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In Afghanistan un anno dopo

L’insicurezza, i clan, la condizione della donna, e uno sviluppo dovuto soprattutto ai soldi della droga. Da Narcomafie, mensile del Gruppo Abele di Torino.

Lucia Vastano

La frontiera a Torkham al tempo dei talebani e poi della guerra era presa d’assalto da profughi afghani che premevano sui cancelli per entrare. Ora è silenziosa e tranquilla. Siamo gli unici stranieri ad attraversarla. I nostri documenti sono controllati distrattamente, con curiosità più che per dovere ("Are you married? Have children?"). Attraversiamo la terra di nessuno, un paio di chilometri per arrivare al parcheggio dei taxi per Kabul. Sono centinaia in attesa dei pochi passeggeri. Duemila afghani, 35 euro, per un’auto "normale" con le gomme lise, 2.500 per una in uno stato migliore, 500 in più per l’aria condizionata. Per ricoprire i circa 200 chilometri fino alla capitale afghana ci vogliono circa sei ore. Fino a Jalalabad la strada è in ottime condizioni e l’asfalto viene rappezzato con prontezza. È così da sempre, dai periodi dell’occupazione sovietica ai regimi successivi, quasi per permettere una veloce via di fuga attraverso i confini a qualsiasi tipo di fuggiasco.

Herat.

Superata Jalalabad, il fondo stradale è per la maggior parte sterrato o pieno di buche. Rispetto allo scorso anno vi sono però segni di qualche intervento: sono in corso lavori di allargamento delle corsie e in molti tratti le pietre sono state schiacciate per preparare il terreno a una colata di asfalto. Vi sono anche un paio di tunnel in più che accorciano il tempo di percorrenza. Le migliorie stradali sono per il momento opera del governo pakistano, ma molte altre nazioni stanno preparando progetti per aggiudicarsi l’appalto.

Karzai, il potere debole. "Kabul cambia giorno dopo giorno. Ci sono novità quotidiane, vengono aperti negozi, ristoranti, nuovi alberghi e guest house - ci racconta Domenico Giorgi, l’ambasciatore italiano, nella capitale afghana fin dai primi giorni della liberazione dai talebani - L’economia è in fermento e vengono in continuazione avviate nuove imprese. Non è più come lo scorso anno quando siete venuti. Allora non si muoveva niente. Ora siamo in pieno boom e anche la cooperazione internazionale si sta dando un gran da fare, soprattutto per rimettere in piedi le strutture di base: impianti idrici, strade. Ma c’è un ma. L’economia qui a Kabul tira solo grazie alla droga. Ci sono tanti soldi in mano a pochi ricchi che non si sa, o meglio, si finge di non sapere come abbiano tanta disponibilità di liquidi. Per il resto, la situazione non è mai stata peggiore di questa. Il potere di Karzai fuori da Kabul è praticamente nullo".

Ismail Khan, governatore della provincia di Herat.

L’ambasciatore ha una sua drammatica storia personale da raccontare: "Lo scorso 21 marzo mi trovavo ad Herat per una visita ufficiale. Avevo passato buona parte della giornata con Mirwais Sadiq Khan, ministro dell’Aviazione civile e figlio di Ismail Khan, governatore della provincia di Herat. Lo avevo appena lasciato quando c’è stato l’attentato. Il ministro e due ufficiali di polizia che viaggiavano con lui sono morti. In città è scoppiato il putiferio ed io e il personale diplomatico che viaggiava con me ci siamo rifugiati nel bunker del ‘Provincial reconstruction team’, una struttura coordinata dagli americani. Non abbiamo avuto tempo per spaventarci".

