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Con Isaac e Richard all’ospedale

Esperienze di una volontaria in Sudafrica.

Serena Rauzi

Serena Rauzi è tornata da un paio di settimane da Johannesburg, in Sudafrica, dove ha trascorso sei mesi come volontaria presso il Maryvale College, una scuola superiore cattolica, e presso Mercy House, una casa in cui hanno trovato rifugio e ospitalità ragazzi provenienti soprattutto dal Congo, dal Ruanda, dal Sudan e dal Burundi.

Appena laureata, mi ero messa alla ricerca di un’occasione che mi consentisse di fare una qualche esperienza lavorativa e allo stesso tempo di approfondire le mie scarse conoscenze di inglese. Così, dopo vari tentativi, avevo accettato con entusiasmo la proposta di padre Giorgio, un missionario comboniano residente a Pretoria, che mi aveva trovato un alloggio a Johannesburg, messo a disposizione dalla scuola per la quale avrei lavorato.

Johannesburg.

Già dopo i primi giorni del mio soggiorno, la motivazione primaria del mio viaggio (lo studio dell’inglese) passò in secondo piano. Mi trovavo letteralmente in un altro mondo, in cui la differenza linguistica non era l’ostacolo principale; in un mondo complesso in cui tentano di convivere un’affascinante varietà di diverse realtà sociali, etniche, linguistiche e storiche, un mondo nel quale l’occidentalizzazione si scontra con tradizioni tribali, in cui un grande benessere vive porta a porta con un’altrettanto grande povertà, in cui la piaga dell’AIDS (il Sudafrica è il paese con il più alto tasso di malati) è zittita come un tabù diffuso, perfino tra persone colte come gli insegnanti di scuola superiore.

Nei primi mesi il mio povero inglese non mi consentiva una partecipazione attiva alla vita della scuola, quindi concentravo le mie attività aiutando come potevo i rifugiati da cui mi recavo regolarmente tutti i pomeriggi. Già la seconda settimana, in cui tutto per me era ancora nuovo, diverso e pericoloso, ho accompagnato Isaac all’ospedale centrale di Johannesburg, insieme a Bernadette, una infermiera austriaca mia vicina di casa.

Isaac è un ragazzo di 16 anni (ma ne dimostra molti di più), proveniente dalla zona del Darfur, in Sudan, fuggito un anno fa dall’esercito che lo aveva prelevato da scuola per arruolarlo come bambino soldato. Quando l’ho conosciuto, in ottobre, era da pochi mesi a Johannesburg, dopo avere attraversato a piedi, con una ferita d’arma da fuoco alla gamba, il deserto del Sudan e poi, nei modi più avventurosi, tutta l’Africa. E’ orfano di padre, morto combattendo quando lui era ancora un bambino, ma dopo la fuga non sa più nulla nemmeno della madre e della sorellina più piccola rimaste in Sudan.

Isaac e Serena all’ospedale di Johannesburg.

Tutto questo me lo raccontava lui stesso, senza una lacrima e senza apparente commozione, durante le interminabili ore di coda trascorse all’ospedale aspettando che arrivasse il nostro turno per la visita. Una prima coda, assolutamente inutile (per colpa di informazioni sbagliate dateci da una portinaia grintosa con un fare da "non fatemi perdere tempo che sono molto impegnata"),la compilazione di un modulo, il pagamento di una specie di ticket (36 rand, circa 4,5 euro), la fila ad un altro sportello che ti indirizzava nel reparto adatto, e finalmente ecco la visita medica, durata non più di 5 minuti.

La dottoressa, molto giovane, professionale, rapida ma non scortese, scrive in una ricetta i medicinali necessari e consiglia una radiografia per accertare l’eventuale presenza di una pallottola nella gamba. A radiologia ci attende l’ennesima coda, ma ormai siamo rassegnati. Risultato finale: nella gamba non c’è nessuna pallottola e quindi non serve operare. Ora dobbiamo solo ritirare le medicine, ma anche davanti agli sportelli (blindati) della farmacia dell’ospedale c’è un’ultima, interminabile coda.

Code interminabili, con l’unica consolazione che non eravamo costretti a stare in piedi: c’erano delle sedie in cui bianchi e neri attendevano pazientemente, accomunati dalla sofferenza fisica e dalla povertà, che non consente loro di pagare un’assicurazione grazie alla quale poter ricorrere all’assistenza delle costose e ben attrezzate cliniche private.

Noi due, ignare ragazze europee, guardavamo con incredulità macchinari obsoleti, persone anziane che vagavano per l’ospedale con la sacca della flebo ormai vuota e il sangue che scorreva nel tubo ormai privo di pressione, e ci guardavamo scettiche ogni volta che il nostro sguardo si posava sull’orologio, su cui vedevamo scorrere il tempo in interminabili ore, senza poter immaginare quando si sarebbe conclusa quella giornata. Alle cinque del pomeriggio, esausti ma sollevati per l’esito della visita e per aver ottenuto i medicinali necessari, dopo otto ore nelle quali ormai eravamo diventate esperte di sale d’attesa, uffici, ambulatori, formulari da compilare, abbiamo fatto ritorno a casa.

Quella non è stata la mia sola esperienza all’ospedale di Johannesburg: ci sono ritornata di lì a poco con Richard, un ragazzo rwandese di diciannove anni, anche lui giunto a Johannesburg da alcuni mesi con il bacino rotto a causa delle percosse ricevute dopo un fallito tentativo di fuga dall’esercito che voleva arruolarlo per forza. La nostra conoscenza delle procedure da seguire per accedere alla visita non ci ha salvato dal trascorrere nove ore nell’ospedale. E l’attesa è stata molto più dolorosa, visto il bacino rotto di Richard che gli provocava delle fitte lancinanti ogni volta che doveva alzarsi per seguire l’avanzamento delle file.

Le ultime due ore le abbiamo passate davanti alla farmacia, dove un centinaio di persone aspettava il proprio turno. E Richard non ha avuto la stessa fortuna di Isaac: la sua frattura aveva infatti bisogno di un intervento chirurgico, e la lista d’attesa per l’operazione era lunghissima.