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QT n. 5, maggio 2020 Servizi

L’affare Marmirolo: gli ‘ndranghetisti e il Trentino.

Una vicenda esemplare sull’infiltrazione della criminalità. Protagonisti tre imprenditori trentini, il noto Giuseppe Battaglia e due esponenti della ‘ndrangheta.

Quella che raccontiamo è la storia, dalla nascita al fallimento, di una società fondata da un gruppo di imprenditori trentini e operante nel mantovano. Una vicenda dai molti lati oscuri, in cui hanno un ruolo di grande rilievo Giuseppe Battaglia, imprenditore calabrese che abbiamo già incontrato nelle nostre precedenti inchieste, e Antonio Muto, uno dei condannati eccellenti del maxiprocesso Aemilia, che ha messo in luce le infiltrazioni della ‘ndrangheta in tutto il Nord Italia.

La nascita della Marmirolo

All’inizio degli anni ‘90 viene fondata a Trento il Co. Rib. un consorzio di autotrasportatori, che riunisce un buon numero di imprenditori del settore, quasi tutti trentini. Pochi anni dopo, nel 1993, sempre a Trento, i soci del consorzio creano la S.E. Com., una società commerciale che ha come oggetto sociale, tra le altre cose, la lavorazione, il trattamento e il trasporto del porfido.

Tra i clienti della Co. Rib. e della S.E. Com. c’è la 3P, una società che opera nel mantovano e che, nei primi anni 2000, attraversa un periodo di difficoltà economica. Così, nel luglio del 2004, alcuni soci della S.E. Com. fondano la Marmirolo Porfidi srl che rileva le quote della 3P.

Un affare che non convince tutti

Non tutti i soci pensano che la Marmirolo possa essere un buon affare e decidono di uscirne, cedendo le quote ai tre che fino a quel momento nella nuova società si sono spesi più degli altri.

I tre sono Gianni Gianesini, Achille Trentini e Fabrizio Benedetti: alla fine del 2006 diventano gli unici soci. A loro si aggiunge, con loro sorpresa visto che fino a quel momento era stato piuttosto assente nella gestione dell’azienda, anche Giuseppe Battaglia che decide di non cedere le sue quote e di restare in società con i tre. Non è un’omonimia, si tratta dello stesso Battaglia di cui ci siamo occupati diffusamente nelle nostre precedenti inchieste sul rischio - ormai conclamato - di infiltrazioni della ‘ndrangheta nel settore del porfido: calabrese, con un passato negli autotrasporti ma poca esperienza nel mondo dell’imprenditoria, ci siamo imbattuti nel suo nome quando abbiamo scritto del pestaggio dell’operaio cinese e ne abbiamo raccontato le alterne fortune societarie.

Torniamo alla Marmirolo: in un primo tempo l’azienda sembra essere in netta ripresa, con un fatturato dichiarato nel 2007 di oltre 7 milioni di euro, anche grazie ad alcune commesse importanti con l’alta velocità. Poi, inesorabile, arriva la crisi. Tra i creditori, c’è anche un autotrasportatore, Antonio Muto. I quattro soci sono in difficoltà economica, ma sono convinti di poter risolvere i problemi con un po’ di tempo a disposizione; Battaglia si offre di parlare con Muto, lo conosce, hanno in comune le origini calabresi; il compito è di prendere tempo, deve avere pazienza, la crisi verrà superata e gli verrà pagato quel che gli deve essere pagato.

L’ingresso di Muto in società e le fideiussioni che restano sul groppone dei trentini

Antonio Muto

Stando alla nostra ricostruzione, dunque, fu proprio Battaglia a rivolgersi a Muto, dicendogli che la Marmirolo attraversava un periodo di difficoltà finanziaria. A quel punto Muto si offre di rilevare le quote dei quattro soci. Battaglia si fa portavoce della proposta e i quattro decidono, all’unanimità, di cedere la società. Ma quando arriva il momento di formalizzare la cessione, nel marzo del 2009, per Gianesini, Benedetti e Trentini arriva la sorpresa: Battaglia ha cambiato idea, non intende cedere la sua quota; vuole restare nella Marmirolo, in società con Muto.

