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QT n. 22, 23 dicembre 2005 Servizi

Itx, perché ci fanno mangiare l’inchiostro

L’Itx nel latte, nei succhi e in chissà che altro: una storia piena di bugie, ritardi e reticenze.

Mia nonna ripete spesso che, quando era giovane, alla bottega alimentare i cibi glieli avvolgevano nella carta da giornale. "Altri tempi…", aggiunge sempre, con lo sguardo un po’ perso nel vuoto. Sarebbe davvero difficile spiegarle che, dopo tanti decenni, le cose non sono cambiate poi molto. Tragica ironia della modernità: tanta scienza, ma siamo ancora al punto di inizio. Con una differenza: se ieri l’inchiostro lo si vedeva e si poteva almeno essere consapevoli di mangiarlo (forse non si pensava che facesse male, ma anche qui le cose non sono molto cambiate, come vedremo), oggi la beffa è che non si può contare nemmeno sulla magra consolazione di questa consapevolezza. A insegnarcelo è la faccenda dei cibi all’Itx, che ha tenuto banco nelle ultime settimane.

Dire che ha tenuto banco è forse eccessivo. Se n’è parlato, certo, ma con grave ritardo, e quasi sempre senza cogliere il nocciolo della questione, il suo reale insegnamento. Il cosiddetto grande pubblico ne è venuto a conoscenza alla fine di novembre. Da come i media hanno riportato la notizia, a rimanere impressa nella memoria sarà stata soprattutto la polemica tra il ministro della Salute Storace e la dirigenza della multinazionale Nestlè. Uno dei tanti duelli che spesso popolano l’avvincente mondo dell’informazione nostrana. Non so quanti avranno capito che da un simile duello non poteva uscire alcun vincitore, perché entrambi i contendenti risultavano già sconfitti in partenza. Per capirlo, bisognava disporre di un’informazione vera, critica, fornita con la severità con cui una faccenda del genere avrebbe meritato d’essere trattata. Inutile dire che questo tipo di informazione, al di là delle solite eccezioni, è per lo più mancata, non solo a livello nazionale, ma anche in Trentino, dove la vicenda ha avuto un importante punto di svolta, che doveva suggerire una attenzione maggiore e soprattutto di maggior qualità.

Vale la pena ricordare i punti principali. La ricostruzione ci è consentita soprattutto dalla lettura dei servizi di una delle poche testate occupatesi seriamente della vicenda, il settimanale Il Salvagente (l’Espresso col suo servizio di metà dicembre è arrivato dopo).

Contrariamente all’impressione che tutto sia cominciato a novembre, le prime analisi marchigiane finalizzate a scoprire la contaminazione avevano avuto inizio addirittura alla fine di giugno, e già alla fine di luglio avevano dato il primo responso: nel latte per l’infanzia Nestlè c’è Itx, ossia l’Isopropyl Thioxanthone, fissante per inchiostro.

Da quel momento è cominciato il "balletto delle scimmiette": non vedo, non sento, non parlo. Solo che, per l’occasione, a danzare sono state ben più delle consuete tre. Nestlè (e le altre aziende alimentari), Tetrapak (e le altre aziende produttrici di confezioni di cartone per alimenti), il Ministero della Salute, l’Unione Europea e l’Authority europea per l’alimentazione (Efsa): tutti a ballare una lunga danza omertosa, calpestando un principio che, dopo la mucca pazza, era stato unanimememnte giudicato sacrosanto in tema di alimenti, ossia quello della massima precauzione.

Nestlè, che sapeva fin da agosto (e forse da prima) dell’esito delle indagini marchigiane, ha ritirato spontaneamente i suoi prodotti contaminati solo a metà novembre, dopo che alcuni lotti nelle Marche gli erano già stati sequestrati. Altre grandi aziende alimentari i cui prodotti sarebbero risultati contaminati, come Parmalat, avrebbero proceduto a un ritiro spontaneo ancora più tardi; altre ancora, come Milupa o Pfanner, non avrebbero fatto nemmeno questo, attendendo a braccia conserte l’intervento delle magistrature.

