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QT n. 11, novembre 2020 Cover story

Cava Nostra

Sfruttamento bestiale, disumanità programmata, intimidazioni e violenze verso partner e concorrenti. Oltre i reati di riciclaggio ed evasione fiscale, le intercettazioni dell’Operazione Perfido ci descrivono un ambiente e una cultura barbari, che si stanno insinuando nella nostra società. Favoriti da un giro di insospettabili.

NOTA PER IL LETTORE

Le frasi riportate in corsivo sono parti dell’ordinanza del Gip e intercettazioni come sono state riassunte dalla Polizia Giudiziaria (gli originali sono a disposizione dei legali). Riportiamo invece in grassetto i testi delle intercettazioni lasciate nella loro formulazione originaria.

“Perchè no pagare soldi? domani, domani... perchè così?”

“Dov’è Fan (Hu Yongfan, operaio cinese marito della donna al telefono)? Dammi Fan tu!”

“Perchè così? io casa tutti qua pagare, qua pagare, io non c’è soldi, capito? io casa, capo, tutti giorni pagare io pagare casa pagare casa...”.

“Ma io parlato Fan domani pagare!”

“Eh, sì io, tu... no c’è, non c’è mangiare, non c’è casa dormire, non c’è...”

“Domani pagare dai, ok? va bene! ciao! sicuro eh? sìììì!”

“Io no c’è mangiato, capito, mangia... io bambino”

“Va bene, ok, domani pagare!”

Questo colloquio è uno dei tanti intercettati: da una parte operai o le loro mogli, esasperati, avviliti, affranti, senza stipendio anche per mesi; dall’altra gli ‘ndranghetisti, che dilazionano, promettono, concedono irrisori acconti. E all’occorrenza minacciano.

Tre operai cinesi, Giò, Zan e Ciawan, a turno chiamano Mario Nania chiedendo i pagamenti. Mario gli dice (a Giò, ndr) di smettere di “rompere i coglioni” lui e la banca, perché ha già fatto il bonifico e hanno preso i soldi anche Zan e Ciawan.

….Ciawan chiama Mario e gli dice che non gli ha mandato niente. Mario gli dice che deve andare in ufficio e ritirare la carta.

….Giò chiama Mario e gli chiede del bonifico e Mario dice che ha fatto e che deve andare in ufficio a prendere le carte e poi andare in banca. Il cinese, alterato, lamenta che non ha ricevuto niente…[…]

….Zhao chiama Mario e il cinese dice “fatto o no fatto?” e Mario si altera dicendo che stamattina è andato a Civezzano.

….Mario riferisce testuale “Tu scemo?” e Zhao gli risponde che non va bene. Mario riferisce di averlo detto anche al giapponese e lo insulta “Cazzo tua banca sicuro non bene...cornuto... giapponese andato… coglione, bastardo vai lì”…[…]

….Zhao’ chiama Mario e gli dice qualcosa di …incomprensibile… Mario gli dice “cornuto di merda”, e che vedranno la prossima settimana.. […]

….Gio’ chiama Mario e gli dice qualcosa di incomprensibile e Mario dice che farà la prossima settimana, il cinese si lamenta dicendo “soldi, soldi soldi”. Mario allora dice che vedrà nei prossimi 2-3 giorni.. […]

….Cinese Gio’ chiama Mario, il cinese dice “capo bastardo” “banca no soldi” e Mario dice la prossima settimana.

Sono impressionanti queste intercettazioni. Perché dietro ai lavoratori costretti a elemosinare il pagamento (in nero) di una parte del compenso pattuito, e dietro a chi continuamente dilaziona e all’occorrenza insulta e minaccia, incombe, a monito per tutti, l’esempio del bestiale pestaggio del cinese Hu Xu Pai, che pretendeva gli fossero pagati gli emolumenti arretrati (ben 34.000 euro come appurato dai giudici) ed è finito all’ospedale in condizioni gravissime (vedi “Infiltrazioni mafiose in Trentino” su QT del maggio 2019 e prima ancora “Il pestaggio nella cava” sul numero del marzo 2017).

“200 euro al mese per mangiare, ed è finita lì”

L’ordinanza di custodia cautelare per 19 (presunti) ‘ndranghetisti emessa nei giorni scorsi dal GIP Marco La Ganga, svela una realtà in parte nota – di sicuro per i nostri lettori – ma ancor più ne evidenzia, attraverso la forza dirompente delle tantissime intercettazioni, gli aspetti brutali. Che non sono marginali, non sono melodramma o folklore: è una disumanità freddamente razionale, programmata, intrinseca alla gestione ‘ndranghetista del business.

Giuseppe Battaglia, il lucido gestore degli affari ‘ndranghetisti nella zona del porfido, così illustra a un imprenditore la sua gestione della forza lavoro: “Guarda, io ho qui i cinesi che... che quando che mi serve sto fuori anche di quattro o cinque mesi e non mi rompono i coglioni, gli dò i duecento euro per mangiare ed è finito li il discorso”. Quando il sodale Mario Nania, chiede a Giovanna Casagranda, moglie di Battaglia e contabile del gruppo, a quanto sono corrisposte le ultime paghe, e questa risponde 700 euro a testa, questi sbalordisce e si preoccupa: “Minchia mi ammazzano porco giuda!” Settecento euro sono uno spreco. La regola sono “condizioni di semischiavitù, stipendi irrisori – scrivono gli inquirenti - sovente pagati in nero e quasi sempre con ritardi tali da costringere le relative famiglie a patire la fame e gli operai stessi a dormire all’interno di veicoli”.