I tre sembrano stupiti, ma poco importa. Si va avanti e si formalizza la cessione alla CSM, una delle società di famiglia dei fratelli Antonio e Cesare Muto. I Muto hanno il 75% della società, a Battaglia resta il suo 25%. A seguire tutto l’affare è Cesare, fratello di Antonio.

Dovrebbe essere un’operazione di salvataggio, con cui i subentranti si impegnano a risollevare l’azienda, a risanarne i debiti, a liberare i precedenti proprietari dalle fideiussioni che avevano prestato per ottenere alcuni prestiti dalle banche. Ma è tutt’altro. I Muto spogliano la società, prendono tutto quello che possono, non liberano i tre soci trentini dalle loro fideiussioni, poi presentano istanza di fallimento.

Morale della favola: i tre imprenditori trentini sono costretti al pagamento del debito, la Marmirolo finisce sotto la lente degli investigatori per bancarotta fraudolenta e con quell’accusa, come vedremo, Antonio Muto finirà con l’essere arrestato. Resteranno fuori dai guai il fratello Cesare, e Giuseppe Battaglia, nonostante, specialmente quest’ultimo, abbia avuto un ruolo centrale nella vicenda ed abbia ricoperto ruoli apicali nella Marmirolo, alternandosi ai Muto nelle più alte cariche sociali del consiglio di amministrazione (ne potete leggere più diffusamente nella scheda sotto).

Una precisazione: quando le banche vogliono rientrare dei soldi che hanno prestato aggrediscono il patrimonio di Gianesini, Trentini e Benedetti. Ci sarebbe anche Battaglia, tra quelli che avevano firmato le fideiussioni, e quindi responsabile pro quota, ma lui risulta nullatenente e non paga nulla. Quel prestito che i quattro soci avevano ottenuto, insomma, lo ripagano in tre e Battaglia ci conferma, ancora una volta, di essere dotato di un’invidiabile capacità che gli consente di tenersi fuori dai guai.

Perché tre imprenditori non proprio di primo pelo decidono di cedere la propria società ad un imprenditore che si lanciava per la prima volta in un’operazione del genere, e senza verificarne la solvibilità, resta tutt’ora un mistero, una scelta quanto meno poco saggia, di cui comunque i tre hanno pagato il prezzo.

Ma facciamo un passo indietro.

Due prestiti per 800 mila euro

Il “processo Pesci”

Come detto, stando all’accordo di cessione la società acquirente C.S.M. si “obbliga a liberare i soci uscenti dalle garanzie fideiussorie dagli stessi prestate a favore della società Marmirolo porfidi SRL”.

Si tratta di un prestito ottenuto dalla banca Unicredit, per una cifra complessiva di 800 mila euro, corrispondente a due finanziamenti concessi alla Marmirolo, in forma di mutuo: il primo di 500 mila euro, il secondo di 300 mila.

I tre soci ricordano chiaramente e in maniera inequivocabile che i prestiti furono richiesti prima dell’ingresso dei fratelli Muto nella società. Non ricordano invece per cosa furono utilizzati esattamente quei soldi, acquisto di terreni, miglioramento dell’azienda, sono alcune delle ipotesi.

È necessario fare due conti e mettere in fila le date. La cessione delle quote a Muto avviene nel marzo del 2009. Nel contratto di cessione si fa riferimento esplicito ai due prestiti della Unicredit. Quello da 500 mila euro è da rimborsare entro il 31 dicembre del 2011. È citato anche il piano di ammortamento, che ci aiuta a fare chiarezza: sono previste 12 rate trimestrali, con la prima, di 45 mila euro, con scadenza 31 marzo 2009. Questo ci porta a collocare la concessione del prestito nel dicembre 2008.

