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QT n. 5, 8 marzo 2008 Monitor

Castelli & Caldonazzi, un tuffo nel passato

Una "Rosa tatuata" con gli immigrati meridionali stereotipati fino alla macchietta. Un lavoro di cui è arduo trovare qualche cosa da salvare.

Appena entrati in platea, notiamo il palcoscenico con il sipario aperto: in mezzo a due serie di "quinte" scheletriche, in legno chiaro, è costruita una casa, aperta sul davanti, con legname dello stesso colore. Allo scenografo (alias light designer, alias regista, alias "Padre De Leo") deve piacere così. Però "sembra una casa Ikea" - abbiamo sentito dire di fianco a noi e dietro di noi per almeno due volte. Telepatia, o idem sentire.

La storia: procace vedova di contrabbandiere, con smaniosa figlia a carico, esce dal lutto e s’innamora di un camionista, siciliano, che le capita in casa in seguito a un incidente stradale. Ora sostenuta ora sguaiata lei, sempre imbranato e buzzurro lui, entrambi sono particolarmente allupati (come Rosa, la figlia di lei, che fugge con un marinaio) e si ritrovano a letto insieme.

Questo il testo di Tennessee Williams, portato al successo da Anna Magnani (premio Oscar) e Burt Lancaster. A quanto scrive il regista Tavassi nel dépliant di sala, quella di Williams è "un’affettuosa critica" che dà l’occasione di fare una "ironica autocritica", per "misurare insomma se quello che egli vedeva in noi è veramente come siamo".

Allora, vogliamo dire che c’è poco di peggio che dei meridionali (così si definisce il regista) che ripropongono gli stereotipi sui meridionali rincarando l’effetto macchiettistico per far ridere i non meridionali? Quando ci renderemo conto del fatto che attraverso lo sguardo anglosassone il "molto pittoresco" mondo  dell’emigrazione italiana si è cristallizzato in una serie di grottesche maschere dalle quali non riusciamo a liberarci, cercando di spacciare per ironia la necessità di far ridere per motivi di cassetta? E’ sempre la stessa storia, plurisecolare, dalla "Cavalleria rusticana", con le sue "molto pittoresche" coltellate, che ci accomuna nella marmellata culturale in cui siamo rimescolati insieme a spagnoli, portoghesi, greci e arabi, secondo l’occhio mediterraneizzante dei nordisti.

Il capolavoro di Germi, "Sedotta e abbandonata", avrebbe dovuto mettere una pietra tombale sul genere "commedia grottesca di passioni meridionali", ma non è stato così. Sulla macchietta (anti)meridionalista fanno il surf ancor oggi, leggiadri, tutti coloro che dal Sud italiano vogliono essere presi sul serio nel resto d’Italia, questi e quelli prigionieri degli stereotipi. Con l’enfasi degli ultimi tempi sulla spazzatura a far da traino. Quanta differenza tra questo spettacolo sull’emigrazione e quello di Castelli e Caldonazzi, visto a Trento solo alcuni giorni prima (Castelli & Caldonazzi, un tuffo nel passato)! E così ci sorbiamo tutte le melensaggini possibili con cui l’intellettuale Williams ha farcito il suo testo; ma attenzione, non dimentichiamo la vocazione a far peggio, sopra riscontrata. Nel dépliant di sala si legge che traduzione e adattamento sono di Masolino D’Amico. Or bene: è a lui che dobbiamo i continui cambiamenti di registro linguistico, basso-alto, che probabilmente il pubblico, intento ad apprezzare le smorfie e le caricature, nemmeno avverte? Possibile che solo a noi abbia dato sui nervi il continuo passare dal dialetto a un italiano forbito, che in bocca a un’emigrata campana negli USA degli anni ’50 risulta essere improbabile? Così come per la figlia, Rosa; passi che si sia appena diplomata: è plausibile che, litigando con la madre, le urli "Mi fai ribrezzo", e non "schifo", con una sacrosanta "sc" napoletana? E il camionista siciliano Mangiacavallo, che mescola allegramente lo pseudo-dialetto campano con un’improbabile grammelot siciliano? Avranno pensato: tanto, a Trento, non fanno differenza tra Sicilia e Campania. Effetto marmellata, appunto. Todos mediterraneos.

Sarà allora stata una precisa scelta registica la tonalità completamente sopra le righe a cui è improntata l’intera comunicazione tra i personaggi. Però a Dajana Roncione, la figlia Rosa in scena, qualcuno (la brava Mariangela D’Abbraccio, ad esempio) potrebbe consigliare di non tendere sempre i muscoli del collo quando pronuncia le battute: se il personaggio è una ragazzina isterica, è bene modulare anche le espressioni di tale stato mentale. Le orecchie sono nostre. E poi, possibile che la giovane attrice debba camminare, e muovere busto e braccia, come se partecipasse a uno spettacolo di danza classica? Che dire poi del ballo finale, un flamenco con casqué, ballato da una napoletana e da un siciliano?

Insomma: il testo, il linguaggio, la scenografia, la tonalità, la recitazione, la coreografia... cosa salvare? Eppure, alla fine, ovazioni.

E noi ce ne torniamo su Marte.

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