Un operaio, non pagato di un credito di 7.000 euro, minaccia il suicidio in cava. “Giovanna Casagranda dice di riferire all’operaio che se non è soddisfatto può sempre licenziarsi”.

È un grandioso lavoro di investigazione, quello che ha portato i PM Licia Scagliarini, Maria Colpani e Davide Ognibene, coordinati dal Procuratore Sandro Raimondi, a presentare queste richieste – accolte – di carcerazione. Un lavoro che ha preso lo spunto dal pestaggio di Hu Xu Pai e dalle tante denunce del Coordinamento Lavoratori Porfido (che nessuno in valle - e a Trento - prendeva in considerazione: “Sono quattro esagitati”); un’investigazione portata avanti per almeno tre anni dai carabinieri del Ros, attraverso una miriade di intercettazioni telefoniche e soprattutto ambientali, con microspie nelle abitazioni, negli uffici, nelle automobili, anche nei frequenti viaggi effettuati in Calabria, per ricevere soldi, armi, uomini e appoggi in vari ambienti, anche istituzionali.

Ne è sortito un quadro a tinte fosche: “Una propaggine organizzativa (locale) di tipo mafioso ‘ndranghetista con riferimento alle cosche calabresi di provenienza Serraino, Iamonte e Paviglianiti (tre delle più potenti ‘ndrine, ndr), associazione fondata su legami familiari e parentali, di solidarietà - messa a disposizione reciproca - e di comune provenienza geografica dotata di relativa autonomia decisionale, con sede in Valle di Cembra ed operante sul territorio trentino, stabilmente strutturata nelle attività economiche dei presenti indagati: in particolare si avvalevano e si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà derivante dalle associazioni criminali di provenienza, con le quali mantengono costanti rapporti anche tramite frequenti viaggi in Calabria e viceversa; con effetto ulteriormente intimidatorio derivante dalla commissione di svariati reati in Trentino; ciò compivano... anche per acquisire la gestione o comunque il controllo diretto o indiretto di attività economiche, di concessioni, di appalti e servizi... con l’aggravante che si tratta di associazione armata avendo gli indagati la disponibilità attuale e anche potenziale di armi da sparo comuni e da guerra, depositate in luoghi occulti”.

Lo strettissimo legame con la casa madre calabrese

Il reato di associazione mafiosa, si dice, è difficile da dimostrare in giudizio. Su di esso si è impigliata la celebre inchiesta romana di “Mafia capitale”. Non crediamo sia proprio questo il caso dell’inchiesta trentina. Nell’ordinanza ci sono decine di pagine (e nei documenti allegati diverse centinaia) di intercettazioni, viaggi, colloqui, dei nostri uomini con esponenti di spicco della criminalità calabrese come Gangemi Leonardo detto il professore, Romeo Stefano detto il ministro, Romeo Filippo detto il dottore, Paviglianiti Antonino “capo bastone a Reggio”, Liuzzo Antonino, Siviglia Mario e tanti altri ancora. È un continuo concedersi aiuti e disponibilità reciproche; o rievocare detenzioni in carcere vissute assieme e fatti sanguinosi passati, o prospettarne di nuovi, alla luce di nascenti dissidi dentro l’organizzazione.

Che i nostri uomini siano ‘ndranghetisti veraci non ci sembra possibile metterlo in dubbio. Anche perché gli uomini principali sono arrivati in Trentino portandosi dietro soldi dell’organizzazione, o viceversa, qui riparati “per sfuggire a una faida di ‘ndrangheta”.

E quando i nostri scendono in Calabria partecipano ai rituali ‘ndranghetisti, come ad esempio la riunione delle cosche che annualmente si svolge a fine agosto-inizio settembre presso il santuario della Madonna di Polsi, nel Comune di San Luca, “paese dell’Aspromonte considerato dalle forze dell’ordine la testa e il cuore della ‘ndrangheta”. Altrettanto, se pur in scala molto ridotta, succede quando un boss calabrese viene in Trentino: innanzitutto va a visitare il responsabile della locale (Innocenzio Macheda) riconoscendone così la preminenza, e questi chiama a riferire e ad omaggiarlo gli uomini di spicco dell’organizzazione trentina.

L’insopprimibile tendenza alla sopraffazione

La commistione tra criminalità ed affari va però oltre la pur bestiale gestione della manodopera. Infatti, se nel graduale e progressivo insediamento dei calabresi di Cardeto nel settore del porfido, l’accorta regia di Giuseppe Battaglia ha evitato eccessivi contrasti con i cembrani, peraltro poco attenti a legalità e diritti vissuti dai più come impicci in quella che è risultata un’autentica corsa all’oro, quando si è trattato di espandersi in altri settori, il discorso è cambiato.

Allora emerge una tendenza all’inganno, alla truffa, alla sopraffazione anche violenta, che sembra insopprimibile. Quando i nostri impostano un affare, subito pensano a come depredare il partner.

Nel maggio 2017, ad Antonino Quattrone, salito dalla Calabria per visionare acquisti di realtà aziendali, Mario Nania mostra le cave della srl Stone Company dei fratelli Colombini, Gino e Paolo, azienda in crisi economica, gli “propone anche di raggirare Paolo Colombini per fare dei lavori con lui e mangiargli un po’ di soldi”. Per preparare il terreno, Nania intimidisce Gino, così descrivendo l’acquirente Quattrone: “Ma quello lì non è chiacchierone... Domandagli a Paolo! Una parola e basta! Fine!…. quelli li non è che ti fanno su chiacchiere”.

