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Haiti e la maledizione bianca

Ad Haiti è nata la prima repubblica indipendente dell´America latina. Ma la Francia e poi gli Stati Uniti le hanno fatto pagare caro la sua voglia di libertà Da L’Altrapagina, mensile di Città di Castello.

Walter Fanganiello

Nel ‘700 Haiti era il gioiello della corona francese e la più ricca colonia europea nel Nuovo Mondo (sì, anche più degli Usa). Principale esportatore mondiale di zucchero, produceva enormi profitti per la minuscola élite francese. Poi, però, a Parigi arriva la rivoluzione. Nell’isola, i bianchi nominano i loro Stati generali, i mulatti ricchi ottengono il diritto al voto (ma il loro leader è catturato, torturato e ammazzato), i neri fanno una rivoluzione e sotto il comando di Toussaint L’Ouverture l’esercito rivoluzionario sconfigge le truppe francesi spedite sul posto. Nasce così, il 1° gennaio 1804, la prima repubblica indipendente dell’America Latina, il cui primo atto è l’abolizione della schiavitù. Così, la libertà ha compiuto 200 anni nel 2004, anche se nessuno o quasi se n’è reso conto. Pochi giorni dopo il compleanno, Haiti ha occupato qualche spazio nei mezzi di comunicazione, ma per il bagno di sangue che si è concluso con la destituzione e l’esilio del presidente Aristide nella Repubblica Centro-africana.

I testi scolastici raccontano che la prima nazione ad abolire la schiavitù fu l’Inghilterra. Ma l’impero campione del traffico di schiavi cambiò opinione solo nel 1807, tre anni dopo la rivoluzione haitiana. E non le credette nessuno, tanto che dovette abolirla nuovamente nel 1832. Ma nelle enciclopedie le cose dei neri sono nulla. O sono una minaccia, come lo erano per il padre fondatore della Costituzione statunitense, Thomas Jefferson, che da buon proprietario di schiavi sosteneva che "da Haiti proviene il cattivo esempio. Bisogna confinare la peste in quell’isola". Gli Usa tarderanno 60 anni a riconoscere la più libera delle nazioni e nel Brasile si conierà un nuovo sostantivo, "haitianismo", sinonimo di disordine e violenza, utile all’impero brasiliano per rimandare l’emancipazione dei suoi schiavi fino al 1888.

In seguito, da colonia prospera, Haiti diventa il paese più povero dell’emisfero occidentale. Perché, dissero gli intellettuali dell’epoca, le rivoluzioni portano solo agli inferi. Ancor più in un paese nero, dominato dalla tendenza al fratricidio garantita dalle sue origini africane. Napoleone, più pratico, decise di reimpiantare la schiavitù ad Haiti. Ci spedì quindi 50 navi cariche di soldati al comando del generale Leclerc, ma anche lui fu sconfitto. Ma in Francia la rivoluzione c’era stata davvero; quindi Toussaint, invitato, accetta di recarsi in Francia, da amico e da rivoluzionario. Ma al suo arrivo è imprigionato, fino alla morte. La rivoluzione era vera, ma solo per i bianchi. I quali, temendolo, ne hanno permesso il rimpatrio delle ceneri solo nel 1985.

Haiti intanto, distrutta e senza una guida, accetta il principio secondo cui, avendo la rivoluzione espropriato o distrutto beni francesi, ha un debito verso la Francia. Accettato il principio e chiariti i rapporti di forza, Napoleone stabilisce la cifra, piuttosto esosa: 150 milioni di franchi oro, 21,7 miliardi di dollari odierni, e cioè 44 volte il budget 2004 di Haiti. La matematica applicava già allora la regola dell’interesse composto. E gli interessi di usura continuarono a moltiplicarsi sull’indennizzo per indipendenza. Successe per oltre un secolo: Haiti, infatti, pagò l’ultima rata nel 1938, quando ormai il paese era roba degli Stati Uniti.

Generosa come sanno essere i veri signori, in cambio del riconoscimento del debito la Francia riconobbe la nuova repubblica. E fu l’unica nazione a farlo. Non lo fece neppure Simòn Bolivar, che nel 1816 ci era arrivato da profugo sconfitto, per ritornare sulle coste venezuelane con navi, armi e soldati donati dagli haitiani in cambio di un unico impegno: la liberazione degli schiavi nelle future repubbliche indipendenti. Vinta la guerra di indipendenza, si limitò a mandare una spada in segno di ossequio. L’abolizione della schiavitù arrivò in Colombia solo nel 1851, in Venezuela nel 1854. I nuovi Stati dell’area riconobbero Haiti qualche decennio dopo. Anche perché quasi tutti avevano schiavi.

Nel 1915 i marines sbarcano ad Haiti. Se ne vanno nel 1934. Ritorneranno sempre, come l´influenza e le rondini. Iniziano occupando la dogana e l’agenzia che raccoglie le imposte. La Banca della nazione divenne quindi una succursale della City Bank di New York. Parallelamente, una circolare del comando di occupazione vietava ai neri, compreso il presidente, l’ingresso nei loro alberghi, ristoranti e club esclusivi. Naturalmente i marines dovettero ammazzare un sacco di gente, come ogni "liberazione" impone. Anche perché, pure lì, gli estremisti (vuduisti?) si ostinavano a considerarli truppe occupanti e non smettevano di attaccarli. E forse perché non c’era la diretta televisiva, dopo avere crocefisso a una porta il capo della resistenza, Charlemagne Péralte, lo esibirono, a memoria delle future generazioni, sulla piazza principale di Port-au-Prince.

