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QT n. 20, 27 novembre 2004 Servizi

Disertori e monumenti

La diserzione e l'elogio del disertore sono, per fortuna, accadimenti tutt'altro che insoliti nel corso della storia. Qualche considerazione storica in margine alla recente polemica sul monumento al disertore di Rovereto.

Segni monumentali dedicati a disertori non mancano, a Rovereto e in Trentino. Sono numerosissimi quelli in memoria dei volontari per l’Italia che, evitando di vestire o strappandosi di dosso la divisa militare di uno stato in cui non si riconoscevano, andarono a morire indossando quella che sentivano propria. Ai percorsi, spesso avventurosi, che consentirono a centinaia di trentini di passare dalla parte legalmente imposta a quella scelta dalla propria coscienza sono dedicati due libri scritti da uno di loro, Mario Ceola, divenuto direttore del Museo della Guerra. Il primo s’intitola "Diserzioni" (1928), una parola sottratta, per una volta, al possente tabù che le è connesso.

Il contestato monumento al disertore di Rovereto.

Disertore, oltre che traditore, era per l’Austria quel Fabio Filzi, il cui profilo eroicamente stereotipato, come quello del "dioscuro" Chiesa, è scolpito davanti al municipio di Rovereto. Qualche anno fa il monumento fu oggetto di un aggressivo spruzzo di colore sanguigno, con un gesto che voleva esprimere una forte ripulsa antimilitarista. Paradossalmente il Filzi uomo, non l’icona di marmo, era stato ufficiale austriaco declassato, presidente di un’associazione studentesca repressa dalla polizia, avversario della pena di morte, uomo di legge democratico e angosciato dallo scatenamento della guerra.

L’altro impiccato del 12 luglio 1916, Cesare Battisti, è un esempio per eccellenza dell’ironica relatività di categorie che si vorrebbero assolute. "Battisti era un Patriota o un disertore?" - chiedeva don Lorenzo Milani ai cappellani militari che avevano definito l’obiezione di coscienza "estranea al comandamento cristiano dell’amore" e "espressione di viltà" (1965). E la più bella biografia del socialista trentino, quella del sudtirolese Claus Gatterer, ripete ironicamente, nel sottotitolo, la motivazione dei carnefici: "Ritratto di un alto traditore".

Renitenza alla leva, diserzione, obiezione di coscienza, tradimento sono concetti diversi, che capita spesso di usare come se fossero equivalenti, rendendo ancor più difficili discussioni e scontri dialettici. A due disertori in senso stretto sono dedicate alcune epigrafi roveretane del primo dopoguerra.

La prima è nel Cimitero di S. Marco: "In quest’urna/ dalla cittadina pietà raccolti/ riposano i resti mortali dei roveretani/ Renato Gasperini/ Fausto Gerola/ fucilati dall’Austria/ il XV marzo MCMXVI/ rei di aver abbandonate le odiate insegne/ per attendere nascosti/ tra le crollanti rovine della loro città/ l’alba redentrice". La seconda è sul muro esterno del carcere: "Condannati a morte/ dall’austriaco tribunale di guerra/ in questo cortile delle carceri il 15 marzo 1916/ cadevano fucilati nel fior degli anni/ i lavoratori roveretani/ Renato Gasperini e Fausto Gerola/ rei del delitto di aver rifiutato allo straniero/ di servirlo nelle armi/ contro i fratelli d’Italia aspettati come liberatori". La terza epigrafe, che si legge su casa Cobelli in S. Maria, lascia trapelare nello stile (come la precedente) l’impronta socialista di un’iniziativa celebrativa che coinvolse peraltro, in quella fase, l’intera "città politica". Ricordati i due "lavoratori aborrenti di servire le armi dello straniero", il testo conclude "nell’esecrazione d’ogni tirannide".

Carcere di Rovereto, 1916: fucilazione di Fausto Gerola e Fortunato Gasperini, disertori.

