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QT n. 2, 29 gennaio 2005 Monitor

Musical italiano?

"Il fantasma dell’Opera" della Compagnia Grandi Musicals: grande impegno produttivo e bravura degli interpreti. Ma se per musical italiano si intende musica melodica e storia melodrammatica, non si va tanto avanti.

All’aprirsi del sipario, il pubblico non nasconde lo stupore e l’approvazione: la ricchezza della scenografia, l’abbondanza (talora la ridondanza) degli effetti speciali sonori fa capire subito il livello della rappresentazione. Professionale, ricca, curata. Poi, sullo stesso registro, altre qualità appaiono: la validità delle coreografie, la sontuosità dei costumi. A questo aggiungiamo la bravura degli interpreti, che qui spaziano dalla danza fino al canto lirico, e ci rendiamo conto di come il musical italiano, anche con "Il fantasma dell’Opera" della Compagnia Grandi Musicals sia diventato decisamente maggiorenne; in grado cioè di attirare finanziamenti cospicui e professionalità di prim’ordine.

Detto questo, e sottolineato il favore con cui il pubblico del Teatro Sociale ha accolto il lavoro, apriamo un discorso più critico, che investe le radici del fenomeno – rapidamente crescente – del musical italiano.

Cominciamo col ricordare l’ovvio: musical deriva da musica. Quindi la qualità della musica è la base di tutto. E qui arrivano i dolori, perché il grande musical americano è firmato da Bernstein, Gershwin, Andrew Lloyd e Weber, quello italiano al massimo arriva a Cocciante.

Ma poi c’è un’arretratezza culturale di fondo: le musiche dei nostri musical sono dannatamente melodiche, sembrano vecchie di sessant’anni, nello stile – per chi se li ricorda - di Claudio Villa e Nilla Pizzi; sembra un tuffo nel passato, prima che Domenico Modugno, con "Volare",iniziasse a svecchiare la canzone italiana. Come mai questo ritorno indietro?

Il motivo è forse nelle caratteristiche della lingua italiana: perfetta per la melodia, ma inadatta, con le sue parole piane e sdrucciole, ai ritmi sincopati del rock e della musica moderna, che abbisogna delle tronche, di cui invece è zeppo l’inglese. Ed ecco allora che finché si tratta di una canzoncina ce se la cava anche in italiano, ma quando il testo deve articolare un racconto si entra in crisi. La controprova è nei musical americani tradotti: i motivi cantati in italiano perdono in brillantezza, e al contempo i testi ne escono banalizzati, alla ricerca disperata delle monosillabe che noi non abbiamo.

Ecco quindi che il lavoro della Compagnia Grandi Musicals e l’accorta regia e coreografia di André De La Roche non vengono sostenuti da un supporto musicale adeguato; tanto che l’unica lirica che veramente accende il pubblico (e viene poi canticchiata all’uscita) è "The phantom of the Opera", ripresa pari pari dall’omonimo lavoro di Andrew Lloyd e Weber.

Già che ci siamo, un’ultima notazione: l’argomento. La storia melodrammatica del musicista sfigurato che vive nei recessi del grande teatro, del rapporto possessivo con la giovane cantante, dell’impossibile amore del mostro, ecc: siamo sempre nel melodramma, con le storie strappalacrime dell’Ottocento, secolo ormai troppo lontano.

Il musical vero invece ci sa parlare dell’oggi, dei conflitti razziali nei ghetti ("West Side Story") o di quelli generazionali ("Hair") o culturali ("Grease") o osa rivisitare in moderna chiave dissacrante perfino la religione ("Jesus Christ Superstar").

Insomma, il musical italiano, per diventare adulto, ha ancora da fare molta strada.

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