Anche i produttori di brik escono male dalla faccenda: il più importante, la Tetrapak, che usa l’Itx nei suoi stabilimenti da dieci anni (in quello italiano da tre), ne ha sospettosamente sospeso l’uso solo a fine settembre, quando la bufera aveva già cominciato a infuriare: possibile che non potesse già da tempo conoscere i rischi di contaminazione d’una sostanza ampiamente utilizzata nelle sue produzioni?

Il Ministero della Salute, che dal 2 settembre era stato avvertito dalla Regione Marche delle analisi rivelatrici della presenza di Itx nei campioni di latte Nestlè, dopo aver tempestivamente inviato l’allerta a Bruxelles, non ha ritenuto opportuno avvisare i consumatori italiani né attivare procedure di sequestro, limitandosi a delegare tali compiti a una farraginosa burocrazia regionale, benché si trattasse evidentemente di un’emergenza nazionale, e non circoscritta a singoli lotti di determinati prodotti.

Se veritiera, la rivelazione, fatta a fine novembre dall’amministratore delegato della Nestlè, di un accordo tra il colosso svizzero e il Ministero della Salute potrebbe ben spiegare il comportamento di quest’ultimo.

Infine, l’Unione Europea: il tanto sbandierato vincolo virtuoso che l’Europa imporrebbe ai suoi membri, di virtuoso stavolta non ha avuto proprio nulla. Avvertita sin dai primi di settembre, la Commissione non ha saputo far altro che scaricare la patata bollente sull’Efsa, la quale si è di fatto limitata ad ammettere la sua attuale ignoranza. Ci sono buone ragioni per credere che l’Itx non sia genotossico, ci dicono da Parma, ma sotto altri aspetti il rischio per la salute non è valutabile: faremo ulteriori indagini se la contaminazione dovesse continuare.

Nonostante si sia trattato di parole non certo tranquillizzanti, i soggetti coinvolti ne hanno subito approfittato per dire che non c’è dunque motivo di preoccuparsi. Dimenticando completamente che una ricerca dell’Epa statunitense (corrispettivo del nostro Ministero dell’Ambiente), dopo alcuni studi sui pesci, ha classificato come alto il rischio di tossicità della sostanza, e che la scheda tecnica dell’Itx consiglia di maneggiarlo coi guanti, di evitarne il contatto con la pelle, di manipolarlo indossando occhiali da lavoro e di arieggiare gli ambienti in cui lo si usa.

Vi mangereste o fareste mangiare a qualcuno una sostanza del genere? Purtroppo accade da anni, e, ciò che è più grave, continua ad accadere anche mentre scriviamo, nonostante si sappia da mesi che l’Itx può penetrare nei cibi.

Non si parla solo di latte o di succhi di frutta, e soprattutto non solo di cibi confezionati dentro contenitori di cartone. Uno degli aspetti che l’informazione sulla vicenda non ha finora permesso di capire chiaramente è che il pericolo di contaminazione ha una estensione potenzialmente enorme. Proprio qui entra in gioco la nostra Provincia con la sua Agenzia per la Protezione Ambientale. Grazie ad una coincidenza fortuita, l’Appa trentina ha potuto svolgere un lavoro d’analisi di respiro più ampio rispetto alle sue "cugine" del resto d’Italia. Nell’incontro del 30 novembre tra Ministero della Salute e Regioni, nel quale è stato (tardivamente) varato un piano di controllo nazionale dell’Itx che ha attribuito a ciascuna agenzia regionale una determinata categoria di prodotti da analizzare, la Provincia di Trento non era rappresentata. Ciò ha permesso all’Agenzia trentina di muoversi più liberamente, a 360 gradi. Il Settore Laboratorio e Controlli ha quindi predisposto un primo ciclo di analisi di campioni di varie tipologie di prodotti confezionati nel tetrapak: sono le analisi che, prime in Italia, hanno rilevato la presenza di Itx nei succhi di frutta (Pfanner e Santal). Ma non solo: anche un campione di vino è risultato positivo alle analisi dell’Appa, ed anche questa è stata una prima nazionale. Il secondo ciclo di indagine, che deve ancora terminare mentre scriviamo, è finalizzato a scoprire se l’Itx possa penetrare anche in cibi confezionati in altri tipi di contenitori, ad esempio in plastica: l’attenzione è concentrata soprattutto sui campioni di yogurt.