Il 3 febbraio 2018 Nania, Quattrone e Denise trattano con Ivan Agostini l’acquisto della sua segheria, la Arderlegno di Novaledo. Dopo essersela fatta vedere, una volta allontanatosi Agostini, così commentano.”Gli dobbiamo portare via…la fabbrica”.

Comportamenti ancor più decisi vengono tenuti con i concorrenti. Demetrio Costantino è titolare di fatto della Soluzione Ponteggi srl, e nel maggio 2017 “mentre passava per Mattarello, ha visto dei ponteggi di un’altra ditta e si lamenta di ciò”. Saputo che si tratta della ditta CAER di Brescia che ha fatto un prezzaccio (6 euro), Costantino enuncia i suoi propositi verso il concorrente: “Lo devo prendere dall’orecchio”. E così per altre ditte di ponteggi, a Pinè, a San Donà: “Hanno rotto i coglioni”. “Dobbiamo monitorare, compare, se no qua…”.

Analogamente Domenico Morello, venuto a conoscenza che un’altra ditta di trasporti ha presentato un’offerta di servizi in concorrenza con la sua, diffonde nell’ambiente la notizia che dovrà “insegnargli l’educazione”. Precisa in un colloquio con l’amante: dovrà “rompergli le gambe” o “bruciargli i furgoni”, spiegando che sarebbe stato corretto andare a parlare con lui prima di provare a prendergli il lavoro “... a che titolo questo...poi se lui voleva entrare, mi chiamava e mi diceva..Mimmo io vorrei entrare dentro...ci sono problemi?...no che fai che zitto zitto e cerchi di fottermi...facciamo che io vengo e ti brucio i furgoni... …. se sento un’altra voce ancora...se continua..vado e lo acchiappo io...poi gli dico vieni qua giovanotto dove vuoi andare tu? tu vedi se vuoi ancora ritrovarti tutte le mattine coi furgoni …”.

Le ditte di trasporto di Morello hanno problemi anche con il ramo che opera all’Interporto di Verona della società Fercam, una multinazionale di logistica con sede a Bolzano. Per risolverli scende, nel febbraio 2018, in Calabria, e con Giovanni Alampi partecipa a una cena riservata, alla presenza di ‘ndranghetisti di spicco, e in particolare chiede aiuto per la questione Fercam alla cosca dei santolucoti (abitanti di San Luca).

Così si confida con il sodale Alampi: “Sono Santolucoti lo sappiamo come sono i Santulocoti non lo sai? Non lo sai come sono i Santolucoti? … Hanno (quelli della Fercam, ndr) una bella gatta da pelare qua, ah!?

Alampi: Qua si fanno male!

Morello: Lasciali! Ih, ih (ride)! Noi mangiamo e basta! Noi mangiamo e ce ne andiamo”

Poi a Morello, e ancor più ad Alampi, sorge il dubbio di dover cedere il passo ai Santolucoti.Morello: Ma... lo sappiamo che i Santolucoti sono così; i Santolucoti sono così. Si sentono i Padri Eterni. Vabbè, ma a noi non ci interessa.

Alampi:... no che cazzo?!

Morello: Poi se devono girare, devono dire “se Mimmo ci dà il permesso, noi entriamo, sennò ce ne andiamo!.

Alampi: Ecco!

Morello: Io questo sto facendo ‘Ni... eh... Giovà! Perché, non voglio che per il fatto che sono paesani, vengono ad incularmi! No ma ti dico, io sono qua perché sto preparando il piano perché se è come penso io che lì in Fercam Verona vengono quelli che penso io etc, etc, sono a casa, a casa...a casa... stanno dicendo (gli altri ‘ndranghetisti) ‘Ciccio mio, tu telefona E parliamo noi!’ Hai capito? In modo tale che li faccio morire, li devo fare morire”. (Metaforicamente, ndr)

Probabilmente, forse per il timore di lasciare troppo spazio ai santolucoti nel proprio territorio, la cosa non va in porto. Sta di fatto che nel marzo 2018, di fronte al subentro di altri concorrenti nei rapporti con Fercam, Morello cambia strategia: suggerisce a un suo dipendente sindacalista di strumentalizzare gli operai della Fercam, facendogli dire che con Morello si trovavano bene, e non invece con la società subentrante. La cosa non funziona, un dirigente della Fercam, con tono alterato, intima a Morello di non far diffondere ai suoi uomini notizie false sulla cooperativa che gli subentrerà.

I piazzali della Fercam sono poi i luoghi in cui Morello progetta aggressioni a concorrenti. Contro tal Luca Demattè che ha fatto emettere prima un decreto ingiuntivo e poi un pignoramento nei confronti di una società di Morello: “Ve lo portate da una parte, che non lo vede nessuno e gli date una carica di legnate e ve ne andate”. O anche: “Basta che hai un po’ di diavolina...appresso e la macchina piglia fuoco, piglia la prima, piglia la seconda, piglia la terza...capiterà che sta da qualche parte...che sta da qualche parte dove non c’è qualche telecamera non c’è niente”.