Durò poco, peraltro, la celebrazione di questa anticonformistica tipologia di martiri. Gasperini e Gerola furono destinati, in un primo tempo, alla sepoltura nella tomba dei cittadini illustri, il cosiddetto "famedio". Le loro spoglie rimasero poi sotto le arcate del cimitero, in una posizione dignitosa che testimonia tuttavia la rinuncia a fare dei due fucilati l’oggetto di una rilevante memoria pubblica. In effetti non entrarono mai a far parte del calendario della religione della patria, che esigeva modelli attivamente eroici, tanto più da quando all’ "esecrata tirannide" straniera subentrò quella domestica del fascismo. Portare le scolaresche in pellegrinaggio alla tomba di chi era fuggito piuttosto che combattere per una causa "aborrita" avrebbe comportato l’apertura a domande pericolose sulla libertà di coscienza e sui suoi confini, in assoluta antitesi con la pedagogia del "credere, obbedire, combattere".

Anche per questo non ebbe successo il tentativo di introdurre nel martirologio patrio un altro soldato condannato a morte, l’alense Domenico Chizzali, studente liceale a Rovereto al tempo della mobilitazione di massa, spedito a combattere sul fronte orientale. Secondo la testimonianza di un suo compagno, il giovane studente "si era talmente impressionato all’idea della guerra da averne scosso il cervello". Chiuso nel mutismo, aveva mostrato più volte l’incapacità di fare il soldato "normale", finché tentò di sottrarsi ad un destino non accettato dopo aver compiuto un gesto di forte significato simbolico. Il 29 novembre 1915, nella remota Bucovina, prese la fuga dopo aver spezzato il fucile contro una croce incontrata sul cammino. Due giorni dopo venne arrestato mentre tentava di farsi dare un biglietto per Trento alla stazione ferroviaria di Czernowitz (oggi Cernovtsy in Ucraina). Il 12 dicembre i suoi compagni stessi erano costretti a fare da plotone d’esecuzione, attori a loro volta coatti di una straziante cerimonia.

Chi era, Domenico Chizzali? La motivazione della sua condanna, stando alle testimonianze note, parlava di alto tradimento, offese alla religione, lesa maestà e diserzione. I suoi compagni lo dipinsero come un inconsapevole, un giovane uomo reso folle dalla guerra, vittima innocente perché irresponsabile. Qualcuno propose, negli anni Trenta, di considerarlo apertamente un martire della patria italiana, ma ottenne dagli ambienti del combattentismo trentino una risposta freddamente negativa.

Disertore, folle, martire. C’è un documento straordinario che tenta di sfuggire alle definizioni unilaterali, per restituire alla vicenda tutto il suo spessore umano. Il fratello di Domenico, Riccardo Chizzali, consegnò al Museo della Guerra di Rovereto, a più di cinquant’anni di distanza dalla tragica vicenda, un memoriale in cui cercava di scavare nell’ animo del ragazzo che aveva conosciuto e di ribaltare le categorie che gli uni e gli altri avevano voluto applicargli. Non era il simulatore che volevano i suoi aguzzini, non era il demente che avevano visto in lui, pur spinti da umana pietà, i commilitoni amici.

Questa storia ci mette nel vivo di una formidabile tematica connessa alla diserzione, quella della follia di guerra. "Di fronte a una macchina che è insieme Stato e guerra, tecnologia e distruzione, razionalità e morte, la rottura, la resistenza e il rifiuto non trovano spesso altre strade che la follia, la sragione, la malattia. Quello che sembra venire alla ribalta è la ricerca spasmodica di una via di fuga, e insieme l’impossibilità di trovarla. E’ questa l’antitesi di fondo in cui si colloca il grande campo oscuro della ‘follia’. Riducendosi le possibilità psicologiche e pratiche della fuga reale, diventa tanto più estesa quella forma di fuga interiore, di diserzione virtuale che è la malattia ovvero (molti considerano le due cose del tutto equivalenti) la sua simulazione". La citazione proviene da un grande libro, "L’officina della guerra" di Antonio Gibelli. L’altro punto di riferimento specifico, per gli studi italiani, sono i lavori di Bruna Bianchi, autrice tra l’altro di "La follia e la fuga. Nevrosi di guerra, diserzione e disobbedienza nell’esercito italiano, 1915-1918".