Seguendo analogo ragionamento, il secondo mutuo è stato concesso dalla banca nel marzo del 2009, in pratica contestualmente alla cessione; è molto strano che degli imprenditori accendano dei mutui di questa rilevanza quando hanno oramai già deciso di liberarsi della società, ma sembrerebbe, in effetti, che entrambi i prestiti siano stati richiesti alla banca prima dell’ingresso dei Muto in società.

Eppure, non è così. Ed è ancora lo stesso documento notarile con cui viene ceduta la Marmirolo ai Muto che ci viene in aiuto: nel contratto la società acquirente C.S.M. SRL dichiara “di avere piena conoscenza della situazione economica e patrimoniale della Marmirolo porfidi SRL avendo potuto affiancare la gestione dell’azienda negli ultimi otto mesi”. Questo inciso ci permette di collocare l’ingresso dei Muto in società otto mesi prima della cessione, vale a dire nel luglio del 2008.

Dunque, ricapitoliamo: nei primi mesi del 2008 i Muto vengono avvisati da Battaglia che le cose per la Marmirolo non si mettono bene, a luglio entrano in società affiancandosi nella gestione a Battaglia, Gianesini e soci, a dicembre viene richiesto il primo prestito di 500 mila euro, nel marzo del 2009 un secondo di 300 mila, pochi giorni dopo viene ceduta la società a Muto e Battaglia decide di tenere le sue quote. In entrambi i mutui sono i tre soci trentini (e Battaglia) ad offrire le garanzie per i prestiti. I soldi sono stati presi e non si sa se e come siano stati spesi. Poco dopo la società fallisce.

Un fallimento che insospettisce gli inquirenti e che porterà, nel luglio del 2011 all’arresto di Antonio Muto con l’accusa di bancarotta fraudolenta. Secondo i magistrati trentini che si occuparono delle indagini Muto fu arrestato mentre cercava di cedere le quote ad un prestanome per evitare guai giudiziari.

Uno schema ricorrente

Ad operare, sempre nel mantovano nel settore dell’edilizia, c’è anche un altro Antonio Muto, che ha, con il fratello di Cesare, molte cose in comune. Anche lui calabrese, muratore, ha avuto una rapidissima ascesa diventando in pochi anni uno dei massimi imprenditori nel settore delle costruzioni, con amicizie importanti. Fa un’operazione molto simile a quella fatta con la Marmirolo dal “nostro” Antonio Muto. Nel 2012 va in banca, a Siena, nella sede della Montepaschi e ottiene un fido di 27 milioni, parlando direttamente con l’ex amministratore delegato della banca, Fabrizio Viola.

Il mutuo era stato erogato per i lavori di piazzale Mondadori, in provincia di Mantova. Anche in quel caso, una volta ottenuti i soldi, non si sa né come né quanti ne siano stati spesi; secondo un’inchiesta di Report solo 13 milioni furono effettivamente utilizzati, all’appello mancano 14 milioni. Giuliano Longfils, allora consigliere comunale di Mantova, fu tra i primi a denunciare che i soldi sparirono senza lasciare traccia.

Ora la ditta è fallita e il cantiere, che avrebbe dovuto portare alla costruzione di un parcheggio e di un centro commerciale, è abbandonato; a Muto resta un debito di quasi 28 milioni di euro con Montepaschi. E quando una società fallisce, diventa difficile per la banca rientrare del credito.

Ma come è possibile che Montepaschi si sia impegnata in un’operazione del genere con un imprenditore che già allora era piuttosto “chiacchierato”?

Il pentito chiave

Paolo Signifredi

A questo punto dobbiamo introdurre un nuovo personaggio: Paolo Signifredi, imprenditore e commercialista di Baganzola, ex presidente del Brescello calcio, uomo chiave dell’inchiesta Aemilia, considerato il contabile della cosca Grande Aracri -uno dei principali clan della ‘ndrangheta-, talmente ben introdotto che avrebbe conosciuto di persona il boss Nicolino Grande Aracri.