Contro il titolare della Blu Energy, che in un contenzioso civile gli ha fatto bloccare tutti i conti bancari Morello propone ad Alampi e alla moglie Alessia Nalin: “Ve lo portate da una parte, che non lo vede nessuno e gli date una carica di legnate e ve ne andate”. I due sodali sono addirittura più radicali Alampi: “Le gambe!” Alessia:” Devi gambizzarlo!”

Infine ricordiamo Mustafà Arafat, uno dei picchiatori di Hu Xu Pai, che così si rivolge ad Angelo Lorenzi, che lo ha denunciato per truffa per avergli scippato due forniture di porfido del costo complessivo pari ad euro 24.086: “Ascoltami…tu non sai neanche… tu stai stuzzicando i muli e non sai neanche di che razza sono…Angelo fai questo piacere prima che venga veramente una cosa grave …perché ti stai mettendo veramente nei casini… tu hai tutto da perdere..Angelo… fai le cose da uomo serio! tu hai fatto una cosa da infame….! Sono di fonte al Macheda… al calabrese…lo sai…Angelo!.. Ti sei messo in un guaio talmente grosso che non ne esci fuori… te lo dico io Angelo! Puoi chiedere chi siamo noi… Nella casa tua scoppia la guerra… a casa tua c’è il fuoco!”

Più in generale, nella conduzione delle società si progettano illegalità sistematiche: oltre allo sfruttamento dei lavoratori, l’evasione dell’Iva e delle tasse e l’intenzionale conduzione di società al fallimento dopo averle sfruttate e prosciugate dei capitali. Se tali illegalità trovano degli argini, si prospettano intimidazioni o peggio. Quando aspettano l’esito di un ricorso in Cassazione sul ripristino della concessione estrattiva alla Anesi srl, così Nania commenta con Giuseppe Battaglia: “Se c’è giustizia me la devono dare (la concessione, ndr) sennò, s’ammazzano! …. ti giuro che li ammazziamo, parola d’onore”. E prosegue: “Se non gli daranno la cava, devono fare una botta, tutta la responsabilità se la prenderà lui e dice a Giuseppe di non pagare nulla, neanche una tassa, zero”.

Quando si azzannano tra loro

Questa pulsione al crimine, al disprezzo delle regole, dei rapporti, dei patti, la costante ricerca del raggiro e della sopraffazione anche dei partner, deve necessariamente trovare un limite: il rispetto dei sodali. Altrimenti va tutto a catafascio. Questo è il cuore della criminalità organizzata: fornirsi aiuto reciproco, ed avere una ferrea struttura che sovrintende i rapporti e dirime i contrasti, è la piramide organizzativa che impedisce agli adepti di sfogare anche all’interno la loro criminalità, e di azzannarsi tra loro.

Che questo pericolo sia sempre incombente lo dimostra l’ira di Pietro Denise per dei pagamenti che Giuseppe Battaglia e Nania devono a lui e al cognato, e che sembra non vogliano versare. Si sfoga con Macheda, che come capo deve dirimere le controversie.

Macheda: Quanto gli deve dare a tuo cognato?...

Denise: Qualche 8... 10.000,00 euro…

Macheda: Peppe?...Provolino (soprannome di Giuseppe Battaglia)

Denise: Sì. Allora... tu non glieli dai? Bene... ce la vediamo io e mio cognato. Qualche mattina vedrete le pale bruciate? Cazzi loro... non mi interessa un cazzo…

Macheda sostiene e calma Denise, conviene che tutto questo “non è onesto” che “Nania imbroglia anche Gesù Cristo” e lo invita a non perdere la pazienza per evitare che tutto “finisca a schifio”. Dopo un’ultima minaccia di Denise di gambizzare Nania, la questione non compare più, evidentemente risolta.

Ma questa è solo una contraddizione minore. Quello che i nostri ‘ndranghetisti, in particolare Nania, Denise e pure il fratello Pietro imputano a Giuseppe Battaglia, è di “aver fatto sparire milioni di euro tramite un giro di banche o piazzandoli all’estero... Ha fatto i soldi imbrogliando, li ha nascosti in quei paesi dove non glieli tocca nessuno da San Marino l’ha passati là direttamente!Fanno i conti: quando sono usciti dalla Camparta si è “mangiato” 1-2 milioni di euro secondo alcuni, 6 secondo altri, con l’affare Marmirolo altri milioni... Ora, gli riconoscono di avere “uno spirito più avanti di loro, ma è pur vero che ha avuto sempre le spalle coperte!” Ha avuto i soldi iniziali, ha avuto l’organizzazione dietro...

“Nania: Pensa che solo lui comanda il mondo.. hai capito?”

Pietro: Sì... ma uno solo, Mario... una sola noce in un sacco non ha mai fatto rumore

Nania: Ha avuto l’aggancio, ha avuto i soldi... ha avuto dappertutto... Però non puoi bruciare le persone che ti aiutano... Come cazzo fai ad andare avanti?”

Quanto rende tutto questo?

