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“Antifascismo e identità europea”

Antifascismo e identità europea. A cura di Alberto De Bernardi e Paolo Ferrari. Carocci Editore, 2004, pp. 485, 34,40.

“Stalin Delano Roosvelt". A chiamare così, negli Stati Uniti, il presidente degli anni del New Deal e della seconda guerra mondiale (1932-1945), sarà stato un fascista o un antifascista, un comunista o un anticomunista? Faccia un’ipotesi il lettore di Questotrentino, che certo sa di storia e di politica, prima di proseguire nella lettura.

Uno Stato in cui siano garantiti i diritti civili e sociali, e un sistema di Stati capace di assicurare la pace, è la condizione in cui tutti noi vorremmo vivere la nostra vita. Dove poterci impegnare, anche, a cercare soluzioni diverse, sempre insoddisfacenti, mai definitive, al rapporto fra libertà ed eguaglianza, classe e nazione, stato e mercato, democrazia e socialismo, identità e universalità.

E l’interdipendenza mondiale, lo stato sociale, la democrazia, sono proprio il trinomio su cui si fonda, alle origini, l’opposizione dell’antifascismo. Nuova società, nuovo stato, nuovo ordine internazionale, cioè diritti, democrazia, pace, non sembrino principi teoricamente scontati, quasi naturali, solo difficili da realizzare. Sono invece obbiettivi che si fanno strada a fatica, nel fuoco della storia dell’ultimo secolo, in perenne tensione fra loro, e avversi ad altri fini e mezzi della politica, che apparvero anch’essi, a masse di uomini, da perseguire, più appassionanti addirittura.

Il volume riunisce gli atti di un convegno organizzato a Milano, nel 2002, dall’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, sul tema "L’antifascismo nella costruzione dell’identità europea". Alberto De Bernardi, nell’introduzione, riconosce a Franco De Felice, lo storico barese scomparso, (Antifascismi e resistenze, in "Studi storici", n. 36, 1995), il merito di essersi misurato in modo innovativo con le domande cruciali poste in politica dalla svolta di fine Novecento, e in storiografia dal revisionismo.

L’antifascismo nasce in Italia, negli anni venti del Novecento, perché l’Italia sperimenta per prima il fascismo. Il fascismo, regime di massa, nazionalistico, totalitario, caratterizzato da militarizzazione interna e da espansionismo esterno, è la risposta alla crisi dello Stato nazionale succeduta alla prima guerra mondiale.

Carlo Rosselli.

L’antifascismo è perciò un insieme di culture che elaborano un’opzione alternativa ai problemi posti dalla crisi, economica e politica, del liberalismo. E alternativa anche all’egualitarismo totalitario, universalistico, del comunismo sovietico. Insieme di culture, e forze, così diverse che, forse, sarebbe preferibile parlare di antifascismi. Che dall’Italia si espandono sull’Europa, e nel mondo. Dove di fronte al fascismo prima soccombono, e poi, unite, prevalgono, nella seconda guerra mondiale, combattuta fino alla resa incondizionata del "nemico assoluto e illegittimo".

Nella ricostruzione del dopoguerra, qua e là quelle forze collaborano, convergono ancora, ma poi si separano, in un "duello ideologico" all’ultimo sangue e, avversarie, quasi irriconoscibili, si sfidano in un’altra guerra, fredda, planetaria, fino alla conclusione repentina e inattesa. Quella che pareva la conclusione, del 1989, con il muro del comunismo che crolla, a Berlino. In modo incruento, ma a resa incondizionata, come il bunker di Hitler cinquant’anni prima.

E’ questa, in estrema sintesi, l’interpretazione della storia dell’antifascismo che gradualmente, a scosse, si impone al lettore dei saggi. Che spaziano dall’Italia alla Germania, dalla Francia all’Unione Sovietica, dalla Spagna al Portogallo, dalla Polonia alla Grecia. E raccontano gli anni della lotta contro il fascismo, della costruzione dei sistemi politici del dopoguerra, dell’Europa contemporanea. E rimani dubbioso se è stata vittoria o sconfitta, su cosa è giusto conservare nella memoria, deposito da cui trarre ispirazione per l’Europa da costruire.

Certo è una storia non lineare, perché attraversata da
contraddizioni e tensioni, da fili che si spezzano e si riannodano. Insanguinata da tragedie interne, come quella della guerra civile in Spagna che aprì nel 1936 la scena del conflitto mondiale tra fascismo e antifascismo, e della guerra civile in Grecia che chiuse nel 1949 quel ciclo storico. Come quella del Comitato antifascista ebraico, costituito in Urss nel 1941 per difendere la patria dall’invasore nazista, ma che, per aver denunciato l’antisemitismo e il collaborazionismo nei territori occupati, alla fine della guerra venne sciolto, e i suoi dirigenti fucilati negli ultimi processi staliniani.