Signifredi si pente nel 2015, dopo essere stato arrestato nell’ambito del processo Pesci di Brescia (la costola lombarda del processo Aemilia). Arresto cui segue una condanna a 4 anni per associazione mafiosa; nel marzo del 2018 verrà poi condannato ad altri 5 anni per il crac della Dal Ben Tre di Monastier, a Treviso.

Durante il ‘processo Pesci’ testimonia che Muto gli aveva detto che a Siena c’era un “altissimo funzionario che sbloccava i movimenti anche se naturalmente voleva la sua parte”. Nell’aprile del 2018 Signifredi viene picchiato e minacciato, mentre si trova, in quanto collaboratore di giustizia, in una località protetta e segreta. In tre lo aggrediscono e gli intimano di tenere la bocca chiusa e di ritrattare tutto.

Muto viene processato, a Brescia, con l’accusa di essere il referente mantovano del boss Nicolino Grande Aracri. Lui si è sempre difeso dalle accuse, sostenendo davanti alle telecamere della Rai che “di Antonio Muto, tra Mantova e provincia, ce ne sono almeno una quindicina”. Una difesa che fa sorridere, ma che, come vedremo, ha qualche fondamento di verità.

Muto per quelle accuse viene assolto, ma i guai giudiziari, per lui, non finiscono lì.

Sarà successivamente arrestato per bancarotta fraudolenta aggravata: avrebbe distratto 3,9 milioni di euro da una sua società, facendoli finire nelle casse di un’altra società, sempre di sua proprietà.

Questi, comunque, sono altri elementi ad accomunare i due Antonio Muto: i fallimenti, i guai giudiziari, le accuse di essere fiancheggiatori di uno dei più potenti clan della ‘ndrangheta.

I guai giudiziari di Muto e la condanna nel processo Aemilia

Il “nostro” Antonio Muto, il fratello di Cesare, come detto, viene arrestato nel luglio del 2011 per bancarotta fraudolenta. L’Adige riportò la notizia, rassicurando sul fatto che gli inquirenti trentini escludevano potesse trattarsi di fatti di mafia. Ma qualche anno dopo Muto non avrà la stessa fortuna: il 31 ottobre 2018, al termine del processo Aemilia, arriva la condanna, pesantissima, per associazione mafiosa, truffa ed estorsione.

In questi ultimi mesi le cose sono cambiate anche in Trentino: a parlare di ‘ndrangheta non sono più solo i Donchisciotte che fino a qualche tempo fa erano visti come fantasiosi dietrologhi; certo c’è ancora chi - come recentemente ha fatto Dragone, ex procuratore della Repubblica - tende a minimizzare e tranquillizzare, ma la commissione antimafia ha scoperchiato il vaso di Pandora, citando il Trentino nel suo rapporto come luogo soggetto a possibili infiltrazioni: da allora c’è una maggiore attenzione.

Sarebbe bello potervi dire che quelli che vi abbiamo appena descritto sono affari d’altri, per lo più emiliani, che solo marginalmente ci toccano. Ma non è così: come abbiamo raccontato nelle nostre precedenti inchieste, sono cose che capitano anche qui: dai pestaggi alle minacce, dai misteriosi fallimenti ai consigli comunali che operano in pieno conflitto di interessi.

Il sequestro dei beni ai Muto

Per fortuna la giustizia, in concreto, si muove: il 19 novembre del 2019 nell’ambito dell’operazione Grimilde i carabinieri del Ros, su ordine della DDA (direzione distrettuale antimafia) di Bologna, sequestrano ai fratelli Cesare e Antonio Muto beni per un valore complessivo di 9 milioni di euro. Oggetto del provvedimento di sequestro furono, tra le altre cose, 5 aziende che operavano nel settore immobiliare e degli autotrasporti, aziende che nell’anno precedente avevano fatturato un utile di quasi 4 milioni di euro.