A questo punto il lettore si potrà chiedere se e quanto rende questa attività a cavallo tra l’imprenditoria e la criminalità. I passaggi che abbiamo riportato non devono ingannare: si tratta da una parte di contrasti interni a una compagine che all’occorrenza non rispetta neanche le proprie regole, dall’altra di momenti di difficoltà esterne, intoppi, non sempre superati anche con il ricorso alle maniere forti, ma momentanei. Nella sostanza l’azione criminale del gruppo ha reso, e molto. Il micidiale sfruttamento dei lavoratori, l’elusione fiscale, le false fatturazioni, il riciclaggio del denaro, il disprezzo di ogni regola, lo svuotamento delle società acquisite portate al fallimento, hanno depredato il territorio, ma arricchito la cosca. Emblematico è forse il caso di Bruno Saltori, prima proprietario della Cava Porfidi, poi prestanome e dipendente del vero nuovo padrone Giuseppe Battaglia delle cui azioni diventa complice, salvo lamentarsi della fine che ha fatto fare alla sua azienda, “l’ha svuotata della sua ricchezza, per poi abbandonarla a se stessa. Saltori si dice dispiaciuto perché ha lavorato una vita per creare quello che ha adesso ed in un attimo Giovanna (Casagranda, moglie di Battaglia) gliel’ha “mangiato fuori “.

Insomma, sotto la regia di Battaglia la locale cembrana è diventata sempre più pervasiva e potente, oggi anche con diramazioni nel Veneto e a Roma.

La Guardia di Finanza, che nell’Operazione Perfido ha operato a fianco dei Ros, ha portato a un sequestro di 15 società distribuite tra Trentino, Veneto e Roma più una in Calabria, 7 immobili a Roma, automezzi, macchine da cantiere e 18 conti correnti, per un totale stimato di oltre 5 milioni di euro. E poi sappiamo che ci sono, imboscati in paradisi fiscali, chissà quanti altri milioni nella disponibilità soprattutto di Giuseppe Battaglia.

L’incredibile rimpianto: bisognava essere più duri fin dall’inizio

Tutto questo però non soddisfa pienamente Innocenzio Macheda. È una questione di strategia, che riflette una diversità dei caratteri. Più ragionatore Battaglia, più impetuoso Macheda, questo fin da giovani, quando assieme in Calabria facevano spedizioni punitive, il primo studiava la situazione, il secondo partiva come una furia; una simbiosi che probabilmente aveva una sua criminale efficienza. Così Battaglia, insediatosi in Trentino ed iniziata l’infiltrazione nell’economia locale, quando si è visto arrivare prima Macheda, che era suo cugino, e poi Nania, ha dovuto frenarne gli impeti.

Allora Macheda propose la linea dura che ancor oggi rimpiange, estorsioni a tutto spiano, a iniziare dai cavatori: “Tu mi dai due camion al mese di grezzo senza pagarlo... punto, se vuoi lavorare sennò ti ammazzo con tutta la famiglia... comincio da tua figlia e finisco da tua moglie, gli avrei fatto vedere a tizio a caio e a sempronio...” Il cugino Giuseppe Battaglia invece “mi disse ma con il lavoro qua stiamo bene, chi me lo fa fare a me”

Fu una scelta che Macheda rimpiange di aver seguito: “Quando ero salito gliel’avevo detto i primi tempi, facciamo qualcosa di serio, no no no no eh il lavoro, e fatti il lavoro!” Mentre l’alternativa sarebbe stata a portata di mano: “Qua dovrebbero pagare tutti le mazzette dal primo all’ultimo, vieni e mi porti i soldi a casa se vogliono la tranquillità”

Nania conferma l’episodio: “Quando lui è arrivato in Trentino ed ha visto la situazione ha proposto a suo cugino di andare nelle case della gente a chiedere il (pizzo completa il trascrittore) …. ride e dice che suo cugino gli ha consigliato di non fare nulla”

Nania sarebbe pronto a seguire da subito le indicazioni bellicose di Macheda: “Io non sono di quelli là.. non è che mi tiro indietro, io domani o dopo domani tu lo sai.. Però con questi bastardi (i cembrani ndr) cosa devi fare? Non li vedi che sono falsi maledetti?

Macheda: "Non puoi fare niente non puoi fare niente!”

Forse il capo si rende conto che il metodo Battaglia è stato troppo redditizio, non è più possibile ribaltarlo. E poi Innocenzio Macheda probabilmente si sente vecchio per scendere in guerra con il mondo: ha 62 anni e soprattutto il morbo di Parkinson.

Vendetta, tremenda, sanguinosa vendetta

Poi succede il primo fattaccio che sconvolge l’ormai tranquilla attività criminale dei nostri. Il 29 agosto 2018, nottetempo, ignoti appiccano il fuoco, distruggendola, all’autovettura Nissan Navara di Macheda. Questi legge subito l’attentato come atto ‘ndranghetista. Convoca in piena notte gli altri compari, sente gli amici che sono in Calabria, dichiara “di essere ferito non per il valore commerciale, ma per la sua persona in quanto il gesto è stato compiuto proprio sotto casa... chi ha agito ha pensato di poterlo fare... lui può stare tranquillo sul proprio comportamento, a differenza di chi gli ha bruciato la vettura. Spiega che non ha nulla da perdere, nella peggiore delle ipotesi,… si riposerà in cella e guai chi ha fatto “malazioni, infamità e tragedia e chi ha messo guerra”.

Per il capo della locale inizia un periodo di angustie, lancinanti. Vuole, assolutamente vuole, vendicarsi, con il sangue, tanto sangue: “Se lo prendo con le mani, parola d’onore, gli faccio la famiglia polvere! pure i figli! principalmente ai figli. A lui, a sua moglie ai figli”.

