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La nuova Cina: Internet e contadini

L’apertura della Cina al mercato: la libertà e democrazia che mancano ancora, le nuove fortissime disuguaglianze. Da “Una città”, mensile di Forlì.

Nel rapporto fra economia di mercato e democrazia, la prima considerazione da fare è che non c’è nulla di scontato. Per certi versi lo Stato ha acquisito un’influenza maggiore proprio con l’avvento di un’economia di mercato. Rispetto alla fine degli anni ’80, l’economia di mercato si è decisamente consolidata, eppure questo non ha comportato concreti passi avanti verso la democrazia. Non si può però neanche affermare che vi sia stata una crescita di autoritarismo. Di certo possiamo dire che non c’è una relazione causa/effetto: l’economia di mercato non porta fisiologicamente alla democrazia.

Parlando di democrazia, dobbiamo per forza discutere anche di crisi della democrazia. Se confrontiamo le idee che circolavano in Cina a fine anni ’80 con quelle che circolano oggi, ci accorgiamo che allora, al tempo dei grandi movimenti sociali, vedevamo l’America come l’ideale da imitare ed eravamo ottimisti e sicuri del nostro futuro. Ora, invece, abbiamo perso il modello da imitare. Adesso le risposte che daremmo alle stesse domande sarebbero più complesse, non abbiamo più dei modelli chiari da seguire, non sappiamo più qual è il nostro orientamento. Ma una simile insicurezza non è del tutto negativa perché ci costringe a riflettere, a pensare, a non dare le cose per scontate. C’è chi dice che la cultura cinese non sarebbe adatta per la democrazia. Altri sostengono che ci sarebbe invece una "via cinese" fondata su una propria tradizione...

Le elezioni. Negli ultimi decenni, specie a livello di villaggi o piccole città, si sono tenute elezioni, anche su larga scala. In un primo momento un tale fenomeno è stato criticato da parecchi intellettuali che non consideravano queste elezioni veramente democratiche. In parte le critiche erano fondate: in alcune regioni si verificavano brogli, i capi villaggio erano corrotti, si compravano i voti… D’altra parte, tuttavia, c’erano aree in cui i contadini si organizzavano bene e le elezioni funzionavano: parliamo soprattutto di tutte le terre devastate dalla costruzione delle dighe per l’energia elettrica. In quelle zone si è sviluppato il movimento contro le dighe e lì si è raggiunto un buon grado di organizzazione dell’elettorato, perché grazie all’alta partecipazione alle elezioni, il movimento si è rafforzato e i leader eletti hanno potuto far sentire con più forza la loro voce. Al contrario, in molte delle aree in cui non si sono mai tenute elezioni, è stato più difficile organizzarsi per reclamare i propri diritti. Considerando tutto ciò, credo che le elezioni locali rappresentino un fenomeno positivo. Spero che non ci si fermi a quel livello: c’è bisogno di un cambiamento radicale nelle strutture di potere. (…)

La legislazione. Negli ultimi anni sono entrate in vigore in Cina moltissime nuove leggi. Tuttavia, se da un lato abbiamo avuto la sensazione di compiere grandi progressi sulla strada del raggiungimento di un pieno Stato di diritto, dall’altra abbiamo riscontrato che spesso queste leggi si sono dimostrate poco efficaci. Una trasformazione così radicale dei codici tra l’altro spesso ha portato una certa confusione.

Un ulteriore fattore da tenere in considerazione è l’enorme differenze tra regione e regione, e in particolare fra aree urbane e rurali. L’imposizione di un unico codice a realtà così diverse può infatti provocare effetti imprevedibili. D’altra parte, anche implementando leggi diverse da zona a zona, possono venire a crearsi dei problemi, se non altro di gestione e controllo.

