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QT n. 18, 29 ottobre 2005 Servizi

Vajont: la disperata attesa della giustizia

Una storia di 42 anni fa ancora aperta; e le sue assonanze con la tragedia di Stava.

Il 9 ottobre di 42 anni fa si abbatteva su un piccolo paese italiano la violenza di una delle prime stragi di Stato. A Longarone, e ai paesi vicini, quella strage costò 1910 vittime e un intera comunità cancellata in pochi secondi dall’onda d’acqua.

Longarone all’indomani della tragedia.

Tanto si è scritto su questa tragedia, ma una parte importante della storia non è stata mai raccontata. Non si è mai parlato del dopo Vajont e dell’insieme di altre violenze ed umiliazioni che i parenti delle vittime hanno dovuto subire. Parliamo della storia di come questo Stato colpevole si è comportato con i superstiti, di come imprenditori e aziende importanti riuscirono a fare business nella disgrazia, di come e perché, in nome del Vajont, venne pianificato e lanciato lo sviluppo industriale del Veneto. Di come miliardi di lire si riversarono nei fondi di aziende che non avevano subito alcun danno dalla tragedia: ditte del settore dell’edilizia, della carta, del legname, perfino dell’industria dello sci, fino sulle vette della Marmolada e della Tofana o fino alla friulana Zanussi.

L’allora presidente del Consiglio, Giovanni Leone, non appena caduto il governo da lui diretto, annusando l’affare divenne avvocato della Sade-Enel e difese con astuzia gli interessi privati e dei burocrati dello Stato, trovando i più incredibili cavilli legali per liquidare i parenti delle vittime, per cancellare proprietà e ricordi.

Il dopo Vajont, per il cinismo che lo ha caratterizzato, è stato forse peggiore dello stesso evento tragico. La stampa italiana, con la straordinaria eccezione della giornalista Tina Merlin che scriveva sull’Unità, fu il motore principale di questo secondo scandalo. Mentre i giornali esteri parlavano chiaro (strage di stato, imperizia, criminale leggerezza), le grandi firme del giornalismo italiano parlavano di fatalità: il settimanale della DC, La Discussione, scrisse addirittura: "Perché sono morti? Quella notte nella valle del Vajont si è compiuto un misterioso disegno d’amore".

I superstiti vennero descritti come gente irosa, che viveva nell’isolamento, ubriaconi e sfaccendati, e una tale cornice li condannava al silenzio. Grazie a Leone, tra il 1968 e il 1969 vennero risarciti con l’elemosina, un milione di lire per il genitore morto, poco più se il parente era minorenne e se si era perduta anche la casa.

Quella gente aveva perso tutto, la disperazione era assoluta, non c’era lavoro, ogni attività, anche artigianale, era stata cancellata, ogni contatto commerciale era impedito. Nella disperazione, nell’angoscia, ecco arrivare come un falco la grande imprenditoria che compra ogni tipo di licenza, dal panificio alla gestione di un bar, dalla piccola segheria alla bottega del calzolaio e la paga un’elemosina, attorno alle 50.000 lire di allora. Gli intermediari delle operazioni avevano un compenso di cinque milioni, ed una legge costruita su misura offriva a questi imprenditori agevolazioni importanti: con minime licenze si potevano costruire, su tutto il territorio del Triveneto, imprese di notevoli dimensioni. Da una licenza pagata 10.000 lire un’azienda riusciva ad ottenere finanziamenti per decenni, con valori complessivi che superavano diversi miliardi.

Tutto questo capitolo è una storia da raccontare, una storia tipicamente italiana dove truffe, corruzione ed asservimento delle istituzioni ai voleri dei privati si rincorrono.

Non si sa nulla di tante raccolte di fondi sponsorizzate da enti importanti: nella sola prima settimana la RAI raccolse 627 milioni di allora, equivalenti a 14 milioni di euro di oggi: non si sa dove si siano persi.

Ci sono da raccontare altre storie: quelle degli orfani derubati delle proprietà. O ancora dei morti mai recuperati: sono ben 451 le vittime ancora sepolte nel greto di torrenti, o sotto le fondamenta di nuove costruzioni. Incredibile la storia dei sepolti nel torrente Maè e più a monte delle 158 vittime di Erto e Casso. E’ da raccontare la storia di chi aspetta ancora giustizia, come quella dei parenti che si sono visti cancellare le scritte dai cippi del cimitero. In quello di Fortogna c’è chi sfida questo angosciante silenzio istituzionale costruendo piccole croci con i sassi dell’abitazione del parente scomparso. O chi su una lapide ha lasciato scritto " Barbaramente e vilmente trucidati per leggerezza e cupidigia umana, attendono invano giustizia per l’infame colpa. Eccidio premeditato".