Ma non sa contro chi. Continua ad arrovellarsi sui mandanti dell’attentato. Dapprima pensa che l’incendio sia stato ordito dalla Calabria a causa di una sua mancanza verso la stessa ‘ndrangheta: “aveva accreditato all’organizzazione in Calabria una persona rivelatasi poi ‘sbagliata’”.

Si confida con Domenico Ambrogio, rimuginando amarezze: “Se la cosa è partita da dove dico io, Mimmo… Il mio sbaglio è stato portare una persona... che purtroppo non è buono. Purtroppo. Non è buono;... questo è stato il mio sbaglio!... Io, io non posso parlare a vanvera, nelle cose serie Mimmo!... io non so che chiacchiera c’è in giro qua... non lo so, sopra di me! Però ho visto tante persone, da quando è successo ‘sto fatto, che si sono allontanate a tipo che si spaventano, a tipo che non vengono più a trovarmi”.

Nella ricerca di fare chiarezza sui mandanti, scatta la ricerca dell’autore, del basista: “Un amico, un paesano nostro, qualche amico, per forza paesano nostro gli ha dovuto dare... li ha portati lì... ha fatto il Giuda, che viene e mi trova e mi saluta “ciao Cecè, ciao qua, ciao lì”, è quello che vuole esser preso ed essere mangiato sano, capisci Mimmo?”.

Nella ricerca del basista, Macheda e Ambrogio iniziano a sospettare di Paviglianiti Nicola (detto ‘Cola, amministratore unico della società Rosso Grigio Porfido Srl). Così il 17 marzo 2019 Macheda medita vendetta: “…e se lo prendo con le mani, Mimmo, parola d’onore, gli faccio la famiglia polvere! …principalmente ai figli. A lui, a sua moglie ai figli”.

Domenico Ambrogio esplora poi un’altra possibilità: che a fare l’attentato siano stati i Muto, ‘ndranghetisti di prima grandezza, dei quali Antonio Muto, già in carcere per il processo Aemilia, è stato condannato per riciclaggio di denaro nell’ambito del fallimento della Marmirolo Porfidi: Il punto è che nella Marmirolo Giuseppe Battaglia detto Provolino era socio con Muto (vedi “L’affare Marmirolo: gli ‘ndranghetisti e il Trentino” su QT del maggio di quest’anno), ma lui ne uscì pulito, mentre Muto fu condannato a sei anni, perché l’astuto Battaglia – sostiene Ambrogio, e questa pare la lettura prevalente – “si sarebbe rifiutato di fornire le fatture false per scagionare Muto”. Così argomenta Ambrogio con Macheda: “Siccome, maledetta ditta, quando tu hai aperto con Battaglia… con Provolino... a Provolino lo stanno cercando forte! Lo stanno cercando quelli di Cutro (paese dei Muto, ndr)! uno si è fatto otto anni perchè Provolino non ha presentato i documenti! hai capito?... gli vogliono tagliare le anche... e gli faranno veramente male, tu vedrai che non passa tempo... e gli fanno veramente male! a Peppe gli fanno male forte! … sapevano che … c’entravi tu con Battaglia!” . Insomma Macheda è stato colpito come sovrastante di Battaglia.

Poi, in questa affannosa ricerca, i sospetti si appuntano sulla famiglia Longobardi. Il motivo (qui ci si deve sforzare di ragionare con la testa dei mafiosi, diversa da quella delle altre persone) sarebbe uno screzio “avvenuto in cava Dossi e relativo all’utilizzo della pesa da parte di Longobardi Nicola, senza il permesso di Innocenzio e connotato da toni molto accesi. In particolare dall’intercettazione emerge che Macheda, nel vedere il camion di Nicola fermo sulla pesa della cava, si è adirato molto ed urlando gli ha ordinato di togliere il camion da sopra la pesa, di andare via e di non mettere mai più piede nella cava, altrimenti gli taglia la testa con la mazza.

Sono articolati i discorsi sulla vendetta con i Longobardi, che deve essere spietata, totale, seguita da una fuga all’estero: “ce ne and’... che ne andiamo fuori... che ti posso dire, sud America, cosa... dove possiamo fare veramente … Perché non è che possiamo scherzare; tu hai due figli! Altri due ne ho io. Il problema è... nostro sai qual’è Mimmo? ci siamo fo... ci siamo fossilizzati, (bestemmia), non abbiamo fatto niente di quello che dovevamo fare giusto!".

Ambrogio: per davvero, parola d’onore! togliamoci tutte le pietre dalla scarpa a come va, va!...

Macheda: l’uomo... eh... s’ deve essere: umile come la seta e deve avere solo un punto di brutalità!... io le cose, quando le faccio, le devo fare per bene! non è che vado là e tocco ad uno e lascio due, che dopodomani... possono essere un pericolo per me, per la mia famiglia o per la cosa ?! (ndr: n’drangheta)”

La progettata vendetta entra poi nei dettagli: le armi da usare, le intercettazioni e geolocalizzazioni da evitare (non sembra ci siano molto riusciti), la tortura per estorcere ulteriori informazioni. Su questo si segnala Mario Nania: “..quando gli stringiamo i coglioni sai come parlano!.

Macheda: Quando lo prendo nelle mani, Mario, è morto!

Nania: Sai come parla quando…. Ti ricordi a quello là? …no non mi mandò nessuno.. ti faccio vedere io.. ti ricordi quando lo prendemmo là?

Macheda: Si!...

