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QT n. 19, 12 novembre 2005 Monitor

La sposa cadavere

Bel film d'animazione (orgogliosamente artigianale) di Tim Burton: che mescola e contrappone il mondo di vivi a quello dei morti, tifando per quest'ultimo, anarchico, orgiastico, libero da regole e compromessi.

Ci sono due famiglie, una di aristocratici decaduti e una di nouveaux riches mercanti di pesce. In comune, le due famiglie hanno un indelebile grigiore addosso e la voglia di combinare nobiltà e ricchezza. Il modo per riuscirci è far sposare i propri figli, Victoria e Victor. "La sposa cadavere", film in stop-motion di Tim Burton e Mike Johnson, immerge lo spettatore in questo contesto. Aristocrazia e borghesia stanno l’una di fronte all’altra sin dall’inizio. Non ci metteremo molto a incontrare anche il proletariato.

Dal punto di vista tecnico-stilistico, questo film animato comunica un’impressione di libertà creativa assoluta. Riesce a ricostruire un universo dove il gusto macabro si coniuga con un entusiasmo infantile per tutto quello che è immaginazione visiva. L’animazione, orgogliosamente, è concepita ancora in modo artigianale: i pupazzi sono messi in movimento da uomini armati di pazienza e cacciavite, con solo qualche piccolo aiuto da parte di computer costretti a lavorare al di sotto delle loro possibilità. L’ambientazione è gotica, fuori dal tempo e dallo spazio, ma l’impressione è di essere tra l’Inghilterra vittoriana e la Russia prima della rivoluzione d’ottobre. La storia che ispira il film proviene infatti da una leggenda dell’Est Europa, trasfigurazione di terribili pratiche anti-semite che prevedevano l’irruzione nei matrimoni ebraici e l’uccisione della sposa, con la precisa intenzione di far estinguere la comunità.

Victor e Victoria si incontrano davanti a un pianoforte, e, a dispetto delle imposizioni, si innamorano. Le liturgie, i riti e le convenzioni del matrimonio di convenienza, davanti all’amore vero, sono ancora più difficili da assimilare. E quindi Victor va in tilt, è imbranato, non riesce a imparare i giuramenti. Quando va a fare le prove da solo nel bosco risveglia una sposa-cadavere, e con lei tutto un mondo sotterraneo di morti.

I proletari sono questi qua, e nel loro Ade se la spassano. Comunicano la sensazione di una vitalità orgiastica e irrefrenabile. La confidenza che essi hanno con i loro corpi grotteschi, decomposti, spezzettabili, li rende un favoloso esempio di accettazione di se stessi. La stessa sposa-cadavere è bella e affascinante proprio perché è cadavere, perché le manca qualcosa - la vita e un marito - ma allo stesso tempo ha qualcosa in più, una voglia e una spontaneità che i vivi non possiedono. Lo spettatore finisce per tifare per lei.

Nella contrapposizione tra vivi e morti, l’amore di Burton, come al solito, va tutto per i secondi. Il suo cinema è pessimista e nero perché non vede in questo mondo la possibilità di un lieto fine. Tutto gli happy end di Burton guardano infatti all’aldilà. In "Beetlejuice - Spiritello porcello" - che "La sposa cadavere" continua a auto-citare - la lotta di classe assumeva la forma di una contrapposizione tra vivi/yuppies e morti/fantasmi (eroi disobbedienti che occupano le case). E nell’ultimo "La fabbrica di cioccolato" non è forzato pensare che dentro la fabbrica i bambini siano morti, nemmeno tanto simbolicamente. Dai cancelli dell’industria di Willy Wonka escono nella città di prima, che ha però assunto le apparenze di un vero e proprio aldilà – anche in questo caso un mondo migliore dove non c’è più disoccupazione e si serve il tacchino anche alla tavola delle famiglie povere.

Come Oscar Wilde, Burton preferisce l’Inferno al Paradiso perché la compagnia, laggiù, è più simpatica. Nelle parole di Tim Burton: "Abbiamo fatto in modo che il mondo dei vivi apparisse come quello dei morti, e viceversa. Una sorta di confronto tra una vita fatta di regole e una vita creativa. C’è sotto un grande lavoro di sfumature soprattutto nei casi in cui i due mondi convergono. Il colore, la sua assenza o la sua presenza, sono trattati come personaggi della storia. Penso che il mio interesse nella storia nasca dalla contrapposizione tra la vita repressiva della terra dei viventi e la vitalità della terra dei morti."

"Impara a memoria i tuoi giuramenti!", intima il vescovo a Victor. Nella terra dei morti-proletari, invece, non c’è proprio niente da imparare a memoria. Si può vivere la propria esuberanza, il proprio corpo, con una naturalezza e una spontaneità assoluta, e la capacità di fregarsene delle convenzioni e di ogni concetto di normalità. L’aldilà non riserva per noi una salvezza religiosa, gerarchica, ordinata come potrebbe piacere ai teo-con. La libertà e l’anarchia prevalgono su tutte le regole. Sta in questo la vera salvezza. "Prima o poi anche tu dovrai crepare", ci dicono i personaggi di Tim Burton. Ma il memento mori assume quasi la forma di un sollievo: il nostro mondo è irredimibile, e l’unico bel posto dove poter abitare felici è un posto dove è impossibile arrivare da vivi.

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