Trieste, la risiera di San Sabba.

Ma anche il dramma della Venezia Giulia nel contesto dell’Europa orientale, a cui è dedicato uno dei saggi più illuminanti. Chi è il colpevole di Trieste occupata e divisa, e dell’esodo dei 250.000 italiani dall’Istria? Il fascismo e l’Italia, o il comunismo jugoslavo? Quali simboli del passato vanno proposti alla società, la Risiera o le foibe? A Trieste, lo slogan "Italiani e sloveni uniti nella lotta" si sentì scandire nella prima manifestazione antifascista unitaria soltanto nel dicembre 1970. Ma la memoria rimane antagonista e divisa, e l’antifascismo non è considerato un valore fondante della democrazia, portata da un corpo estraneo, il governo militare alleato. Conclude Giampaolo Valdevit: "L’antifascismo non dovrebbe essere messo nella categoria dei beni assoluti. Non ha valore per sé, lo riceve da ciò cui si accompagna, ma può anche accompagnarsi malamente, e allora diventa un disvalore".

Itabù della tradizione antifascista italiana sono elencati da Nicola Gallerano già nel 1986: "un’immagine ortodossa di un antifascismo unanimistico e appiattito sul terreno patriottico", "la rimozione del lacerante e contraddittorio processo vissuto dalla coscienza collettiva per liberarsi delle sue compromissioni con il fascismo", "il problema della violenza", "l’incapacità di superare fino in fondo una lettura degli anni tra le due guerre, ma soprattutto dell’Italia repubblicana, attraverso la griglia riduttiva della contrapposizione tutta politica fascismo/antifascismo".

Il rifiuto di ammettere un consenso reale al fascismo, quasi che quel regime fosse stato "una chiesa senza fedeli", e l’interpretazione prevalente della Resistenza come guerra di popolo, di "liberazione", e non anche "civile" e di "classe", ha provocato aporie inestricabili. Pagate dalla storiografia, e dalla politica, cioè dal nostro modo di "stare insieme", dalla consapevolezza incerta che della nostra identità abbiamo acquisito, come italiani e come europei.

Alberto De Bernardi su questo punto è brutale. Accentuare il primato della Resistenza come lotta armata, che nella guerra era destinata a risolversi, e svalutare il suo antefatto, il dibattito dell’antifascismo, ci ha lasciati indifesi. All’interno di quel dibattito, teso, plurale, erano infatti iscritte le grande questioni, "il problema delle decisioni umane collettive", che avrebbero segnato il XX secolo, cioè il rapporto fra Stato e cittadini, fra democrazia, socialismo, antitotalitarismo, e il rapporto fra Stati nel mondo globale.

Roma, i rastrellamenti dopo l'attentato di via Rasella.

L’analisi di Salvatore Lupo non offre consolazioni. C’è un’Italia resistenziale e antifascista, e un’altra Italia scettica e ostile. Questa non ha mai accettato che con la Costituzione, antifascista, il movimento operaio, la sinistra di ispirazione marxista, e il movimento cattolico, abbiano fondato un patto di convivenza feconda e pacifica fra diversi. Non si tratta della sparuta minoranza neofascista. Sono i molti italiani che hanno respinto il fascismo, ma non si riconoscono nell’antifascismo. E’ l’Italia qualunquista, anticomunista, guardinga verso la democrazia di massa, benevola verso il fascismo, atlantica e maccartista. Nel biennio della guerra civile ha considerato l’attendismo la vera virtù civica. Disposta ad equiparare l’attentato partigiano di Via Rasella e la rappresaglia nazista delle Fosse Ardeatine. La sua festa non è il 25 aprile (1945), ma il 18 aprile (1948): per la Democrazia Cristiana ha votato da subito, ma "turandosi il naso", perché cedevole, anticomunista, ma non abbastanza.

E’ l’Italia anti-antifascista. Che oggi, finalmente, può votare Forza Italia, Lega, Alleanza nazionale, forze estranee alla discriminante fascismo / antifascismo.

In Europa la storia è diversa, ma altrettanto complessa. Negli anni venti e trenta del Novecento l’antifascismo non riesce a diventare una politica. L’alleanza fra socialisti, democratici, comunisti, non decolla dentro gli Stati, né fra gli Stati. L’esperienza di governo del Fronte popolare in Francia, e il sostegno alla Repubblica Spagnola, attaccata dall’insurrezione di Franco, furono episodi parziali e contraddittori. Quali strategie apparvero allora più realiste, e urgenti? Quali le tensioni interne, le cause profonde della difficoltà dell’antifascismo a imporsi come politica?

