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QT n. 15, 18 settembre 2004 Monitor

“Fahrenheit 9/11”

La moderna catilinaria anti-Bush di Michael Moore mescola approfondimento ed ironia con un utilizzo pieno ed impegnato del linguaggio televisivo. Nonostante alcuni difetti ed ingenuità, un film sincero, che merita gli amplissimi successi di cui sta godendo.

“Fahrenheit 9/11" - moderna catilinaria - ha una forza comunicativa tale da passare come un panzer sopra tutti i suoi difetti. George W. Bush ha talmente abusato della pazienza del mondo da meritare che un pamphlet politico studiato per demolirlo riceva questa accoglienza: la Palma d’oro a Cannes e l’imponente successo nelle sale, da quelle americane all’Astra di Trento.

Ma ad attirare le folle non è (solo) la faccia ebete di Bush; quel che conquista è il linguaggio cinematografico adottato dal regista/attivista Michael Moore. Un documentario "serio" sugli intrallazzi e sugli imbarazzi del presidente prima e dopo l’11 settembre avrebbe potuto trovare un suo pubblico, ma non di certo diventare un tale fenomeno di massa. Lo stile di Michael Moore mescola approfondimento e ironia, intervista e commento, ricostruzione e comicità. E la miscela funziona: ha dignità artistica e riesce a essere influente. Michael Moore, che non è un filosofo engagé ma un americano medio engagé, riesce a realizzare - incredibile - quello in cui centinaia di pensosi intellettuali organici, con una preparazione teorica infinitamente più profonda, erano falliti: farsi seguire dalle masse. Ci riesce nobilitando e facendo le veci di un linguaggio televisivo che si è avvitato su se stesso ed è diventato incapace di esaudire alcune basilari richieste di informazione, evidentemente più diffuse di quanto previsto dalle istituzioni politiche e dal sistema mediale: "Fahrenheit 9/11" fa finalmente vedere la popolazione irachena; dà la parola a soldati USA che si dimostrano bambocci ignoranti e cattivi; rende note le modalità del reclutamento nell’esercito, nelle aree più povere degli Stati Uniti.

Da destra, a Michael Moore viene ovviamente rimproverato di tutto. Al suo sito ufficiale (www.michaelmoore.com) si contrappongono una serie di siti "nemici" che si prefiggono di smontare una per una le sue tesi: www.mooreexposed.com, www.bowlingfortruth.com, www.moorelies.com, www.michaelmoorehatesamerica.com, www. moo re watch.com… Ma a questi attacchi di una destra americana evidentemente punta sul vivo viene poca voglia di replicare. Meritano una riflessione, invece, le critiche "da sinistra", quelle che rimproverano a Michael Moore di usare troppe scorciatoie e di inciampare in diverse ingenuità.

In effetti, è davvero troppo facile cogliere e mostrare i politici nel momento in cui si truccano prima di andare in onda. Bisogna ammettere che il livello è quello di "Striscia la notizia" che mostrava i cosiddetti "fu-fu" di D’Alema. Certo, i componenti l’amministrazione Bush ci mettono del loro, come il sottosegretario alla difesa Paul Wolfowitz che imbeve di saliva il pettine prima di passarselo fra i capelli. Però questa rimane una scelta di montaggio troppo facile. Oltretutto, il lato scabroso del potere si è reso negli ultimi anni talmente manifesto (dal caso Lewinsky all’auto-parodia involontaria del Berlusconi in bandana) che recuperarne altri dettagli non è più questa grande operazione antagonista. Che il re sia nudo ormai lo si può dare per scontato.

Si può poi rimproverare a Michael Moore un uso troppo sentimentale, qualunquista, del mezzo della videocamera quando intervista la madre di un soldato morto in Iraq. Si prova un senso di disagio: anche i Costanzo e i Vespa da noi fanno così; è troppo facile far scattare in questo modo i meccanismi (pre-politici, pre-culturali) della pietà e della compassione. Ci aveva lasciati perplessi anche la scena di "Bowling a Columbine" in cui Moore abbandonava nella villa hollywoodiana di Charlton Heston - presidente della National Rifle Association, l’associazione americana dei possessori di fucili - la foto di una piccola vittima della diffusione di armi. E’ anche questo un gesto troppo facile. Eppure si percepisce della sincerità in quelle azioni, che non è assolutamente coltivata, ma "da americano medio"; è la stessa sincerità che tanti cittadini degli Stati Uniti mettono nel loro patriottismo gretto, che li porta a esporre la bandiera come scudo contro paure che il potere ha sempre favorito e rafforzato.

Da americano medio (a partire dal fisico, dal berrettino da baseball), non da intellettuale, Michael Moore scende sullo stesso terreno (la cronaca, l’inchiesta) da cui provengono i servizi televisivi per far vedere quanto in quel campo ci sia di inespresso, di intentato, di non condotto fino in fondo. Michael Moore riprende le inquadrature della televisione, utilizza i telegiornali, ma questo uso - un po’ come Blob - fa dire a quegli stessi materiali cose che nel loro contesto non riuscivano a esprimere, spingendo il mezzo di cui dispone (la telecamera, il reportage, il montaggio) oltre i limiti che gli impone lo schermo domestico.

La radicalità di Michael Moore, più che nella politica, sta proprio in questo sfruttare pienamente, fino alla radice, gli strumenti del comunicare.

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