L’ambasciatore minimizza i fatti. Quel giorno a Herat è scoppiata una vera e propria guerra civile. Diversi membri di organizzazioni umanitarie internazionali hanno detto di aver sentito giorno e notte colpi di mitragliatrice pesante e movimenti di carri armati in tutte le parti della città, anche lungo la strada che porta al confine con l’Iran. Le vittime sono state un centinaio tra cui diversi civili. Tra i numerosi feriti anche il capo dei servizi segreti di Ismail Khan. La versione ufficiale trasmessa da teleKabul dal portavoce della presidenza afghana parla di una granata lanciata da terroristi sull’auto del figlio del governatore. Ma lo stesso Ismail Khan "mette in bocca" ad un suo stretto collaboratore una denuncia ben più pesante: ad uccidere il ministro sarebbero stati uomini di Zahir Nayebzada, nominato proprio da Karzai comandante militare della provincia. Non è una novità che non scorra buon sangue tra Karzai e Ismail Khan, un tagiko di confessione sciita, molto vicino a Teheran. L’ex governatore della provincia di Herat (l’11 settembre 2004 Karzai lo ha rimosso dal suo incarico), un eroe della resistenza anti-sovietica, ha un suo personale e fedele esercito privato e dirige con il pugno di ferro il suo territorio, economicamente il più florido del Paese (senza pagare le tasse al governo centrale). Anche all’esercito privato di Khan, concorrente di quello "ufficiale" di Nayebzada, pensava Karzai quando il 12 luglio scorso ha dichiarato al New York Times: "Le milizie private afghane sono diventate il più grande pericolo per il Paese, più grande persino dell’insurrezione talebana".

O spitalità proverbiale. A Ghazni anche noi abbiamo, come scorta, una piccola milizia personale e fidata. E’ quella di un capo tribale, un vecchio duro e potente il cui nipote abbiamo aiutato un paio di anni fa, durante il regime talebano, quando si trovava in seria difficoltà. Quel nipote ora è caduto in disgrazia con il nonno. Ma, come vuole la tradizione pashtun, la sua famiglia, molto allargata, ha un debito di riconoscenza a vita nei nostri riguardi. Finché siamo in Afghanistan non abbiamo che da chiedere per avere: un cellulare, un fuoristrada con autista, un biglietto aereo, una scorta. L’unico riguardo che dobbiamo al clan è quello di non attardarci troppo, durante la visita a Ghazni, col nipote nostro amico, in isolamento punitivo.

La strada che collega Kabul a Ghazni è ora in ottime condizioni. Lo scorso anno per fare lo stesso tragitto ci volevano 5-6 ore. Ora per coprire quei 150 chilometri al nostro fuoristrada bastano un paio d’ore. E’ stata una compagnia turca, con i finanziamenti americani, ad occuparsi del lavoro. L’asfalto, in grado di sopportare senza rovinarsi gli enormi sbalzi di temperatura, è invece stato progettato da un’azienda di ricerca italiana.
Ghazni è una città più sonnolenta di Kabul. E’ ancora più radicalmente ancorata allo stile di vita tradizionale, anche se il ritorno di molti profughi dal Pakistan e dagli altri paesi esteri ha portato una ventata di modernità spesso più vistosa che nella capitale. Nei giardini antistanti la storica moschea in cima alla collina abbiamo incontrato alcune ragazze senza velo che chiacchieravano con alcuni coetanei come farebbero delle studentesse a Milano o New York. Ma, a volte, la "normalità" è solo apparente. Alcuni giorni dopo la nostra visita, la città è stata scossa da numerosi attentati. E poi proprio nella moschea sulla collina sei persone, tra cui due funzionari elettorali delle Nazioni Unite, sono rimaste uccise dall’esplosione di una bomba.

Gulbuddin Hekmatyar, fondatore di "Hezb-e-Islami" (il partito islamico).

