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Tra moglie e marito...: gli islamici e gli infedeli

Due sentenze in tema di rapporti fra coniugi: la giustizia nei confronti dei mariti islamici e quella (ancora maschilista) verso i coniugi infedeli.

Divorzio islamico. Con sentenza 7 novembre 2003, pubblicata su "Diritto e Giustizia" del 20 marzo 2004, n° 11, pag. 91 e seguenti, il Tribunale di Genova ha condannato certo Rhiyat, cittadino marocchino, per il reato previsto dall’articolo 570 del Codice penale, negandogli la sospensione condizionale della pena e le attenuanti generiche. L’articolo 570 punisce fra l’altro chi fa mancare i mezzi di sussistenza ai figli minori.

Non vi è dubbio che la legge italiana si applica anche allo straniero in virtù sia dell’articolo 3 della Costituzione che dell’articolo 3 del Codice penale: "La legge penale italiana obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel territorio dello Stato".

Nel caso di specie vi erano tutti i presupposti per l’applicazione dell’articolo 570: il cittadino marocchino Rhiyat residente in Italia, coniugato con Kinani Mina in Marocco secondo il rito islamico, e da essa divorziato con il ripudio previsto dal Corano (Talaq), aveva fatto mancare i mezzi di sussistenza al figlio minore Kassem.

I dati di fatto sono incontestabili e non costituiscono motivo di critica. Ci si domanda invece se sia stato giusto negare la sospensione condizionale della pena e le attenuanti generiche. Scrivono gli stessi giudici nella motivazione: "In tema di reati contro la famiglia, allorché le parti provengano per nazionalità e quindi cultura, religione, formazione, tavola di valori di riferimento da contesti istituzionali e sociali del tutto diversi da quelli dello Stato ospite, è opportuno che il giudice si interroghi sull’influenza che quei dati originari possano aver avuto sul fatto commesso in Italia".

L’avvocato Salvatore Maria Sergio (dottore in studi islamici dell’Istituto universitario orientale di Napoli) osserva che "l’Islam è religione totalitaria, che regola minutamente con norma divina ogni aspetto dell’attività umana, onde la funzione vitale e insostituibile dei precetti religioso-giuridici". Per esempio, in tema di famiglia il diritto mussulmano, detto Shari’àh, ammette la poligamia: l’uomo infatti può avere quattro mogli e un numero indefinito di concubine, mentre la donna è legata al marito in modo esclusivo.

La radicale disparità dei coniugi è evidente anche in materia di scioglimento del matrimonio: il marito ha il potere illimitato di ripudiare la moglie, mentre la moglie ha la facoltà di chiedere al giudice il divorzio in limitatissimi casi; tale facoltà neppure esiste dove vige il diritto di Scuola hanafita .

Tenendo conto di queste circostanze, secondo l’avvocato Sergio il Tribunale avrebbe dovuto concedere all’imputato marocchino le attenuanti generiche diminuendo la pena. Io invece ritengo che il Tribunale ha fatto bene a negarle, perché l’obbligazione del Rhiyat non era verso la moglie (che secondo il diritto coranico è un essere inferiore come ogni donna), ma verso il figlio (maschio!) che il padre aveva il dovere di mantenere, in Italia come in Marocco.

Nessuna indulgenza quindi, che del resto il Tribunale ha avuto trasformando la pena detentiva nella libertà controllata per un anno, consentendo così al Rhiyat di lavorare e di far fronte ai suoi obblighi verso il figlio.

Una sentenza maschilista. Pareva che me la sentissi. Nel febbraio di quest’anno commentavo in un articolo la sentenza della Cassazione 27 novembre 2003 n° 18132 (vedi "Diritto e Giustizia", 17 gennaio 2004, pag. 46).

Con tale decisione la suprema Corte ribadiva il principio che la reiterata violazione, in assenza di una separazione di fatto, dell’obbligo della fedeltà coniugale, costituiva una violazione grave dell’articolo 143 del Codice civile. La trasgressione doveva essere considerata, nel caso di specie, causa del deterioramento del rapporto coniugale e comportava la separazione giudiziale, senza però dichiarazione di addebito (colpa) a carico del marito colpevole dei ripetuti tradimenti, in quanto preesisteva da tempo una crisi coniugale dovuta alla mancanza di interesse sessuale del marito nei confronti della moglie.

Inoltre, aggiungeva la Cassazione, la moglie aveva tollerato le infedeltà del marito di cui era a conoscenza, e si era dichiarata disposta ad un totale perdono perché il suo amore per il marito non era venuto meno.

Ciò nonostante, la Cassazione confermava la separazione, ma senza addebito (cioè senza colpa per il marito). Concludevo l’articolo, dicendo che il principio adottato poteva considerarsi giusto, ma dubitavo che esso sarebbe stato applicato con tanto rigore se la parte infedele fosse stata la moglie. Puntuale è arrivata a confermare il mio dubbio la sentenza della Cassazione 12 marzo 2004 n°5090 (vedi "Diritto e Giustizia", 24 aprile 2004 , n° 16, pag. 44).

La fattispecie è analoga, ma in questo caso era la moglie ad essersi resa colpevole della violazione dell’articolo 143 del Codice civile, con reiterate infedeltà. Il marito si era dichiarato disponibile ad una ricostituzione del rapporto personale ed affettivo con il coniuge, ma la Corte è stata inflessibile: ha confermato la separazione addebitando la responsabilità alla moglie infedele.

Perché due pesi e due misure? Non sarà che la nostra magistratura è ancora troppo maschilista? Io credo che come in tutti i lavori e le professioni stenta ad affermarsi il principio di uguaglianza fra i sessi. Anche la giurisdizione ne risente, nonostante i ripetuti richiami della Corte Costituzionale che non ha perso occasione per ribadire i principi di parità e di pari opportunità.

Conclusione: le donne devono continuare con giudizio la loro lunga battaglia per l’affermazione della dignità femminile.