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U’wa, i figli della terra

Colombia: un popolo di 6.000 persone minacciato dal petrolio. Da Narcomafie, mensile del Gruppo Abele di Torino.

Guido Picciol, Danilo De Marco

Una volta gli U’wa vivevano in un territorio immenso che comprendeva una parte della Cordigliera orientale, il bacino del fiume Chichamocha, le saline di Chita, il deserto di Pisba e la Sierra di Merida. Poi arrivarono gli uomini bianchi, armati di spade, lance e croci.

Dopo di loro, gli eserciti con i fucili e i cannoni, i coloni affamati di terre, i guaqueros alla ricerca dei tesori sepolti nelle tombe, i missionari che imposero nuovi dèi e una nuova lingua, i tagliaboschi con le motoseghe che abbatterono gli alberi più belli. Gli U’wa furono costretti a retrocedere, a nascondersi nelle foreste e sui monti. E cominciarono lentamente a estinguersi, come la tigre di monte e il piccolo cervo.

Poi, 1991 anni dopo la nascita di un Cristo che non conoscevano, qualcuno, forse un bianco buono e caritatevole, disse loro di stare tranquilli: la nazione, chiamata Colombia, a cui apparteneva la loro terra, si era data una Costituzione tra le più avanzate del mondo che proteggeva quasi con amore materno i diritti dei popoli indigeni. A quella notizia il loro cacicco, Berito, sorrise con la sua aria un po’ ironica di profeta antico.

Dopo qualche anno però cominciarono a girare nel territorio sacro altri uomini con strani strumenti di misurazione che permisero di scoprire che là sotto c’era un mare di petrolio. La Costituzione si rivelò carta straccia.

Sacra o non sacra che fosse, protetta o non protetta dalle leggi, da quella terra andava succhiato il petrolio. Anzi, fatto succhiare dalla multinazionale Oxy.

Fu allora che il mondo cominciò a conoscere gli U’wa e la loro lotta. E fu allora che Berito cominciò a girare per il mondo, con l’aria ironica di sempre. Alla logica del profitto e del mercato, dello sfruttamento intensivo della natura, del fine che giustifica i mezzi e della competitività d’impresa, si contrappose una saggezza antica.

Il cacicco Berito, uno dei pochi U’wa che si esprime in castigliano, parla un linguaggio che può ricordare quello delle favole: "Se porteranno via il sangue dalla terra, il Padre del Cielo ci punirà col terremoto, seccando gli alberi e i fiumi, uccidendo gli animali, togliendoci il tabacco e la coca che danno la vita".

Gli U’wa si appellano alla Costituzione fatta dai politici di Bogotà. Il governo colombiano, per appropriarsi dei terreni, riesuma una legge che viene dai tempi del re di Spagna, che sancisce la proprietà statale del sottosuolo. Per completare la truffa, assicura di agire per il "bene comune" di tutti i colombiani. Ridicola bugia, visti gli spudorati regali alle multinazionali, sulle cui buste paga compare sicuramente il loro nome.

E poi, altra ignobile truffa, assicurano che il petrolio verrà estratto al di fuori dei confini del territorio sacro.

Tutti sanno che quella terra meravigliosa che è il Bloque Samoré, rimasta incontaminata grazie agli U’wa, cambierà faccia. Si svuoterà di alberi, di animali, di fiumi. Si riempirà di strade, di pozzi e di oleodotti, di trivelle e di gru, di sostanze nocive per gli uomini e la natura. Si riempirà di invasori di ogni tipo, dai lavoratori petroliferi ai guardiani, dai militari ai paramilitari e ai guerriglieri, tutti a cercare di campare o di approfittare della nuova abbondanza, fino a quando la terra conterrà l’oro nero. E si svuoterà dei seimila U’wa sopravvissuti che non potranno far altro che lasciarsi morire.

Qualche secolo fa gli U’wa si suicidarono lanciandosi a centinaia, donne, uomini e bambini, dal Peñon de los muertos, la Rupe dei morti, vicino a Guican, per non farsi annientare dai conquistadores. Adesso il loro destino sembra lo stesso. Adesso, nell’epoca barbara e ipocrita della pace, della democrazia, dei diritti umani, del villaggio globale, di Internet e dell’ecologia.

Noi però ci potremo sempre consolare. Quando la Oxy vincerà e gli U’wa verranno sterminati, la nostra benzina per un po’ potrà costare, occhio e croce, qualche centesimo di euro in meno. Che non è poco, con tutti i chilometri che facciamo con le nostre automobili.