Furono tanti pochi, questi uomini in fuga? Restiamo all’esempio dell’Italia nella prima guerra mondiale. Le denunce per renitenza furono 470.000, negli anni 1915-1919. Ma 370.000 di queste riguardavano emigrati non rientrati dall’estero ad arruolarsi: un tema di lungo periodo, che richiede ancora una volta la capacità di distinguere. Anche nel Trentino austriaco d’anteguerra la cosiddetta "refrattarietà alla leva" era il crimine più diffuso, secondo le statistiche: ma si tratta di cosa ben diversa dalla diserzione. Stando alle conclusioni di chi se ne è occupato con maggiore puntualità, nelle classi chiamate alle armi in Italia durante il conflitto, la renitenza si aggirò intorno al 12 per cento, da attribuirsi per buona parte all’emigrazione; la renitenza vera e propria, intesa come rifiuto della guerra, si stima tra il 2 e il 4 per cento. Durante il conflitto, peraltro, le infrazioni della disciplina militare furono numerosissime: si è calcolato che uno su dodici, fra soldati e ufficiali, sia stato incriminato. Per quanto riguarda la diserzione, furono registrati 8.000 casi nel primo anno di guerra, 25.000 nel secondo, 22.000 nei mesi che precedono immediatamente Caporetto. La rotta successiva e i comportamenti dei soldati in quella contingenza necessitano una considerazione a sé e si sottraggono ad una contabilità numerica.

Trento, castello del Buonconsiglio: la fucilazione di Damiano Chiesa.

Sul significato non solo quantitativo della diserzione ricordo uno scontro aspro sulla scena di un convegno storico di una decina di anni fa, a Trieste. Ne furono protagonisti un’attonita Bruna Bianchi, che esponeva i risultati delle sue ricerche sul tema della fuga, e Giorgio Rochat, il più noto e autorevole degli studiosi militari italiani, uomo di sinistra tutt’altro che insensibile al tema del rifiuto della guerra. Smettiamola di enfatizzare la diserzione che contò poco, rampognava irato Rochat con qualche sconcerto dei presenti: il tema vero è capire perché tutti gli altri l’hanno fatta la guerra, perché hanno combattuto nonostante tutto quello che diciamo essere la guerra moderna, perché hanno sopportato i sacrifici, le fatiche, le morti di massa. Fin troppo facile capire il rifiuto, ci hanno detto spesso con altre parole altri storici: il problema principale è capire il consenso. Per conto mio, continuo a pensare che si tratti di un’antitesi improduttiva e che non si possa capire davvero l’uno senza l’altro.

Torniamo in conclusione ai monumenti "alla rovescia". Questa caratteristica ebbero moltissime iniziative ispirate nel primo dopoguerra all’internazionalismo di matrice socialista. Le documentò in studi esemplari Gianni Isola, per alcuni anni docente di storia contemporanea a Trento e prematuramente scomparso. Le epigrafi da lui recuperate negli archivi hanno spesso testi di sorprendente forza di denuncia. Non rinuncio a citare l’incipit di quello scolpito su una lapide nel cimitero militare di Schio, a ricordo di due soldati fucilati per ordine del generale Andrea Graziani nel corso della ritirata di Caporetto: "Vittime insanguinate/ di sanguinario militarista…". Messaggi come questi erano destinati a rimanere per poco, nei luoghi della memoria pubblica: Isola li disseppellì dai giornali militanti o dalle carte di polizia, avendoli la repressione dello stato rimossi non solo dalle piazze, ma anche dai cimiteri. La pietas verso gli "uomini contro" si è trasmessa per altre vie: in particolare attraverso la memoria famigliare e comunitaria, la scrittura, il cinema antimilitarista, la canzone.