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QT n. 2, 28 gennaio 2006 Monitor

“The new World”

La storia di Pocahontas secondo Terrence Malick: profondità politico-filosofiche sugli incontri (anzi, scontri) di civiltà, raccontati attraverso una personalissima, lirica estetica.

Terrence Malick è uno di quei pochi registi che possiede, tutto suo, un universo cinematografico, uno stile e un punto di vista sul mondo. Il suo ultimo "The New World" non fa che confermare questa certezza. La trama, di per sé, non sembrerebbe attrarre: solo un regista strano come Malick poteva pensare di riprendere in mano la storia (sfruttata appena dieci anni fa da un cartone della Disney) di Pocahontas, l’indigena che ha una relazione d’amore con un capitano anglosassone all’epoca (1607) della fondazione della prima colonia nel nuovo continente. Con "The New World", Malick realizza inoltre un film che può non piacere a tutti. I suoi pregi, volendo, si possono rivoltare in difetti. Ma se lo si prende per il verso giusto, il quarto film realizzato dal regista americano in trent’anni di carriera non può non lasciare almeno un po’ stupiti. Oppure, ma questo è soggettivo, decisamente abbacinati.

La sua similarità con il precedente "La sottile linea rossa", film sulla seconda guerra mondiale combattuta nel Pacifico, rivela la deferenza di un autore all’ampiezza di contenuto - filosofico, politico ed estetico - che intende portare avanti con il suo cinema. Come se la molla per tornare a girare film (passano vent’anni tra il secondo e il terzo) gli fosse scaturita da un desiderio di ragionare, attraverso il passato, la storia, su temi di un’urgenza espressiva assoluta. Temi "attuali", ma molto più profondi di qualsiasi ricatto dettato dall’attualità. Per affrontarli, a disposizione del regista-filosofo ci sono i mezzi della suggestione visiva e anche, allo stesso tempo, della formula letteraria. Terrence Malick sembra voler dire soprattutto una cosa: l’uomo occidentale è costretto a essere colono, e quindi colonialista. Se potesse, egli eviterebbe sicuramente di incontrare popolazioni diverse dalla sua. Ma è costretto a farlo, obbligato forse dal capitale, forse dalla sua stessa natura.

In "The New World", la vera distanza tra i nativi e i coloni-soldati non si misura negli scontri guerreschi, ma si colloca piuttosto in una incomprensione di fondo che deriva dal loro misurare e concepire il tempo in maniere opposte e inconciliabili: quel che per i conquistatori è lineare, per gli indigeni è ciclico. E Malick si schiera decisamente dalla parte di questi ultimi, tracciando un film con uno sviluppo narrativo del tutto peculiare: la storia sarebbe, in sé, piena di cose, di eventi e progressioni. Eppure, guardando il film, si ha l’impressione che non succeda niente. Nel film gli anni passano in un lampo mentre il tempo del film sembra restare fermo. Il ritmo narrativo procede attraverso larghe pianure; poi incontra un picco, scatta, e lo scollina veloce. Per 120 minuti, la storia sta ferma in queste distese narrative. Restano solo, all’incirca, quegli altri 30 minuti per far accadere gli eventi che portano avanti la trama: battaglie, nascite, morti, viaggi, esplorazioni…

Nel frattempo, basta avere la pazienza di stare a guardare cosa fa Terrence Malick in quei quattro quinti di film in cui la storia si ferma: scatena il suo immaginario, dà lezioni di inquadratura, costruisce un’estetica, gioca con i suoi cliché - immergendosi nell’erba alta, o guardando verso l’alto da sotto il pelo dell’acqua, o riprendendo con una tonalità di colore che è un suo marchio di fabbrica il verde della natura. E infine lascia spazio, nei dialoghi, a stupefacenti spunti lirici portati avanti dalle voci off.

Una scena di battaglia è interrotta improvvisamente da un’inquadratura del cielo. Su di essa, la voce off del capitano mormora: "Stupore". Qualche secondo, e poi la battaglia riprende come se nulla fosse. O un’altra volta, sul paesaggio, la voce off dice, senza che se ne capisca la ragione: "Perché questo sonno?" Pausa. "Febbre?"

Anche qui, come ne "La sottile linea rossa", le voci off non spiegano nulla ma partono per universi lirici spesso sovrapposti a inquadrature del cielo e delle nuvole. Le voci sono di diversi personaggi: se ne perde per strada una, un’altra la sostituisce, e così via, come pensieri che si scacciano l’uno con l’altro. Uno di questi pensieri, del capitano Smith, recita: "Ricominceremo da capo. Un nuovo inizio. Qui le benedizioni della terra sono elargite a tutti. Nessuno deve crescere povero. Non avremo padroni che ci rovinano con affitti esorbitanti e estorcono il frutto della nostra fatica. Gli uomini non saranno preda gli uni degli altri".

In una scena straordinaria, Pocahontas, la principessa della Virginia, arriva alla corte del re d’Inghilterra. Saluta i regnanti, fa i suoi inchini e poi mostra i doni portati dalle Americhe. C’è un’aquila dalla testa bianca (quella che si trova nell’emblema degli Stati Uniti) e, in una gabbia, un procione. La principessa indigena si accuccia per guardarlo. E’ un grande momento di cinema: la donna e l’animale si guardano negli occhi. Il procione è ritroso, immobile, sul lato opposto della gabbia rispetto a quello dal quale la principessa lo fissa. Ed è un reciproco riconoscersi. Sono entrambi in terra straniera, entrambi prigionieri, in gabbia, in un Regno.

E’ "cielo" la prima parola inglese imparata dalla nativa. Sotto un cielo che incombe, si pone quindi il problema politico di cosa fare di questo nuovo mondo, e di come convivere con chi già lo abita. Questo nuovo mondo è l’America, ma anche il Vietnam, oppure un’isola del Pacifico… Non sono dunque le necessità della storia a far perdere all’umanità la sua innocenza, ma qualcosa di radicato nella nostra natura, una difficoltà nella comunicazione, una disparità di partenza, una disuguaglianza che ogni scoperta di un nuovo mondo, invece che annullare, finisce per accentuare.

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