Il fascismo apparve a lungo a democratici e socialisti un fenomeno marginale e lontano: la coesistenza pacifica con il nazifascismo, il timore della guerra, considerata atto d’imperialismo borghese, furono la strategia prevalente.

Il comunismo dell’Unione Sovietica (e dei partiti comunisti satelliti) è anticapitalista, non democratico, non quindi antifascista: il fascismo e la democrazia gli appaiono varianti dell’unico potere borghese. L’alleanza fra Stalin e Hitler del 1939 non è semplice patto di non aggressione: è la prova che il nemico vero, per i comunisti, è il capitalismo imperialistico di Francia e Inghilterra.

L’antifascismo rinasce in Europa (e nel mondo) nel 1941, imposto dall’aggressione nazista all’Urss (e dall’attacco giapponese agli Usa, a Pearl Harbor), e dura fino al 1945. La vittoria è opera dell’alleanza fra democrazie occidentali e comunismo sovietico, dei loro apparati statali e militari. I movimenti antifascisti, le "resistenze", agiscono da fiancheggiatori, sono il legittimatore morale e civile, non gli agenti primari della vittoria.

Non è poco, conquistano il governo dei paesi fascisti o nazificati, ma già nel 1945 la discriminante fondamentale non è più quella fra fascismo e antifascismo. Le discriminanti diventano altre.

Il dopoguerra è nelle mani di tre grandi potenze per le quali il fascismo è stato un agente esterno aggressore, (non un agente interno), e appare ormai definitivamente sconfitto. A Occidente la discriminante fondamentale diventa comunismo/anticomunismo, nell’Europa orientale quella capitalismo/anticapitalismo.

Gli Stati Uniti, nel nome dell’anticomunismo, possono accogliere fra gli alleati Franco, Salazar, e altri dittatori ancora: totalitarismo, in occidente, equivale ormai a comunismo. L’Unione sovietica usa l’antifascismo come ideologia di stato per omologare i governi dei paesi satelliti, per reprimere il dissenso da Mosca: i paesi capitalisti, occidentali, sono considerati eredi del totalitarismo fascista.

Fortunatamente le analisi storiografiche sono in tensione tra loro, che altrimenti dovremmo abbandonarci alla disperazione per il futuro. Ci sono in Europa sorgenti, giacimenti, non rinsecchiti, a cui possiamo continuare ad attingere.

In Italia la Democrazia Cristiana tenne aperta la dialettica fra anticomunismo e antifascismo: se rappresentò politicamente l’area grigia del qualunquismo, la traghettò anche, in qualche modo, verso la democrazia, e si rifiutò di mettere fuori legge i comunisti. Il Partito Comunista sperimentò una contraddizione crescente tra l’esperienza democratica dell’antifascismo e le sue strutture culturali d’origine, e fu indotto a cambiare.

Nella Germania federale il nazismo e la Shoah furono a lungo rimossi. Fu il movimento degli studenti del ’68 a costringere una società intera a fare i conti con il proprio passato. Max Horkheimer, estremista, sostenne addirittura che deve tacere sul fascismo chi non vuol parlare di capitalismo. Ma nel 1989 il presidente von Weizsaecher riconobbe finalmente che l’8 maggio era l’anniversario non della sconfitta, ma della liberazione.

Nell’Europa dell’est, in condizioni difficilissime, alcuni intellettuali (ad esempio il regista polacco Wajda), nel nome dell’antifascismo mantennero rapporti con l’Occidente, e si ritagliarono spazi di autonomia.

E se, secondo Federico Romero, le Nazioni Unite, embrione del nuovo ordine internazionale, nascono dall’intenzione degli Usa di esercitare appieno una leadership mondiale, secondo Mario Del Pero sono gli Usa a trasformare, nel 1941, una guerra tra potenze europee in una "guerra civile" planetaria tra libertà e totalitarismo. Ispirandosi all’antifascismo di un’opinione pubblica capace di respingere il ricatto dei giornali della catena Hearst (anti-antifascisti, diremmo oggi), che paragonavano grossolanamente Roosvelt a Stalin, il New Deal al comunismo.

La "vecchia Europa" può forse trarre (anche) dall’antifascismo gli stimoli alla costruzione di un mondo diverso. Consapevole che, se non è realizzabile "la democrazia in un paese solo", per lo scopo immane la guerra preventiva non è il mezzo più adatto.