Di sapere troppo dell’attentato viene sospettato anche Ezio Casagranda, fratello di Giovanna, noto sindacalista di estrema sinistra ma tutt’altro che estraneo alla cosca (ne parleremo nel prossimo numero). Per farlo parlare Mario Nania progetta di rapirne il giovane figlio e torturarlo “allora dobbiamo prendere un ragazzo di questi che lo torturiamo, si lui deve cantare questo ragazzo” e poi andare dal padre “e gli dico …vedi che dobbiamo fare questo a tuo figlio per vedere la reazione…”.

Il marchiano errore del Tribunale

Il 12 dicembre 2019, il Tribunale di Trento la combina grossa: per un errore notifica agli indagati la proroga delle indagini preliminari, in pratica li avvisa che sono tutti indagati e intercettati. Nel gruppo, scrivono gli inquirenti, “si crea un clima da allarme generale”, tutti diventano più prudenti e accorti (ma non riescono del tutto ad eludere le intercettazioni), lasciano perdere le azioni più eclatanti, e cercano di attivare le sponde altolocate.

In questa prima puntata ci fermiamo qui. Crediamo di avere illustrato a iosa la pericolosità, la brutalità, di questa finora sempre sottovalutata associazione criminale. Nelle sue due facce complementari: quella economica dei Battaglia Giuseppe, quella feroce dei Macheda e Nania. C’è molto da scrivere ancora: sulla pervasività del gruppo, sulla sua capacità di infiltrarsi ai vari livelli, nelle istituzioni, la politica, la società. Lo faremo nel prossimo numero.

Non possiamo però esimerci, da subito, nel citare i nomi dei personaggi coinvolti, vedremo poi quanto e a che titolo.

Gli insospettabili coinvolti: tutti i nomi

Politici locali: l’ex sindaco di Lona Lases Roberto Dalmonego, il sindaco di Frassilongo Bruno Groff.

Politici provinciali: Mauro Ottobre, Michele Dallapiccola, Pietro De Godenz, Tiziano Mellarini, Mario Tonina e, più defilato, Lorenzo Dellai.

Sindacalisti: Ezio Casagranda.

Medici: Giuseppe Tirone, primario al Santa Chiara.

Rappresentanti dello Stato: Giuseppe Grasso Vicequestore di P.S., Andrea Oxilia capitano dei Carabinieri, Pasquale Gioffrè ex-prefetto di Trento, Dario Buffa, generale a capo del Comando Militare Esercito “Trentino-Alto Adige”, Armando Urciuoli ufficiale giudiziario in pensione.

Magistrati, rileviamo che nessun giornale locale ne ha riportato i nominativi (a parte il quotidiano nazionale “Domani” in un servizio di Giulia Merlo e la testata on line Irpimedia). Rimediamo noi: Guglielmo Avolio Presidente del Tribunale di Trento, Giuseppe De Benedetto Pubblico Ministero, Giuseppe Serao Presidente della Sezione Penale del Tribunale di Trento.

I personaggi e i loro ruoli

IL CAPO

Macheda Innocenzio: di Cardeto; è capo dell’associazione e figura centrale del sodalizio, di cui cura i rapporti con i vertici della cosca Serraino in Calabria e con esponenti di altre cosche calabresi.

L’AMMINISTRATORE DELEGATO

Battaglia Giuseppe: anche lui di Cardeto, si occupa del fondamentale assetto economico-finanziario del sodalizio, in cui riveste un ruolo apicale; è tra gli iniziatori della silente infiltrazione mafiosa nel tessuto sociale ed economico trentino, prima nel settore degli autotrasporti, poi in quello delle cave, acquistando - con gli Odorizzi - la Camparta; dirige ed organizza gli aspetti di natura economico-finanziaria legati alle ditte di porfido; risulta essere punto di riferimento per gli altri associati a lui subordinati, assumendo decisioni rilevanti ed impartendo disposizioni; fornisce supporto agli altri affiliati nella consumazione di reati (in particolare legati allo sfruttamento dei lavoratori, all’intestazione fittizia di società ed all’elusione fiscale); cura per conto dell’organizzazione i rapporti con imprenditori, con soggetti istituzionali e con le amministrazioni comunali di Albiano e Lona Lases, di cui diventa prima assessore esterno (alle cave) e poi consigliere.

I LUOGOTENENTI

Nania Mario Giuseppe: di Reggio Calabria; è uno degli organizzatori e “rappresenta il braccio armato della cosca proponendosi per l’esecuzione di atti intimidatori in pregiudizio di altri imprenditori, debitori e lavoratori”; esegue le direttive dei capi locali, sempre riconoscendo e rispettando le gerarchie e le regole interne dell’associazione.

Casagranda Giovanna: moglie di Giuseppe Battaglia, è l’unica trentina del gruppo, l’emblema della riuscita infiltrazione di Giuseppe. È la contabile e “partecipa allo sfruttamento dei lavoratori, all’intestazione fittizia di società e all’elusione fiscale”; ha il compito di curare per conto dell’organizzazione criminale i rapporti con gli istituti di credito.

Battaglia Pietro: fratello di Giuseppe, che supporta - assieme a Nania e alla cognata Casagranda - nella gestione economica delle ditte, inclusa la schiavizzazione dei lavoratori. Si adopera attivamente per procacciare voti per le elezioni comunali di Lona Lases nel 2018, riuscendo nell’intento di far eleggere sindaco Roberto Dalmonego e ottenendo, per se stesso, la nomina a consigliere comunale.