Antonio era in carcere per essere stato condannato nel processo Aemilia, ma entrambi gli imprenditori erano stati colpiti già nel 2013 da interdittiva antimafia, aggirata, stando agli inquirenti che hanno analizzato oltre 700 rapporti bancari, grazie ad uno “schermo di compiacenti prestanome”: costituirono una società, la COSPAR, intestandone le quote a Salvatore Nicola Pangalli, anche lui di origini crotonesi.

Un mese prima, nell’ottobre del 2019, la DIA (Direzione Investigativa Antimafia) di Bologna, aveva provveduto ad un analogo sequestro (per un valore complessivo di 10 milioni di euro) nei confronti di un terzo Antonio Muto, anche lui originario di Cutro, anche lui condannato nel processo Aemilia con l’accusa di essere uno dei fiancheggiatori del clan Grande Aracri.

Per la cronaca, gli Antonio Muto non sono finiti.

Nel processo Aemilia ce n’è un quarto, anche lui condannato con le medesime imputazioni.

Un’ultima curiosità: nel 2010, proprio mentre i fratelli Muto stanno spolpando di ogni bene la società Marmirolo, l’agenzia di stampa AdnKronos dà la notizia che l’Unicredit ha nominato un nuovo responsabile per il centro Italia. Indovinate un po’ come si chiamava? Antonio Muto. Lui, in comune con il “nostro” Antonio, ha solo il nome. Parafrasando Oscar Wilde, l’importanza di chiamarsi Antonio Muto.

Le società di Giuseppe Battaglia

Per capire la pervasività nell’economia del porfido e non solo, del gruppo calabrese originario di Cardeto (Reggio Calabria), che ruota attorno a Giuseppe Battaglia, riportiamo l’elenco delle imprese (autotrasporto, estrazione e lavorazione del porfido, edilizia, produzione di inerti, ristorazione e agricoltura) in cui risulta presente lui stesso, il fratello Pietro, la moglie Giovanna Casagranda e il figlio Demetrio, o che hanno sede legale nella sua abitazione, Lona Lases, località Ronc del Mela 2. Tralasciamo qui le altre imprese in capo a prestanome o ad altri personaggi del gruppo di Cardeto. Rimandiamo ulteriori considerazioni, oltre a quelle già operate nelle precedenti puntate, a successivi sviluppi della nostra inchiesta.