"Non è il momento giusto per visitare Ghazni" - ci aveva avvisato Sulemanaji, il nipote del capo clan. Proprio per questo suo nonno gli aveva ordinato di farci scortare per tutto il viaggio da un paio di sue guardie armate di kalashnikov. Lì per lì abbiamo creduto ad una messinscena per ostentare il potere del clan: è tipico degli afghani mostrare i denti, ad amici e nemici, per far capire con chi si ha a che fare. Ma i khan, i comandanti, i re, come quel vecchio nonno apparentemente innocuo, hanno un’altra tipicità: sentono l’odore del pericolo nell’aria, anche quando non ne sono loro stessi i responsabili. Nella casa del nostro khan ci viene offerto un pranzo luculliano. Il vecchio ha una lunga barba bianca lasciata incolta come al tempo dei talebani. Il suo clan ha da sempre appoggiato Gulbuddin Hekmatyar, fondatore di "Hezb-e-Islami" (il partito islamico), nemico giurato dei sovietici durante l’occupazione, ma in seguito anche dei mujahiddin di Massud. Le cicatrici di Kabul, i quartieri distrutti, le case abbattute, i musei depredati, le mine sparse ovunque nelle case semi abbattute e nei campi si devono soprattutto alla guerra urbana per il controllo della capitale tra Gulbuddin e il leader tagiko. Ora Hekmatyar è ricercato dalla polizia di Karzai per crimini di guerra e dalla Cia per terrorismo. "Hezb-e-Islami combatterà la nostra guerra santa finché le truppe straniere se ne saranno andate dall’Afghanistan e gli afghani avranno ristabilito un governo islamico" - ha proclamato recentemente. Hekmatyar è nascosto in qualche grotta o villaggio non distante da Kabul e anche se ha perduto buona parte del sostegno dei suoi precedenti alleati (anche l’Iran, che gli ha preferito come referente Ismail Khan) continua a dare segni di vita e ad avere la protezione di numerosi clan pashtun.

Il nostro khan non ci parla direttamente, anche se sa perfettamente l’inglese: si rivolge nella sua lingua al nipote che poi traduce per noi. Ma spesso lo blocca per correggere la sua traduzione. Di tanto in tanto si accerta se abbiamo tutto quello che ci serve per sentirci a casa nostra: acqua fresca, appena tirata su da una buca nel terreno, frutta, cuscini. Non è sua abitudine dividere la tavola con le donne. Per tutta la giornata ci rivolgiamo a lui semplicemente come khan, a noi non è permesso sapere il suo nome vero. Lui è un capo e noi siamo forestieri, anche se "affiliati" al suo clan. Non sarebbe conveniente chiamarlo per nome. Sulemanaji ci spiega che lui non vuole la corrente elettrica in casa. La luce artificiale è sinonimo di corruzione: "La prima cosa che succede in una casa quando arriva la corrente è che i ragazzi si mettono davanti alla televisione e non fanno altro tutto il giorno" - dice. Così nella sua casa, che è sempre quella di un capo e deve esserne all’altezza, ci sono un grande televisore, un grande frigorifero e dei lampadari con decine di lampadine. Ma niente di tutto ciò funziona. Il khan si concede un’unica eccezione: ascoltare musica indiana o tradizionale pashtun con un vecchio mangianastri alimentato con la batteria della macchina. Non disdegna però le modernità in fatto di armi. Buttato sul suo letto c’è un kalashnikov...

L ’Afganistan non è il paradiso... Qual è il sentimento popolare nei riguardi degli americani? Provano odio verso di loro e l’Occidente? E cosa pensano della guerra santa sostenuta dai terroristi nei confronti del mondo non islamico? "Non c’è odio da parte della nostra gente verso il popolo americano. E’ l’amministrazione Bush, sono i signori del petrolio che calpestano i nostri destini per raggiungere i loro fini. In Afghanistan ci sono eserciti privati americani che entrano nelle nostre case e arrestano i capi famiglia. Li portano in prigioni private dove vengono torturati. Tutti noi pashtun abbiamo parenti a cui è successo. Gli americani credono così di poterci intimidire, di creare il vuoto attorno ai terroristi. Agiscono come in Sud America. Ma ottengono il risultato opposto. Per noi l’odio è un sentimento personale. Finché qualcuno non tocca un membro del clan è sempre un ospite benvenuto, da trattare come un re, come vuole il Corano. Ma se entra in una nostra casa e senza ragione compie atti di violenza è nostro dovere difenderci. I clan dei pashtun arrestati ingiustamente, fatti sparire, abusati hanno il diritto di provare odio verso chi ha commesso tali atti".

