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QT n. 3, 12 febbraio 2005 Monitor

“The Aviator”

Di Martin Scorsese, è un film "da Oscar" nel senso deteriore: concepito per diventare un successo, tecnicamente mirabolante, ma freddo, noioso, convenzionale. Un ritratto del magnate Howard Hughes non certo agiografico, eppur timoroso delle verità più crude.

Fra le produzioni recenti di Martin Scorsese le cose migliori sono decisamente i documentari, sulla storia del cinema ("Viaggio nel cinema americano") e della musica popolare ("The Blues. Dal Mali al Mississippi"). "The aviator", film biografico su un protagonista nascosto del Novecento americano, sembrava poter consentire al regista di coniugare la sua grande capacità narrativa con questo nuovo, forte interesse storico. Nonostante le promettenti premesse, "The Aviator" si rivela invece una pellicola "da Oscar" nel senso deteriore del termine: è concepito per diventare un film di successo e finisce per essere tremendamente ruffiano.

Eppure il film è girato con classe; è recitato da interpreti in grande spolvero (compreso Leonardo Di Caprio, che tuttavia rimane l’unico fuori parte, con la sua faccia da bravo ragazzo che mal si presta a raffigurare l’autocrate "aviatore"); le attrici che interpretano le dive sono splendide (in particolare Cate Blanchett che fa rivivere Katharine Hepburn) e indossano vestiti che non è possibile non notare; le scenografie dell’italiano Dante Ferretti ricreano in modo miracoloso l’atmosfera di un’epoca, come nel precedente "Gangs of New York". Ma se si escludono queste e le altre componenti tecniche, il film rimane freddo, distante, istituzionale, a tratti francamente noioso. Ci si chiede a un certo punto come si sia potuta descrivere in maniera così statica la vita di Howard Hughes. Ricco ereditiere, inventore, impresario e pioniere aeronautico, produttore cinematografico, regista, amante di Harlow-Hepburn-Gardner, Howard Hughes ha avuto una biografia che mal si sopporta di veder tradotta in un racconto cinematografico così convenzionale.

Hughes, in "The Aviator", è un uomo ambiguo ma di successo, abile negli affari e seduttivo negli amori. E’ un personaggio affascinante (non per niente lo interpreta Di Caprio) e un "vero americano", direbbe forse qualcuno, uno spirito imprenditoriale libero che corre dei rischi e paga di tasca propria il prezzo della ribalta. Il film finisce con Hughes messo sotto processo da politicanti corrotti. A conti fatti, si può dire che esca dal tribunale da vincitore morale.

Il ritratto portato sullo schermo da Scorsese non è certo agiografico. Il film sottolinea tutto il disagio mentale a stento controllato da Howard Hughes - in particolare la sua psicosi ossessivo-compulsiva nei confronti dello sporco e della contaminazione. La germofobia di Hughes è psicanaliticamente avvolta nella nebulosa mamma-mammelle-latte. In effetti, il tycoon fu anche disegnatore di modelli di reggiseno, e come regista e produttore diede dei grossi scossoni ai pilastri della censura edificati dai codici e dalla commissioni dell’epoca. Con "Il mio corpo ti scalderà" (ma in originale è semplicemente "The Outlaw"), nel 1943 il regista Hughes lancerà Jane Russell e la mania per i petti abbondanti che caratterizzerà, non solo in America, il secondo dopoguerra.

L’ambiguità del personaggio di Hughes andrebbe tuttavia trasportata anche su un altro livello. Scorsese, nel descriverne il ritratto, si ferma sempre un attimo troppo presto: prima di mostrarne il degrado morale e fisico, prima di scavare in profondità nella politica e nei rapporti intricati tra il potere di Washington e l’industria dei sogni hollywoodiana. Il racconto cinematografico di Martin Scorsese rimane tronco. Non accenna al vero finale di partita: Howard Hughes finirà i suoi giorni rinchiuso nella stanza di un hotel a Las Vegas, totalmente sfatto, circondato da recipienti di urina, arreso alla sporcizia che per tutta la vita aveva tentato di combattere.

Forse Scorsese evita di approfondire e allargare l’indagine perché è troppo innamorato dell’idea di cinema portata avanti da Hughes come produttore e come regista. Entrambi amano nel cinema l’arte e l’industria, l’avventura senza limiti, la passione incontrollabile e totalizzante. Scorsese, da regista e da storico del cinema, guarda a quest’epoca eroica di Hollywood e a tanti dei suoi pionieri con un’ammirazione assoluta.

Accanto alla descrizione di Martin Scorsese bisognerebbe allora mettere quella che del personaggio di Hughes dà James Ellroy nel grande romanzo "American Tabloid" e nei due volumi successivi di una trilogia sui luoghi oscuri della storia recente degli Stati Uniti. La politica americana attorno agli anni dell’omicidio Kennedy è vista come un sistema di potere in mano a "sbirri corrotti e professionisti del ricatto". Di questo marciume politico-mafioso Howard Hughes è uno dei grandi protagonisti - proprietario, negli anni Cinquanta, di una reazionaria rivista di gossip spinto che usa per demolire carriere e tenere al guinzaglio i politici, fiancheggiatore del capo dell’FBI J. Edgar Hoover e del futuro presidente Nixon, nemico giurato del clan Kennedy. Per confrontarla con quella che in "The aviator" viene tutto sommato raffigurata come una "età dell’innocenza" (è anche il titolo di un precedente film di Scorsese), citiamo la frase che apre "American Tabloid": "L’America non è mai stata innocente. Abbiamo perso la nostra verginità sulla nave durante il viaggio di andata e ci siamo guardati indietro senza alcun rimpianto. Non si può ascrivere la nostra caduta dalla grazia ad alcun singolo evento o insieme di circostanze. Non è possibile perdere ciò che non si ha fin dall’inizio".

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