La stampa locale, che non poteva avere occasione migliore per occuparsi dell’argomento in maniera approfondita, si è di fatto limitata ad una mera registrazione dei fatti, senza toccare il nocciolo della faccenda, in questo uniformandosi all’informazione nazionale.

L’aspetto a mio parere decisivo non è venuto a galla. Lo spazio che bisognava dargli è stato invece dedicato alla diatriba tra Storace e la Nestlè, alle punte dell’iceberg rappresentate dai sequestri o alle strumentalizzazioni del comunicato dell’Efsa. Quest’ultima non aveva rilevato Itx nei succhi di frutta e aveva ritenuto probabile che la quantità di Itx nei cibi fosse inversamente proporzionale alla dimensione dei loro contenitori. L’esito delle analisi fatte all’Appa di Trento si oppone a quanto lasciato intendere dall’Efsa. Della quale, però, si è continuato a tenere in considerazione solo la presunta dichiarazione d’innocuità dell’Itx. Ad esempio, il 13 dicembre, giorno successivo alla segnalazione dei risultati ottenuti dal laboratorio di Trento e al sequestro dei succhi Pfanner (elementi pressoché taciuti dalla stampa nazionale), l’Adige ha dato acriticamente spazio all’insostenibile posizione dell’azienda austriaca, con un titolo assai visibile: "Nessun rischio, allarmismi ingiustificati".

Alla faccia della realtà delle cose, fatta di un rischio attualmente non valutabile e di un principio, quello di precauzione, che è (ancora) vincolante. Non molto meglio, quel giorno, hanno informato gli altri due quotidiani locali.

Cosa non è emerso, in definitiva, dall’informazione sull’intera faccenda? In pochi si sono domandati davvero perché viene usato l’Itx.

E’ stato ripetuto all’infinito che esso serve a fissare l’inchiostro delle immagini sulle confezioni per alimenti. La questione è però ben più profonda. Quando non c’era l’Itx, come si faceva? Le immagini sulle confezioni c’erano lo stesso. Solo che erano meno nitide e avevano colori meno vivaci. Ecco il punto: l’Itx serve a vendere. Ciò riesce meglio se le etichette sono più sgargianti e le immagini più "vere", come insegnano le sacre regole del marketing. Le quali spesso e volentieri antepongono alla salute del consumatore la realizzazione del miglior profitto, al di là della consueta retorica del "rispetto del cliente". Così, accade spesso che sulle stesse etichette coloratissime e nitidissime manchi magari l’indicazione degli ingredienti dei prodotti che compriamo, anche di quelli legali come conservanti o coloranti, per non parlare dell’indicazione di dove e soprattutto come gli alimenti venduti vengono prodotti: spesso dove la manodopera costa meno ed è sfruttata, oppure senza rispetto alcuno per l’ambiente.

Già prima dell’Itx, ci sarebbero ragioni come queste per non acquistare i prodotti della Nestlè: le stesse ragioni per le quali da anni la multinazionale svizzera è vittima di un agguerrito boicottaggio internazionale. Se queste ragioni non sussistessero, è probabile che l’inchiostro nei suoi alimenti non ci sarebbe mai finito.

D’altra parte, nessuno ha fatto una semplice considerazione. L’Itx può trovarsi nei prodotti confezionati in contenitori di cartone o di plastica, ma non in quelli di vetro. Quest’ultimo, pur essendo un materiale di minor impatto ambientale rispetto a plastica e a tetrapak, è stato da tempo progressivamente abbandonato dall’industria alimentare, poiché meno consono a favorire vendite più profittevoli: eccoci di nuovo al punto chiave.

L’intero ragionamento è essenziale, se si vuole capire in che modo si è arrivati ai cibi all’Itx, così come lo stesso ragionamento era essenziale per capire la vicenda della mucca pazza. Solo che esso raramente viene fatto, non solo in ambito giornalistico. Non viene fatto perché minerebbe alle fondamenta l’immaginario economicista sul quale si reggono le nostre società, e con esso l’illusione che tali società siano libere e democratiche, o quanto meno tendenti alla libertà e alla democrazia.

Forse mia nonna era meno "libera", ma se non altro aveva più possibilità di sapere quello che mangiava, anche quando si trattava di inchiostro.