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QT n. 21, 10 dicembre 2005 Monitor

“L’enfant”

Il film dei fratelli belgi Dardenne racconta con stupefacente nitore la vicenda di due emarginati. Un uso straordinario della macchina da presa, che riesce in pieno nell'arduo compito di avvicinarci, coinvolgendoci in pieno, alla marginalità.

Come si fa a porsi, con una macchina che registra immagini, davanti alla povertà, al degrado, al disagio esistenziale? Il cinema di Jean-Pierre e Luc Dardenne vuole fornire una risposta a questo interrogativo etico, provando ancora a riempire di significato quelle parole, a salvarle dall’usura, dalla retorica, dalla distanza che esse interpongono tra chi le pronuncia e chi le vive.

"L’enfant" racconta la storia di due ragazzini che per caso diventano genitori; mostra una realtà fatta di piccoli furti e baratti; ci immerge nel mondo sottoproletario della periferia di Liegi. La parola, i dialoghi, non ci aiutano a entrare in queste vite. A guidarci rimane solo la pura forza di un racconto per immagini, a cui bastano i gesti, le invenzioni più piccole.

Lascia stupefatti il modo in cui i fratelli belgi riescono a raccontare alcuni momenti di noia, di vuoto. Vediamo il protagonista sporcarsi le suole delle scarpe da ginnastica in una pozzanghera e poi saltare contro un muro bianco per lasciarvi delle impronte; e un’altra volta lo vediamo lungo un fiume a immergere un’asta nell’acqua, per far passare il tempo. Queste scene, fatte di niente, affascinano profondamente. La macchina da presa dei Dardenne riesce a incollare lo spettatore al destino del personaggio. Ma lo sguardo dei registi rende puri, e straordinariamente coinvolgenti, anche altri momenti apparentemente trascurabili, quelli del semplice lavoro manuale: ad esempio all’inizio del film, quando il protagonista scassina un lucchetto; o quando, più avanti, raddrizza scalpellandolo un ferro del passeggino.

Il lavoro delle mani, al centro di tutti i film dei fratelli Dardenne, è specchiato nel loro uso della macchina da presa, adoperata davvero come se fosse lo strumento di un lavoro artigiano, il ferro di un mestiere, un mezzo, non un fine in sé, bello per motivi propri. E’ funzionale a questa concezione di cinema il loro utilizzo della camera a mano, un oggetto che si porta in spalla, proprio come portava in spalla le travi il falegname protagonista del precedente "Il figlio" (2002).

E’ straordinaria anche la scena "d’azione" de "L’enfant", quando il protagonista e un suo amico, in motorino, sono inseguiti dalle vittime di uno scippo e poi dalla polizia. I due si rifugiano presso un fiume e si nascondono immergendosi nell’acqua gelida. Lungo questi minuti è impossibile non rimanere avvinti, in apprensione, coinvolti dall’esito della fuga come se la sorte di quei ragazzi fosse in carico a tutti noi. Nessuna scena d’azione del miglior action movie riuscirebbe ad avvicinare questa tensione.

Non è facile trovare una posizione morale, un modo e uno stile per guardare con partecipazione alle persone che vivono ai margini. Il linguaggio di Charles Dickens, per quanto ne ritroviamo nell’"Oliver Twist" di Roman Polanski, non sembra più capace di dire qualcosa all’uomo di oggi; e non funzionano nemmeno più, ci sembra, le didascaliche parole di Ken Loach, che infarcisce i dialoghi di spiegazioni, come potrebbe fare un bravo assessore alle politiche sociali; e, ancora, linguaggi estetici come quello di Fernando Meirelles ("City of God", "The Constant Gardener") allontanano a forza lo spettatore critico, a cui passa la sensazione che il narratore non abbia veramente a cuore la storia che ci racconta: sa di speculazione veder usare il "brutto" per ricavarne comunque un’idea di "bello".

La risposta dei fratelli belgi all’interrogativo etico su come porsi di fronte al disagio è invece cristallina, ed è tutta stilistica. Scrive Luc Dardenne nel libro "Au dos de nos images": "I nostri movimenti di macchina sono resi necessari dal nostro desiderio di essere nelle cose, all’interno dei rapporti creati tra gli sguardi e i corpi, tra i corpi e la scena. (…) Forse troviamo là, nella prossimità degli oggetti, tra i corpi, una presenza della realtà umana, un fuoco, un calore che si irradia, che brucia e protegge dal triste freddo che regna nel vuoto, il troppo grande vuoto della vita. E’ la nostra maniera di non disperarci, e di credere ancora."

Il cinema dei Dardenne trasmette il loro senso di partecipazione attraverso la limpida scelta formale di stare addosso ai propri personaggi; di riprenderli con la stessa debolezza che essi dimostrano nella vita; di non allontanarsi nemmeno quando sembrano perdere il loro tempo, mentre compiono gesti che non portano avanti la trama.

La forza della narrazione sta in queste mancate ellissi. E’ così che si racconta una storia quando si ritiene che chi vi è coinvolto meriti rispetto, o, ancora di più, vero e proprio affetto. Jean-Pierre e Luc Dardenne riescono a raccogliere tutta la fragilità e la voglia di vivere dei loro personaggi, e a restituirla in ogni inquadratura, in ogni movimento, in ogni stacco. La forza dello sguardo sembra capace di cambiare un destino.

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