Per garantirsi, prima di ritirarsi i liberatori crearono comunque un corpo di polizia, localmente chiamata "Guardia Nazionale", incaricata di governare a loro nome. Guardia Nazionale, come nel Nicaragua e nella Repubblica Dominicana. François Duvalier, più noto come "Papa Doc", fu quindi l’equivalente haitiano di Somoza e di Trujillo. Con l’aggiunta di un pizzico di ideologia, la versione locale della "negritudine", condita dal terrore scatenato dai suoi Tonton macoutes.

Poiché pure i dittatori muoiono, nel 1973 gli succedette il figlio, "Baby Doc" che, meno efficace del padre, fu rovesciato da un’insurrezione popolare nel 1986 e si rifugiò in Francia in uno dei suoi tanti castelli . Nel frattempo, da dittatura a dittatura e da disgrazia a tradimenti, era passato del tempo. La maggior parte della popolazione viveva vendendo il proprio sangue. Finché arrivò l´Aids…

Alla cacciata di "Baby Doc" si apre un breve periodo di instabilità dominato dalla élite mulatta; ma verso la fine degli anni ‘80 compare un prete piccolo e magro , Jean Bertrand Aristide, detto Titide. Seguace della teologia della liberazione, vince le elezioni presidenziali a furor di popolo e arriva alla presidenza nel 1991. Ma dura pochi mesi, rovesciato da un’insurrezione della destra interna appoggiata dagli organismi internazionali (non voleva pagare le rate sul debito estero alle condizioni del Fmi, allora diretto dal socialista francese Jacques de Larossière) e dagli Usa. Quindi, portato negli Stati Uniti, è "trattato" e "riciclato" per poi essere riportato alla presidenza nel 1994, tra le amorevoli braccia degli stessi marines che l’avevano rovesciato. Arriva a Port-au-Prince dopo che il presidente Clinton gli ha fatto promettere che porterà avanti senza tentennamenti i dettami del Fmi.

Nel 2000 Aristide vinse ancora, e largamente, le elezioni; ma l’opposizione non riconobbe mai la sua vittoria, che sarebbe stata ottenuta attraverso frodi. Può darsi che ci siano stati imbrogli, ma nessun osservatore esterno arrivò mai a sostenere che Aristide non avesse dalla sua la maggioranza della popolazione. Ma eccoci ormai arrivati all’epoca del piccolo Bush.

Fedele agli impegni presi con Clinton, Aristide smantella lo Stato, paga religiosamente le rate sul debito estero e liquida tutti i dazi doganali e i sussidi che proteggono la povera produzione nazionale. Così la popolazione comincia a protestare contro il governo e Aristide organizza - o quantomeno acconsente all’organizzazione - di gruppi civili incaricati di reprimere le proteste popolari. Proteste più che fondate. Perché, ad esempio, nell’arco di una stagione, i coltivatori haitiani di riso diventano mendicanti.

L’ex presidente haitiano Jean Bertrand Aristide.

Il Fmi lo ripaga congelando tutti i crediti, perché il paese non paga a sufficienza, e l’incaricato degli Affari haitiani del Dipartimento di Stato, Roger Noriega, comincia a versare denaro agli oppositori attraverso il partito repubblicano.
Così si arriva al 2004, quando un piccolo gruppo di oppositori indirettamente armati dagli Usa invade Haiti dalla Repubblica Dominicana. La Francia chiede le dimissioni del presidente. Colin Powell dichiara che può restare ma con un altro primo ministro. Aristide accetta, ma l’opposizione rifiuta e così gli Usa prendono atto che "Aristide è costretto a dimettersi", ma lui si rifiuta. Washington fa sì che l’azienda privata statunitense incaricata della sicurezza di Aristide gli ritiri le guardie. Poi fa una nuova offerta: garantiamo la sua sicurezza, ma solo se si dimette.

A quel punto Aristide, sotto scorta, s’imbarca per Bangui. Dal Centroafrica afferma che è stato sequestrato dai marines, ma il governo gli ricorda che può restare nel paese solo se rimane zitto. La comunità politica nera degli Usa, l’Associazione degli Stati caraibici (Caricom) e l’Unione Africana chiedono che gli si permetta di tornare ad Haiti e si avvii un’inchiesta sul presunto sequestro. Ma il colpo di Stato numero 32 della storia haitiana è ormai bello e consumato. Aristide, che al di là della sua conversione liberista era visto dai neoconservatori come una creatura di Clinton, di dubbia provenienza e scarsamente affidabile, è stato soppiantato da alleati più sicuri. Gli altri paesi dell’area sono stati avvertiti: gli Usa sono pronti a ripartire con la "diplomazia muscolare".

Come concludere? Forse ricordando che, se Repubblica Dominicana e Haiti si spartiscono la stessa isola, dalla parte dominicana del confine si trova da sempre un cartello: "Attenti al cattivo passo". Come a dire che di là c’è l’inferno. Non aggiunge, forse perché scontato, che non c’è neppure un Caronte a traghettare le anime di chi un giorno ha osato credere che la libertà fosse anche roba da neri.

Non ci sono dubbi: trattasi di una popolazione dannata, colpita da una maledizione bianca

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