Dopo il 1989, fui trasferito per un periodo di "rieducazione" in una vasta area vasta fra le montagne, in cui a tenere l’ordine tra 400.000 abitanti erano stati mandati venti poliziotti, per cui è facile intuire come il sistema di sicurezza in quella regione fosse praticamente assente e il tasso di criminalità molto alto. D’altra parte situazioni come questa godono di lunga tradizione in Cina: all’inizio del XX secolo, ad esempio, i rivoluzionari descrivevano la Cina come uno Stato che, se da un lato si dimostrava eccessivamente autoritario, dall’altro poteva essere definito "anarchico".

Il paradosso è evidente: se si afferma di volere uno Stato disimpegnato, bisogna chiedersi che ne sarà, non solo della sicurezza, ma anche della previdenza sociale, del sistema sanitario, delle politiche fiscali in un contesto in cui l’economia di mercato la fa da padrona. In determinati contesti e a certi livelli è opportuno ridurre il numero dei dipendenti statali, ma in altri settori l’intervento statale va semmai espanso.

Il mio trasferimento in quell’area di montagna, una delle zone più povere della Cina, fu un’esperienza importante. Essendo cresciuto durante la Rivoluzione Culturale, in ottemperanza ai precetti di Mao che sosteneva che tutti gli studenti dovessero essere esperti in tecnologie industriali e in agricoltura, ogni anno andavo a lavorare nei campi e nelle fabbriche, e ne avevo viste di cose, eppure non mi ero mai trovato di fronte a una tale povertà come quella che conobbi allora, nel 1989, e ciò mi ha fatto molto riflettere sul problema della disuguaglianza.

Uguaglianza e stato sociale. In Cina, quando avevamo un’economia totalmente pianificata, c’era un sistema fiscale in cui le zone più sviluppate del Paese erano soggette all’imposizione di tasse più elevate rispetto a quelle che doveva pagare chi risiedeva in regioni povere. Grazie al maggior gettito fiscale di alcune aree, avveniva così una redistribuzione della ricchezza a vantaggio delle zone più disagiate. Ma negli ultimi anni la tendenza è stata quella di rinnegare pregiudizialmente il nostro passato, affermando che tutto quanto successo in Cina in quei decenni fosse da condannare come autoritarismo e totalitarismo. Questo misconoscimento del passato ci ha gettato a capofitto verso una totale apertura dei mercati, portando a un sistema economico assolutamente iniquo.

Questo è un problema se possibile ancora più scottante di quelli trattati in precedenza, perché è difficile parlarne. Si rischia sempre di essere accusati di voler tornare indietro, di essere dei reazionari. Ma nessuno auspica un ritorno al passato. Non è vero, come ho letto, che i contadini cinesi guarderebbero con nostalgia al passato, a quando la dittatura era più autoritaria. Non si tratta di questo, di essere nostalgici.

La questione è complessa e non riguarda solo la Cina. Ad esempio, a Taiwan, molti intellettuali rimpiangono il sistema di istruzione pubblica e obbligatoria che c’era prima della definitiva imposizione dell’economia di mercato. Anche da noi l’avanzata del neoliberismo ha portato al collasso del sistema dell’istruzione pubblica. Un altro esempio in Cina è quello delle minoranze linguistiche: in passato, il Governo centrale si preoccupava di istituire programmi scolastici che tenessero conto di tali minoranze. Ora invece, con la diffusione del libero mercato, lo Stato demanda questo, come altri compiti, alle autorità locali, che spesso però mancano dei fondi necessari.

L’anno scorso, quando c’è stata l’epidemia di Sars, all’inizio le uniche denunce vennero dalle zone urbane, da Pechino, da Quang Do, da Hong Kong... Ma la maggiore preoccupazione per tutta la società cinese era che quest’epidemia si estendesse alle aree rurali, assolutamente sprovviste di una minima parvenza di sistema sanitario. Se la Sars si fosse diffusa in quelle zone, non ci sarebbe stato più modo di controllarla. Allora però bisogna chiedersi come mai l’attuale Governo centrale, con la sua politica di mercato, non si preoccupa di tali carenze sanitarie, mentre i passati governi avevano istituito, nelle campagne, servizi sanitari da cui i contadini traevano grandi benefici.

