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Gli effetti dell’Aids

Johannesburg: fra gli orfani e i malati.

Serena Rauzi

Quale ospite e volontaria in Sudafrica, senza l’appoggio e la direzione di un’organizzazione, all’inizio, mi aggregavo ad ogni iniziativa in cui sarei potuta essere d’aiuto, nella ricerca dell’ambiente a me più congeniale e per il quale avrei potuto meglio rendermi utile. Così già nella seconda settimana del mio soggiorno decido di aggregarmi all’insegnante di storia e di religione della scuola dove avevo iniziato a collaborare (il professor David Hickey, irlandese) che accompagna una volta alla settimana i ragazzi più grandi a svolgere un paio d’ore di "servizio sociale", andando a giocare con i bambini di un orfanotrofio: Ethembeni House, la casa della speranza. Il suo è un tentativo di trasmettere loro il pensiero principale del movimento dei focolarini a cui appartiene: seguire nella vita quotidiana gli insegnamenti del Vangelo.

Il lunedì, subito dopo la fine delle lezioni, con il pulmino della scuola, confusi tra i taxi pubblici della stessa dimensione e forma, ci avventuriamo nel traffico caotico di Johannesburg, addentrandoci nel centro città (ormai molto degradato, sovraffollato e cautamente evitato dalla popolazione bianca). Dopo circa 15 minuti entriamo nel cortile di una struttura situata in una strada secondaria, al cui ingresso veniamo accolti con cordialità. Seguo così le studentesse ormai abituate ed esperte di scale e corridoi che portano alle stanze dei piccoli, che verso le tre del pomeriggio si stanno svegliando dal pisolino pomeridiano. L’edificio non è nuovo, ma pulito e ben tenuto, ogni bambino ha il suo lettino, ci sono lavatoi e lavandini in ogni stanza e due o tre infermiere che stanno cambiando il pannolone agli ultimi che si stanno svegliando.

Senza nemmeno rendermene conto mi ritrovo fra le braccia Thulani, un bimbo dolcissimo di circa 11 mesi, che si abbandona fra le mie braccia senza sospetti, alla ricerca di un abbraccio materno che lo aiuti a svegliarsi con dolcezza dal sonno.

Durante le due ore in cui rimango nell’orfanotrofio gioco con i bambini, alcuni dei quali tentano i primi passi, vado di sala in sala dove gli orfanelli sono suddivisi a seconda delle età, e chiacchiero un po’ con le infermiere che li conoscono tutti per nome e si comportano con invidiabile e sorprendente affetto e pazienza nei confronti di questi piccoli così indifesi, dagli occhioni grandi e tristi.

Sono tanti, tantissimi, tutti abbandonati od orfani spesso a causa dell’Aids. Fortunatamente solo pochi di loro sono Hiv positivi e di conseguenza, almeno da questo punto di vista, non hanno ulteriori difficoltà per venire adottati e quindi per trovare una famiglia in cui poter crescere e avere una vita normale.

Da quel giorno questa visita diventa per me un appuntamento settimanale, a cui rinuncio solo in caso di altri impegni improrogabili. Non faccio molto, ma donare un po’ di attenzione e affetto a quei bambini mi fa sentire bene e voglio pensare che faccia star bene anche loro.

Nelle prime settimane, poi, sempre alla ricerca della mia strada in questi mesi sudafricani, accetto di aggregarmi per una giornata di prova ad una suora austriaca, Sister Heidi, e a sua nipote Bernadette, (infermiera professionale, ospite della zia per tre mesi), nella loro visita quotidiana ai malati terminali di Aids accolti in un ospizio, perché abbandonati dalle loro famiglie incapaci di dare loro cure adeguate o persino rifiutati e cacciati perché causa di vergogna per i loro famigliari e parenti.

L’ospizio si rivela un’accogliente villetta a due piani con giardino, situata nella parte opposta della città rispetto a quella in cui abito. Al piano inferiore sono disposte una saletta in cui le infermiere preparano i medicinali e i volontari si cambiano, la cucina e una grande sala con divani e televisore. Appena entrata, mi ritrovo con in mano un camice e un paio di guanti in lattice per evitare qualsiasi rischio di trasmissione del virus.

Tra il personale ci sono due infermiere di professione, che da quello che mi viene raccontato si occupano della preparazione dei farmaci, ma evitano qualsiasi contatto con gli ammalati, e altri tre volontari che si occupano della cura dei pazienti e della pulizia delle stanze. Bardata di camice e guanti, salgo insieme a Bernadette al piano superiore dove i pazienti stanno aspettando la colazione, il loro quotidiano porridge. L’ambiente è pulito e gli ammalati sono disposti in alcune stanze con due o tre letti ciascuna, dei comodini, poltrone e televisore.

In tutto mi sembra di contare sette pazienti, uomini e donne, tra i venti e i trent’anni. Tutti sono ancora autosufficienti, mangiano da soli e camminano, tutti mi salutano cordialmente, stringendo la mia mano guantata, chiedendomi come sto con un sorriso spento, gli occhi bassi. Solo una ragazza non si alza dal letto: Anna, 25 anni, sposata, 2 figli. Bernadette mi racconta che il giorno prima il marito con la figlia di tre anni è venuto a trovarla e lei non ha fatto altro che piangere per tutto il tempo. E’ sdraiata nel suo letto, ridotta a pelle e ossa, senza più forze per alzarsi. Aiuto a pulirla, lavandole braccia e gambe; sui glutei ci sono già delle piaghe da decubito; non parla, ha la bocca paralizzata. Aiuto a imboccarla, lei si lamenta soltanto e a momenti piange. Forse il caldo della stanza, forse l’odore di chiuso e di medicinali, forse il camice troppo stretto, ma più probabilmente la mia emotività di fronte a tutto questo mi fanno sentir male, la testa comincia a girarmi e devo fuggire da quella stanza in cerca di un posto in cui potermi sedere e respirare un po’ d’aria fresca.

Rimasta sola, scoppio a piangere, paralizzata e spaventata dalla mia impotenza. La buona volontà e il desiderio di aiutare sono sopraffatti dalla mia debolezza emotiva e continuo a chiedermi come tutto questo possa essere possibile, come si possa lasciar morire in quel modo una donna così giovane. Dopo un po’ Bernadette mi raggiunge e, avendo finito le sue mansioni, decide di riaccompagnarmi a casa. Nei giorni successivi, ripensando a quei momenti di forte emozione, non riuscivo a trattenere le lacrime, ancora incapace di farmi una ragione di ciò che avevo visto e della mia debolezza.

Non sono più tornata in quell’ospizio. Ora penso che avrei potuto riprovare qualche tempo dopo, quando ero ormai abituata a Johannesburg e a tutte le novità di quel mondo così diverso, ma non ne ho mai trovato né il coraggio né la forza.