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QT n. 19, 13 novembre 2004 Monitor

“Oh, Uomo”: come mostrare/montare la guerra

Il lavoro di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, tratto da filmati della Grande Guerra: un'operazione artistica e una riflessione politica sull'orrore bellico.

Raccontare la Storia vuol dire fare un montaggio, selezionare gli accadimenti rilevanti e trascurare quelli considerati non essenziali. Senza tagli, la realtà non è raccontabile. Questa scelta, che è quindi un’interpretazione, è necessaria per guardare immagini dagli archivi filmati della prima guerra mondiale, la prima guerra a essere ripresa dalla recente invenzione dei Lumière. In moviola, partendo dagli stessi materiali, si può realizzare un filmato di propaganda, costruire uno strumento didattico, ricavare un’operazione artistica, imbastire un manifesto politico.

E’ in questi due ultimi campi – quello dell’arte e della politica più che quello della Storia intesa come spiegazione causale e racconto – che si va a collocare "Oh, Uomo", il lavoro di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi prodotto da diverse istituzioni trentine.

Gli archivi delle cineteche di Mosca, Vienna, Parigi, Madrid e Bologna, attraverso la selezione di Gianikian e Ricci Lucchi, restituiscono una panorama fatto di lente sfilate. Non sfilano truppe, ma volti sfigurati. In "Oh, Uomo", la guerra viene rappresentata attraverso la sofferenza che il dopoguerra continua a infliggere sui corpi. La tangibilità della guerra è nei corpi di soldati che sottopongono i loro volti a rudimentali rattoppi chirurgici. Tutti questi mostri a cui mancano pezzi di faccia – soldati ventenni rovinati a vita – sembrano comunque felici di essere vivi, a loro agio con protesi che padroneggiano con perizia tecnica e persino con orgoglio. E’ uno dei tanti elementi di assurdità collegati alla guerra che "Oh, Uomo" sbatte in faccia allo spettatore.

A partire dal soldato Ryan di Steven Spielberg, questo accanirsi della guerra sui corpi è stato recepito dalle più recenti pellicole di genere bellico, complice l’aumentato realismo degli effetti speciali, divenuti capaci di mostrare il vero impatto delle pallottole sui corpi in divisa, la fuoriuscita delle interiora, la pelle mangiata fino alle ossa, gli arti perduti sulla spiaggia della Normandia. Paradossalmente, proprio attraverso la finzione degli effetti speciali si è arrivati a raccontare la guerra con maggiore verismo, che oramai si ottiene modificando le riprese al computer.

L’accostamento di "Oh, Uomo" con i film di guerra hollywoodiani dimostra che inquadrare corpi martoriati non è un’operazione politica e pacifista in sé. Sulla scia di Spielberg, tutti i film di guerra successivi hanno dovuto recepire questo obbligo di mostrare sangue, ferite e mutilazioni nel modo più realistico possibile. Lo si può fare per criticare la guerra ( "La sottile linea rossa"), oppure per esaltarne ulteriormente il tremendo fascino all’interno di un’ottica patriottarda o colonialista ("Pearl Harbor", "Black Hawk Down", "We were soldiers"…). E’ sulla perversa attrattiva della guerra che insiste l’anticonformistica lettura dell’Iliade proposta da Alessandro Baricco di cui scriveva Ettore Paris nel numero scorso di Questotrentino (L'Iliade: la guerra e il potere).

La denuncia politica dell’assurdità dei conflitti sta quindi in uno sguardo e in una forma, non in un semplice contenuto: la nausea per la violenza della guerra non genera necessariamente nausea per la guerra come fenomeno. Lo sguardo e la forma di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi fanno politica: "Oh, Uomo" sottopone a una prova di resistenza lo sguardo dello spettatore. Non solo per la crudezza del soggetto, ma anche per la dilatazione dei tempi e la profondità dello sguardo. Di solito si distolgono gli occhi da immagini come quelle che Gianikian e Ricci Lucchi vogliono mostrarci. "Oh, uomo" ci sfida a osservare quei volti e, in essi, l’orrore della guerra. Ci costringe a guardare a lungo e, quindi, a pensare. Sta in questo coraggio, in questa insistenza e nella scelta di questi tempi la valenza politica del mostrare la violenza, senza distinzione tra schieramenti, scolorando ogni differenza di fronte alla morte e all’orrore.

I due registi guardano la guerra da un punto di vista clinico, tecnico-infermieristico. In prima persona. Sembrano volersi identificare con la prospettiva di un medico, per il quale le ragioni e le razionalità politiche e strategiche perdono ogni senso di fronte alla forza – anch’essa politica – del dolore inflitto, quando si arriva a vederlo con i propri occhi.

Il livello politico e quello teorico-formale sono dunque strettamente intrecciati. Se a questi due discorsi ne aggiungiamo un terzo – il lavoro artistico ed estetico sui colori, sul ralenti, sugli stacchi di montaggio –, capiamo quanto complete e rigorose siano le scelte di Gianikian e Ricci Lucchi. "Less aesthetics, more ethics", recitava lo slogan di una delle ultime biennali di Venezia. Nei film di Gianikian e Ricci Lucchi l’etica passa attraverso la forma. La lezione è sulla guerra ma anche sui modi in cui la dobbiamo guardare.