Menù
Home
QT
Questotrentino
Mensile di informazione e approfondimento
Utente
Cerca
QT n. 6, 25 marzo 2005 Servizi

Irak: la patata bollente del ritiro

La situazione in Medio Oriente appare più aperta. Ma il merito non è della guerra preventiva.

Giulia Clerici

A due anni dall’inizio della "guerra preventiva" contro l’Iraq, il problema per la "Coalition of the willings", è come ritirarsi. Anzi, sarebbe meglio parlare di quel che resta della coalizione, dopo la serie di ritiri unilaterali: quello fragoroso della Spagna di Zapatero prima, e poi quelli più silenziosi, fino agli ultimi di Polonia e Ucraina, due anni or sono rappresentanti di qulla "nuova Europa", generosamente filo-atlantica, vagheggiata dai neocon americani.

Non stupisce in questo quadro l’inattesa rilevanza dell’Italia, ultimo paese di un certo peso ancora al seguito degli anglo-americani; Italia che però, a questo punto, avrebbe una gran voglia di smarcarsi. Ma sarebbe il sigillo sul fallimento di Bush, almeno come coalizzatore, che quindi ostenta una nuova attenzione verso un alleato prima secondario.

In questo quadro, è forse utile riflettere sulle prevedibili evoluzioni future. Anche perché la questione irachena, e in primis il nostro ritiro costituirà probabilmente un elemento rilevante della prossima campagna elettorale.

Ma nell’attuale situazione, il ritiro è attuabile? In quali tempi e a quali condizioni? Con quali ripercussioni?

Per rispondere a queste domande abbiamo chiesto l’aiuto chiarificatore di esperti in materia. "All’interno della coalizione - ci spiega il prof. Vincent Della Sala, docente di Politica internazionale all’Universita di Trento - non si registra una diversità di strategia: tutti desiderano ritirare le proprie truppe dall’Iraq. La condizione che renderà il ritiro possibile sarà tuttavia la capacità del Governo iracheno di garantire la sicurezza sul suo territorio".

Tenuto conto di questa sostanziale comunanza di intenti e del crescere dello scontento dell’opinione pubblica italiana relativamente alla missione, è probabile che "qualunque sia il Governo che si formerà in Italia dopo le elezioni del 2006, esso cercherà se possibile di ritirare le truppe. All’attuale Governo risulterebbe molto utile, nell’ottica della campagna elettorale, poter dimostrare di aver partecipato fruttuosamente ad una missione portatrice di sicurezza e democrazia. Allo stesso tempo ciò permetterebbe un’uscita di scena dignitosa, sostenuta dalla consapevolezza di aver portato a termine il proprio compito in Iraq".

Naturalmente l’attuabilità di questa scappatoia dipenderà dalla capacità del Governo irakeno di sostituirsi alle forze militari straniere nel garantire la sicurezza. "Se infatti al momento delle elezioni in Italia la situazione irakena sarà ancora caratterizzata da una significativa instabilità, per la destra il disimpegno sarebbe molto più difficile. In tal caso, la decisione di ritirare le truppe diventerebbe più difficile anche per un Governo di sinistra, poiché porterebbe ad un raffreddamento dei rapporti atlantici. Anche se le conseguenze non sarebbero poi troppo gravi, perché, a quel punto, il contingente italiano sarebbe rimasto in Iraq per un periodo sufficientemente utile di tempo".

Il viaggio di Condoleezza Rice in Europa ha inoltre dimostrato che anche le fratture atlantiche più profonde, come quelle tra Stati Uniti e Francia e Germania, si possono in fondo risanare.

Questo punto di vista è condiviso dal prof. Sergio Fabbrini, docente di Scienze Politiche, secondo il quale ci troviamo di fronte ad uno scenario contraddittorio. Se da un lato infatti l’occupazione alleata dell’Iraq presenta i ben noti problemi, dall’altro "abbiamo assistito negli ultimi mesi ad una serie di processi che dimostrano che se la situazione medio-orientale non si sta avviando verso una vera democratizzazione, per lo meno si può constatare una maggiore apertura".

Le elezioni irakene, caratterizzate da un discreto tasso di partecipazione, le elezioni comunali in Arabia Saudita, il movimento libanese per la fine dell’occupazione siriana e le elezioni in Palestina sono tutti segnali che qualcosa in Medio Oriente si sta effettivamente muovendo. Tuttavia, "occorre mettere in discussione il dogma imperante secondo cui questo processo di apertura trova la sua origine nell’intervento americano in Iraq. L’eliminazione di Saddam può aver contribuito, ma vi sono ben altre cause, anzitutto di carattere interno. Cause la cui importanza deriva dal fatto di esserestate prodotte dall’azione di società nazionali che spontaneamente proclamano la propria identità e la voglia di maggiore libertà. Tutto ciò è in evidente contraddizione con il dogma neo-conservatore della possibilità, e necessità, dell’esportazione della democrazia con la forza. La sinistra italiana deve avere il coraggio di contrastare questo dogma, e di ribadire che la scelta di invadere l’Iraq fu sbagliata. Si tratta di scegliere tra due linee d’azione molto diverse: da una parte quella americana, fondata sulla potenza militare, dall’altra quella europea, fondata sulla potenza civile. Se le elezioni si tenessero domani, la strada obbligata per la sinistra italiana sarebbe sì quella di portare l’Italia fuori dall’Iraq, ma soprattutto di riportarla dentro l’Europa".