A che vi servono tutte le armi che avete?

"A difendere la nostra gente, il nostro territorio. Le armi non sono dei giocattoli. Quando ‘parlano’ devono dire qualcosa di sensato. Qui nessuno entra in un supermercato e fa strage di innocenti per divertimento, come avviene da voi".

Ma qui si mettono bombe, saltano per aria mercati o bus carichi di donne, vecchi e bambini. Non sarebbe meglio rinunciare alle armi e affidare ad una polizia nazionale la difesa della vostre famiglie?

"E’ la nostra gente a morire. Non sono clan come il mio a commettere gli attentati. Sono le mafie, i trafficanti di droga, i signori della guerra con fini di potere politico. I clan tribali hanno le loro regole d’onore, le mafie e i politici no. Gli attentati sono diventati per molti il sistema per farsi guardare con rispetto da chi decide la politica fuori dell’Afghanistan. Con chi credete che facciano accordi i potenti della terra, con un khan come me, il cui unico interesse è il bene e il rispetto della sua gente? Cosa potrebbero promettermi per corrompermi? Soldi, ricchezze? Ho già tutto quello che posso desiderare. Sono solo i miei nipoti che a volte mi danno preoccupazioni: hanno aspirazioni pericolose. Vogliono vivere come voi, avere macchine, motociclette, frequentare alberghi di lusso a Milano o New York. Sono queste ambizioni che armano il terrorismo e l’illegalità".

Ma voi proteggete persone come Hekmatyar che non è certo un santo.

"L’Afghanistan non è il paradiso. Voglia Allah che nel mondo non ci sia più bisogno di gente come lui".

Un’ultima domanda. E’sicura la strada per Herat?

"Fino Kandahar e oltre possiamo garantirvi la sicurezza. Ma poi è tutta un’altra musica. E’ meglio che prendiate l’aereo. Ma se volete, la mia scorta è a vostra disposizione". Ben armata, pronta allo scontro: meglio l’aereo.

Il consumismo arriva dalla Cina. A Kabul i cambiamenti da un anno a questa parte sono stati davvero tanti. Per prima cosa, solo dalla capitale, con i cellulari, è possibile chiamare l’estero. Telefonare in Italia costa pochissimo. Oltre a numerose telefonate locali, con una scheda da dieci dollari facciamo quattro lunghe telefonate a Milano e ancora ci resta del credito. E così, paradossalmente, da Kabul è più facile comunicare con Milano o New York che con Ghazni o Herat o Mazar-i-Sharif. Per il momento le diverse province afghane non comunicano telefonicamente (anche se la nascita di nuove compagnie fa supporre un imminente sviluppo anche della rete telefonica interna). Per comunicare tra città e città si deve usare il satellitare. Oppure Internet, che oramai è la grande voce di comunicazione nei paesi in via di sviluppo. Un altro progresso è quello dei voli civili. Vi sono ora due compagnie aeree concorrenti: l’Ariana Airlines e la nuova nata Kum Air, leggermente più conveniente. I voli interni e internazionali sono aumentati. Lo scorso anno vi erano solo tre voli alla settimana per Herat. Ora entrambe le compagnie hanno un volo giornaliero e i posti sono quasi sempre tutti occupati.

I minareti di Herat.

Arriviamo a Herat il giorno successivo ad un’altra strage di innocenti. Una bomba ha ucciso 5-6 persone tra cui anche dei bambini. I feriti, alcuni gravissimi, sono una cinquantina. Anche in questo caso il messaggio è chiaro: quel giorno veniva avviato nella città il programma di disarmo delle milizie locali voluto da Karzai. L’ordigno nascosto in un secchio è esploso presso una postazione militare, non lontano da un bazar. E’ un miracolo che le vittime non siano state molte di più. In città è arrivata pronta la stampa internazionale. Ci sono giornalisti americani, inglesi e di Al Jazeera. Ma è una toccata e fuga. I media rimangono in città giusto il tempo per spedire un pezzo in redazione e per far salire i prezzi degli alberghi. All’hotel Marco Polo, prontamente attrezzato con computer collegati ad Internet, i costi solo triplicati: ci chiedono 60 dollari per un buco di stanza senza finestre con un bagno ricavato in un angolo.