La censura. Il controllo sui media c’è e c’è sempre stato, talvolta più ferreo, talvolta meno, ma si è sempre riusciti a ricavarsi spazi di discussione.

In pratica non si è mai potuto instaurare un controllo totale e non sto parlando solo di Internet, ma anche della carta stampata, soprattutto di certi giornali curati da intellettuali, come quello per cui lavoro: a volte prendiamo posizioni veramente critiche, al punto che ci convinciamo che i nostri articoli non verranno pubblicati e invece poi escono normalmente.

Shangai.

Ciò è in parte dovuto alle riforme in atto nelle istituzioni statali: ai tempi del socialismo, c’era una forte ideologia che riusciva a muovere una macchina ideologica imponente, la quale censurava questo o quello. Adesso invece non si sa bene quale sia l’ideologia che guida le istituzioni statali: politiche apertamente inclini all’economia di mercato vengono definite ancora socialiste. Insomma, c’è una situazione caotica in cui è difficile prevedere le reazioni: scrivi un pezzo molto critico e te lo lasciano pubblicare e poi ne scrivi un altro di tenore uguale o anche con meno critiche e non viene pubblicato. Capita anche che non vengano pubblicati due articoli che esprimono opinioni del tutto contrastanti su uno stesso tema senza che si riesca a capire quale delle due opinioni sia tollerata e quale venga invece osteggiata. Il modo d’agire del Governo è difficile da decifrare: non si sa mai a cosa tendano determinati provvedimenti. Tuttavia queste azioni scoordinate creano, seppur involontariamente, spazi di discussione.

Di fatto, i dibattiti sugli aspetti legati alla vita quotidiana e che apparentemente non rappresentano istanze di cui si debbano occupare gli alti ranghi della politica, hanno avuto campo libero. In realtà anche questi ambiti riguardano strettamente la politica, pur non essendo significativi per la lotta per il potere.

Insomma, il controllo resta sempre in agguato, solo che non è più dettato dall’ideologia ma dalle paure della classe politica e dei gruppi di pressione che temono una possibile instabilità.

Tuttavia, va detto che l’atmosfera è molto cambiata rispetto al periodo pieno di fermenti culturali e aperture che aveva caratterizzato la fine degli anni ’80. Negli ultimi anni ci sono stati diversi movimenti sociali di protesta con scontri fra i manifestanti e la polizia in alcune province. E’ quando si arriva a questo punto che il governo comincia a preoccuparsi e accentua il suo controllo e la sua repressione, cercando al contempo di sviare l’interesse dei media.

Questa è la differenza fra i meccanismi di controllo odierni e quelli adottati alla fine degli anni ’80: prima ci si concentrava soprattutto nel censurare discussioni su temi astratti o ideologici, quali ad esempio la democrazia, ora invece ci si sofferma su aspetti molto concreti.

Adesso però è indubbio che sia molto più difficile esercitare un controllo. Intanto ci sono le nuove tecnologie. Certo, Internet non è lo spazio assolutamente libero che si può immaginare. Si possono esercitare anche in rete dei controlli, ma è più difficile insabbiare le informazioni in una società informatizzata.

Faccio un esempio: al momento delle trattative fra Cina e Stati Uniti per il nostro ingresso nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, il Governo non voleva informare su come procedevano i negoziati. Tuttavia, quando in America ci fu un’interrogazione parlamentare che accusava alcuni negoziatori di aver tradito gli interessi degli Usa durante i colloqui, noi lo venimmo a sapere, il giorno stesso, dai siti Internet americani e, attraverso questi ultimi, potemmo informarci meglio sullo stato delle trattative.

Il problema maggiore resta sempre quello dei contadini che non hanno i mezzi per entrare in questi spazi. Per chi vive in città ormai è facile avere Internet, è un mezzo di comunicazione molto diffuso. Anche nelle aree rurali costiere non è difficile disporre di una connessione alla rete. Restano però tutte le campagne interne, nelle quali le tecnologie informatiche sono praticamente sconosciute. Se quindi da un lato l’utilizzo di Internet e l’impiego del computer hanno permesso di aprire nuovi luoghi di dibattito, essi rappresentano anche fattori di divisione all’interno della società.