GLI UFFICIALI DI COLLEGAMENTO

Morello Domenico: è promotore ed organizzatore dell’associazione facente capo a Macheda, con cui si rapporta direttamente pur rispettandone la gerarchia; gestisce, apertamente o tramite prestanome, imprese nei campi della logistica e dei ponteggi; mantiene i rapporti con gli altri sodali e direttamente con le cosche Paviglianiti e Iamonte in Calabria; è a capo della diramazione romana formata da Cipolloni Federico, Schina Alessandro e De Santis Fabrizio.

Paviglianiti Giuseppe: ricopre la carica di presidente dell’associazione culturale Magna Grecia, a Trento, ove organizza incontri e riunioni tra i sodali; si fa promotore per fornire assistenza ad appartenenti di cosche ‘ndranghetiste di Bagaladi (famiglia Paviglianiti) destinatari di provvedimenti restrittivi, organizzando raccolte di fondi; esegue le direttive di Macheda, sempre riconoscendo e rispettando le gerarchie interne all’organizzazione.

Costantino Demetrio: è uno dei promotori ed organizzatori della cosca; si rapporta direttamente con Macheda, pur riconoscendone il ruolo predominante e rispettandone la gerarchia; mantiene i contatti e fornisce supporto agli altri affiliati; è particolarmente legato alla figura di Arfuso Saverio; si adopera per istruire gli altri affiliati sulla riservatezza delle comunicazioni, in modo da eludere i controlli della polizia.

Arfuso Saverio: partecipe dell’organizzazione con a capo Macheda, cui è subordinato, ricopre un ruolo di rango elevato nell’organizzazione criminale a Cardeto, è punto di riferimento e rappresentante anche degli interessi della compagine calabrese dislocata nei comuni di Albiano e Lona Lases; mantiene i rapporti con gli altri sodali ed è particolarmente legato a Costantino Demetrio, con cui si rapporta alla pari.

Quattrone Antonino: in diretto contatto con Nania e Macheda, ha il compito di curare per conto dell’organizzazione criminale i rapporti con gli imprenditori e i soggetti istituzionali, con le amministrazioni comunali di Cardeto, Gerace e San Luca; nonché con funzionari pubblici compiacenti, al fine di garantire il controllo delle attività economiche di interesse per la cosca e l’aggiudicazione di appalti; garantisce l’utilizzo di capitali di provenienza illecita per l’infiltrazione sul territorio.

IL BRACCIO ARMATO

Mustafà Arafat: macedone, rappresenta il braccio armato del sodalizio, esegue personalmente atti intimidatori nei riguardi di altri imprenditori e dei lavoratori (è uno dei picchiatori di Hu Xu Pai); esegue le direttive del capo cosca, sempre rispettando le gerarchie.

Ambrogio Domenico: di Cardeto; anche lui è ritenuto essere braccio armato della cosca, pone in essere le attività delittuose del sodalizio tra le quali furto, ricettazione e atti preparatori di rapina e sequestro di persona.

Denise Pietro: di Cardeto; anche lui “è pronto a compiere azioni violente”. Gli è affidata la manutenzione e l’occultamento delle armi.

Vozzo Vincenzo: esegue le direttive del capo cosca, fornendo supporto agli altri affiliati con i quali mantiene costanti rapporti anche attraverso l’associazione Magna Grecia; soggetto particolarmente vicino a Costantino e suo fidato esecutore di ordini.

Alampi Giovanni: è uno dei bracci armati della cosca, particolarmente legato alla figura di Morello Domenico cui fornisce supporto nella consumazione dei reati.

IL RAMO ROMANO

Cipolloni Federico: partecipe dell’associazione criminale di riferimento, è promotore ed organizzatore del sodalizio definito “ramo romano”; ha il ruolo di contabile ed opera in diretta sinergia con Morello, procacciando le finanze alle società a loro riconducibili, con l’ausilio di prestanome e operazioni inesistenti; cura i contatti con soggetti istituzionali e del mondo della politica romana; è l’ideatore di architetture societarie funzionali ad interessi illeciti.

Schina Alessandro: anche lui risulta essere uno dei promotori del ramo romano; si rapporta alla pari con Morello e Cipolloni; è a capo delle società a loro riconducibili, quale amministratore occulto, e cura gli interessi dell’organizzazione criminale, mantenendo i rapporti con imprenditori, con soggetti istituzionali e con le amministrazioni comunali, al fine di garantire il controllo delle attività economiche di interesse per la cosca e l’aggiudicazione di appalti.

De Santis Fabrizio: carabiniere, è ritenuto essere il braccio armato del sodalizio romano, ha un ruolo prettamente operativo, pronto a compiere reati e atti contrari ai doveri d’ufficio, avvalendosi della sua qualifica istituzionale.

L’EMINENZA GRIGIA

Carini Giulio: discorso a parte merita Carini, partecipe dell’associazione, imprenditore calabrese affermato in Trentino, si interfaccia alla pari con Macheda, esercita un ruolo di raccordo e collegamento con la Calabria, e in Trentino con le istituzioni economiche ed amministrative, con la magistratura, con politici di livello provinciale. È il promotore di cene in cui viene cucinata la “capra calabrese”, famose per la prelibatezza del menù, ma soprattutto per la convergenza di selezionati personaggi di elevato rango istituzionale. Il tutto per tessere rapporti interpersonali al fine di piegare le istituzioni verso gli interessi suoi e dell’associazione.