da niente che però - bisogna vederlo - dà alla scena solidità e spessore. Un esempio (dal primo film) di scenografia è la casa in cui abita la Vipera di colore: pura pop art che raggiunge quasi un sublime pop (se può esistere) quando la Vipera tenta di difendersi dalla furia della Sposa sparando da una pistola nascosta dentro una confezione di Kellogg’s colorati. Ma la somma di tutti questi dettagli non spiega perché il film risulti così forte e sicuro nella sua autorialità. Forse, alla fine, è sufficiente constatare come al cinema di Tarantino, per funzionare, basta solo essere guardato.