L ’economia. L’economia cinese, come sappiamo, è in una fase di grande espansione: il tasso di crescita quest’anno sarà del 9%, e probabilmente è ancora destinata a un vertiginoso sviluppo. E tuttavia, proprio questo sviluppo rischia di aggravare le divisioni sociali e le contraddizioni interne, che si fanno sempre più marcate. Per questo è urgente riempire il fossato tra le zone rurali e quelle urbane, per evitare il disastro, perché questo è un fattore decisivo per la stabilità sociale.

Se nelle aree urbane a forte occupazione l’impressione è quella di un generale ottimismo nei confronti delle riforme, nelle aree rurali la gente è molto più scettica. Nella Cina nord-orientale, inoltre, in una zona in cui la principale attività economica è rappresentata dall’industria pesante e nella quale il tasso di disoccupazione è decisamente elevato, molte persone non sono per niente soddisfatte.

Hong Kong.

Anche fra i giovani la disuguaglianza e l’area di residenza sono decisive. Dagli anni ’50 fino alla mia generazione - quella degli anni ’70 e ’80 - tra i figli dei contadini la quota di coloro che riuscivano a entrare nelle università era piuttosto alta. Ora questa percentuale si è abbassata moltissimo. Inoltre se prima era quasi impossibile trovare laureati disoccupati, ora non è più così: la disoccupazione si fa sentire anche fra loro. E c’è anche un altro fenomeno da considerare: da un lato molti studenti incontrano difficoltà a trovar lavoro nelle aree urbane; dall’altro, in vaste zone della Cina nord-orientale ci sarebbe bisogno di loro, ma nessuno vuole trasferirsi. Gli squilibri fra regioni infatti scoraggiano le persone dallo spostarsi verso le periferie. Ciò finisce per incidere sugli squilibri già esistenti, in quanto per portare l’economia di mercato nelle zone più disagiate servirebbe un buon livello di istruzione e persone formate nell’uso delle tecnologie. Ma se i giovani preferiscono restare a Pechino o a Shangai, il gap attualmente esistente non verrà mai superato.

C’è poi un altro paradosso: durante il socialismo, lo Stato decideva che lavoro dovevi svolgere e dove dovevi vivere, il che garantiva un sistema più omogeneo. Non avevamo libertà di scelta, eravamo obbligati a prenderci il lavoro deciso per noi dallo Stato, ma anche adesso che le cose sono cambiate, la nostra non è comunque una libera scelta: si tratta di due tipi diversi di non libertà. Non so quale sia la via per uscire da questo circolo vizioso. Ovviamente, non auspico un ritorno al passato; non auspico che sia lo Stato a decidere tutto, ma una vera possibilità di scelta sarà garantita solo dopo aver colmato il divario fra le diverse aree del Paese.

Il lavoro minorile. In Cina, secondo la legge, è proibito assumere personale al di sotto dei 16 o 18 anni d’età, eppure, specialmente nelle campagne, il lavoro minorile è ampiamente diffuso. La causa la si può in parte trovare nel sistema educativo: in certe zone, infatti, anche i migliori studenti non hanno accesso all’istruzione universitaria e quindi, dopo aver preso il diploma di scuola superiore o addirittura la licenza media, non possono che fare i contadini. Tra l’altro ora l’istruzione si paga: prima avevamo la scuola pubblica e obbligatoria che era quasi gratuita per i figli dei contadini, mentre ora, nei fatti, la gratuità e l’obbligatorietà dell’istruzione sono state abolite.

Per questo i genitori preferiscono mandare a lavorare i figli fin da ragazzi, perché non potrebbero permettersi di mandarli a scuola e, se anche potessero, la scuola non dà loro alcuna prospettiva futura.

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