Chi l’ha voluta ha dovuto subire un processo, si voleva che la lapide fosse tolta. Luigino oggi è morto e nel nuovo cimitero la sua lapide è scomparsa, una memoria, una ribellione, una ricerca che si vuole cancellare.

Nel bellunese si è formato un comitato che vuole riaprire queste storie e renderle pubbliche affinché si rifletta insieme, per non dimenticare. I promotori vorrebbero riuscire a colmare una grave dimenticanza, visto che dopo 42 anni nessun organo istituzionale, tanto meno l’Enel, ha ancora trovato il coraggio e il pudore di chiedere scusa ai morti e ai superstiti. Nessuno ha avuto il coraggio di aprire un percorso di riconciliazione. Come avvenuto in Sudafrica, la riconciliazione può avere una sola base, quella del riconoscimento della verità vera, forte, anche quando dolorosa. Solo attraverso la riconciliazione, solo con le scuse pubbliche, scrive il comitato, si può aprire il cammino della pacificazione sociale e della giustizia.

Il cimitero di Fortogno.

Oggi, perfino il nuovo cimitero di Fortogna, costato oltre sei miliardi di lire, riesce ad offendere la memoria. Se piove vi si cammina in rigagnoli, pozze d’acqua, si vive l’abbandono: una nuova offesa alle vittime del Vajont, ai cittadini italiani.

Durante l’estate, anche in Trentino abbiamo celebrato il ricordo di una strage di innocenti (vedi Stava: una lezione sempre attuale Stava: la tragedia rimossa): 20 anni fa, il 19 luglio 1985, 285 persone vennero travolte dal fango in valle di Stava. Anche in questo caso fu una tragedia costruita dall’avidità, dall’imperizia, dall’assenza di controlli e dalla complicità degli enti pubblici nella gestione approssimata di una grande miniera e dei bacini di raccolta del materiale di scarto.

Nel ventennale estivo abbiamo assistito ad importanti celebrazioni, alla presentazione di una mostra, di un archivio anche imponente.

Vi sono analogie impressionanti fra Stava e il Vajont. Anche da noi le vittime non hanno ancora avuto giustizia, le condanne sono cadute su personaggi secondari, nessun amministratore pubblico è nemmeno stato processato.

Ad oggi la Provincia o il Comune di Tesero non hanno ancora chiesto scusa.

Anche qui c’è da raccontare una storia importante: quella dei parenti che avevano scelto un collegio di difesa alternativo per arrivare alla verità. O quella di una parte della stampa (Uomo Città Territorio e Questotrentino), che ricercò approfondimenti significativi, anche con la pubblicazione di un libro, ormai cancellato da ogni ricordo.

Ma fra le due vicende ci sono anche delle differenze. La ricca Provincia di Trento ha cercato con ostinazione i corpi di tutte le vittime, setacciando il territorio centimetro per centimetro. Soldi, miliardi e miliardi sono arrivati, tanti, anche dove non dovevano arrivare. Non si sono però diluiti in altre realtà e la valle di Stava è stata ricostruita, come la montagna soprastante, Pampeago.

Chi li riconosce più quei luoghi? Gli alberghi hanno triplicato e decuplicato le dimensioni, si è costruita una nuova strada di accesso, Pampeago è diventata una delle stazioni sciistiche più importanti delle Alpi, le montagne che ospitano queste piste hanno perduto ogni naturalità, le valanghe vengono trattenute da ettari di opere invasive, da gallerie, da vallecole artificiali.

Insomma, Stava oggi è irriconoscibile, e anche questo modo di ricostruire impedisce di rivivere la memoria. Il cimitero che ha accolto il dolore dei parenti, ma anche quello di papa Woytila, è piccolo ma ben curato, ma non è stato concesso a nessuno di far vivere sul luogo dei bacini la presenza di un parco alberato, un parco del ricordo. Nella valle di Stava si è gettata la speculazione, come doveva accadere 13 anni dopo a Cavalese, in seguito alla tragedia del Cermìs (La tragedia del Cermis e le analogie con Stava).

Nel bellunese gli attuali amministratori hanno comunque avuto uno scatto di alta dignità. Nel presentare il progetto di "Dolomiti patrimonio dell’Umanità" hanno avuto il coraggio di chiedere per il Vajont l’istituzione di un museo della memoria. Il Trentino invece, in tutto il documento, nemmeno cita la tragedia di Stava: si preferisce che la memoria e la verità vera rimangano isolate, rimangano recluse in un giorno da commemorare una volta l’anno, senza scavare, senza interrogarsi, senza coinvolgere nella riflessione le responsabilità del mondo politico.