La città il giorno dopo la tragedia è vivace come sempre. I bazar sono affollati e pieni di donne, a differenza di quelli di Kabul, ancora in prevalenza frequentati dagli uomini. Indossano tutte rigorosamente il burka (ci sono iraniane con il chador), ma sono intraprendenti e contrattano con grinta. Spesso sulle loro braccia vi sono vistosi bracciali in oro, le unghie sono smaltate e le mani curate. Sembra esserci un benessere diffuso e una maggiore libertà per le donne rispetto a Kabul. Ma l’apparenza a volte inganna:
"Non ci sono stati grandi cambiamenti dopo la caduta del regime talebano per noi donne. Le regole sono rimaste quelle di sempre: siamo cittadine di serie B rispetto agli uomini. Dal 2002 ci è stato permesso di tornare a scuola, imparare a leggere e scrivere. Ma a volte questo diritto ci viene negato con mille scuse: la mancanza di insegnanti, di aule, l’impossibilità di raggiungere le scuole se si abita nei villaggi. Spesso sono le famiglie stesse a impedire alle ragazze di frequentare. Dicono che a una moglie non serve saper leggere un libro. - dice Breshna Rafiq, giornalista - Nella mia famiglia io sono considerata una pecora nera per il lavoro che faccio. Mia sorella si è adeguata ai desideri dei miei genitori. Si è sposata con un uomo tremendo, molto più vecchio di lei, violento e ignorante. Il suo è stato un matrimonio combinato. Dopo quattro anni d’inferno e botte perché non riusciva a dargli un figlio maschio lei non ce l’ha fatta e si è data fuoco. È morta tre settimane fa, dopo un mese di sofferenze".

La vivacità economica di Herat però è reale: "In Iran hanno deciso di escludere gli studenti afghani dal sistema scolastico gratuito. Così c’è stato un rientro in massa di rifugiati hazara. Molti di loro erano benestanti, ma soprattutto erano gente colta di cui ora gli iraniani si fidano per avviare nuovi business. Sono loro che stanno dando una sferzata all’economia di quest’area - spiega Ajmal Akhun, gioielliere - Teheran sta per aprire una grande banca. Gli investimenti iraniani stanno crescendo in tutto il Paese, non solo qui nella provincia di Herat. Per chi fa il mio lavoro questo è un periodo magico. Molte iraniane vengono ad Herat ad acquistare gioielli. Ma c’è una nuova minaccia che interessa soprattutto i piccoli artigiani, in particolare sarti e calzolai. Dalla Cina stanno arrivando prodotti a costo bassissimo. Camion interi di merce cinese stanno invadendo i nostri bazar".

Un tempo i commercianti afghani ci raccontavano dei loro viaggi in India e Thailandia per fare acquisti e comprare prodotti per i loro negozi. Ora tutti ci dicono di essere andati in Cina, a Kashgar, Urumqi e anche Pechino. Molti empori, lo scorso anno ben più raffinati, sono pieni di robaccia cinese: copie di vasi ming, orrende ceramiche, camicette e tessuti sintetici. Al bazar di Herat è quasi tutto marchiato Made in China. Sarà così in buona parte degli altri bazar che incontreremo lungo la Via della seta.

La paura è trasversale. Il sostegno economico iraniano all’Afghanistan di Ismail Khan è evidente anche dallo stato delle strade. L’autostrada che collega Herat ad Islam Qala (il confine a 120 chilometri) è asfaltata di fresco e il nostro bus (ci sono regolari collegamenti pubblici con Mashad) percorre il tragitto in un’ora e mezza circa, rispetto alle 4-5 ore dello scorso anno. I controlli alla frontiera sono veloci e rilassati, relativamente anche per i camion carichi di merce e per il nostro bus, anche se alla dogana iraniana a Tayabad ci tocca aspettare un’ora e mezza circa. Ancora non lo sappiamo, ma questa che abbiamo attraversato tra Afghanistan e Iran sarà l’ultima frontiera facile, senza intoppi, lungaggini burocratiche, piccoli soprusi e prevaricazioni da parte dei doganieri nel nostro viaggio in Asia centrale.

Mashad.

Arriviamo a Mashad, una delle città più sacre per gli sciiti, che è il tramonto. L’Holy Shrine dell’Iman Reza, ottavo nipote del profeta Maometto, è illuminato. Il vialone lungo chilometri che conduce al complesso del sacro sito è soffocato dal traffico. La zona pedonale pullula di gente. Uomini, bambini e donne avvolte nel loro triste chador nero fanno ressa nei negozi che vendono di tutto e nei ristoranti e si accalcano per accedere alla grande moschea.

Mashad è una città di pellegrinaggio e di turismo. Gli alberghi, anche quelli a quattro e cinque stelle che in questa zona sono numerosissimi, sono pieni di ospiti che pagano in dollari e con le carte di credito d’oro. Non si incontrano occidentali. Noi rappresentiamo una rarità. "Qualche anno fa avevamo incominciato a vedere turisti individuali anche dall’Europa e dall’America. C’erano italiani, francesi, americani, tedeschi. Dopo l’11 settembre sono spariti tutti. Hanno paura. Ma come dar loro torto? Abbiamo paura anche noi - confessa Reza Akhgar, direttore dell’Atlas Hotel che si affaccia sulla grande moschea e sull’ingresso del bazar - Le dichiarazioni di Bush ci hanno terrorizzato. La gente teme un attacco. E il nostro governo ne ha approfittato per aumentare i controlli e in certi casi le misure repressive contro di noi".

L’Holy Shrine è superprotetto e l’ingresso è riservato ai musulmani. Per accedere al complesso che lo ospita dobbiamo, come tutti, lasciare macchine fotografiche e borse al deposito e passare controlli come quelli aeroportuali: raggi X, perquisizione individuale, controllo dei passaporti. Una ragazza della sicurezza, armata di radio trasmittente, ci prende in consegna il tempo necessario per procurarci un chador. Il luogo è affascinante: cupole d’oro, minareti, moschee, tombe e cortili immensi con fontane, musei. I fedeli sciiti vi arrivano in pellegrinaggio da tutto il mondo islamico, moltissimi gli iracheni. Ma ci sono anche libanesi e indiani, pakistani e siriani, wahabbiti sauditi con i loro inconfondibili abiti bianchi e sunniti degli Emirati arrivati con i portafogli pieni per fare shopping nell’immenso bazar coperto E-Reza. Nel bazar l’argilla di Kerbala, la città sacra sciita in Iraq dove l’ayatollah Khomeini rimase in esilio prima di essere espulso da Saddam Hussein, è tra i prodotti in vendita quello che ha più successo. Nessun pellegrino sciita rinuncia a comprare almeno un paio di tavolette su cui appoggiare la testa durante la preghiera o da regalare ad amici e parenti.

Il nostro viaggio prosegue. Ci lasciamo alle spalle i Paesi dell’ospitalità, del tè offerto nei negozi, del cibo, condiviso in un piatto unico, offerto ai noi viandanti da terre lontane come si usava ai tempi di Marco Polo. Ci lasciamo alle spalle anche l’altra faccia della medaglia: le donne con i vestiti a maniche lunghe e il velo, il chador e il burka. Scavalchiamo la frontiera con il Turkmenistan ed entriamo in un altro mondo, che parla in modo fluente la nostra lingua occidentale: quella dei soldi. Non siamo più ospiti che vengono da lontano da accogliere con curiosità e rispetto. D’ora in poi saremo prevalentemente dei portafogli ambulanti.