  • AUTOTRASPORTI SPOIALA ALEXEI e C SNC (inizialmente BATTAGLIA GIUSEPPE & C. SNC e poi AUTOTRASPORTI BATTAGLIA GIUSEPPE & C. SNC.). Sede legale: Lona Lases, loc. Ronc del Mela 2
  • PIETRE NATURALI MACHEDA SRL (inizialmente BATTAGLIA GIUSEPPE & C. SRL) Sede legale: Lona-Lases, loc. Grotta
  • PORFIDI DOSSI SAS di BATTAGLIA PIETRO e C. Sede legale: Lona-Lases (TN) loc. Ronc del Mela 2
  • CAMPARTA S.R.L. (ce ne siamo già ampiamente occupati ne “I signori del porfido” nel giugno 2009). 9.3.2000: Consigliere e Presidente del CdA Odorizzi Carlo; Consigliere e Vice presidente Battaglia Giuseppe; Consigliere del CdA Odorizzi Tiziano e Battaglia Pietro.
  • CO.RIB.91 Sede legale: Trento, via Verdi 19. 29.1.1999: ingresso nuovi soci BATTAGLIA GIUSEPPE & C. SNC. 22.2.2008: nomina membro Comitato Direttivo Battaglia Giuseppe
  • PIEMME LAVORAZIONE PORFIDO SNC DI PIZZIMENTI PAOLO & C. Sede legale: Lona-Lases, loc. Ronc del Mela 2. Socia: Casagranda Giovanna
  • PORFIDI 99 S.R.L. Sede legale: Lona-Lases, loc. Ronc del Mela 2. Soci: Nania Mario Giuseppe quota 5% (euro 520,00); BAT SERVICE SRL quota 95% (euro 9.880,00). 12.9.2000: Consigliere CdA Casagranda Giovanna. 18.11.2004: nomina alla carica di liquidatore Battaglia Giuseppe
  • ARKI CONSORZIO STABILE Sede legale: Albiano, via Roma 28 10.4.2002, iscritto. 14.6.2002: Consigliere e Presidente del Consiglio Direttivo Odorizzi Tiziano, Consiglieri Odorizzi Carlo e Battaglia Pietro
  • DOSSI PORFIDI COSTRUZIONI SRL (denominazione precedente RONC PORFIDI SRL) Sede legale: Lona-Lases, loc. Ronc del Mela 2 n.REA TN-173152 P.IVA 01735200220. Atto costituzione del 16.3.2001, Presidente del CdA Casagranda Giovanna. 8.7.2003: consigliere e Presidente del CdA Battaglia Giuseppe; consigliere e vice presidente Battaglia Pietro
  • CAGIMA SAS DI CASAGRANDA GIOVANNA con sede a Lona-Lases.
  • L.C.L. SNC DI CAGIMA SAS con sede a Levico Terme.
  • BAT SERVICE SRL Sede legale: Lona-Lases, loc. Ronc del Mela 2. 6.3.2003: Amministratore unico Battaglia Giuseppe. 27.3.2009: soci Battaglia Giuseppe e Battaglia Pietro quote 50% ciascuno. 6.10.2010: Liquidatore Battaglia Giuseppe
  • LU.BATT. SAS DI LUONGO ANGELO & C. Sede legale: Pozzuoli (NA), via I Traversa Tranvai 2 CAP 80078. 3.4.2003: socio Accomandante Battaglia Giuseppe
  • LB PROPERTY SRL sede legale: Bolzano via Canonico Gamper 10. Atto costitutivo: 21.3.2005. 28.1.2009: soci con quote per 5.000,00 euro Battaglia Giuseppe e Casagranda Giovanna
  • HOTEL MEDITERRANEO S.A.S. DI NATALIA SPOIALA & C. Sede legale: Levico Terme, via Maso San Desiderio 4. Atto costituzione: 30.9.2005. Soci Battaglia Giuseppe 5% Casagranda Giovanna 5%
  • DOSSI S.R.L. Sede legale: Lona-Lases, via Ronc del Mela 2, fraz. Lases. Atto di costituzione: 13.1.2006. 3.8.2015: socio unico Battaglia Giuseppe. 19.1.2016: scioglimento e nomina Liquidatore Battaglia Giuseppe.
  • L.S. S.A.S. DI CAI ZUDONG, sede legale: Levico Terme. Atto costituzione: 8.10.2007. Oggetto sociale: attività di gestione d’albergo, affittacamere, bar, pub, tavola calda e fredda, rosticceria, pizzeria, paninoteca e altro socio Accomandatario Cai Zudong socio Accomandante Battaglia Giuseppe
  • FINPORFIDI S.R.L.. Sede legale: Lona-Lases, loc. Ronc del Mela 2. 20.1.2011 Socio Unico e Amministratore Unico Battaglia Demetrio nato a Trento il 25.5.1986 domiciliato a Lona-Lases loc. Ronc del Mela 2

Scalata e fallimentodi Marmirolo Porfidi SRL

Come documentazione, riportiamo i passaggi proprietari che hanno contraddistinto la vicenda della Marmirolo, e lo scambio di posizioni apicali tra Giuseppe Battaglia e Antonio Muto.

Nel luglio 2004 viene costituita MARMIROLO PORFIDI S.R.L. e con atto di novembre dello stesso anno viene iscritto come socio unico S.E. COM. S.R.L.; ne risultano consiglieri Gianesini Gianni (presidente del CdA), Trentini Achille, Baldo Remo e Molinari Enzo.

L’oggetto sociale risulta essere, tra le altre cose, la lavorazione e il trattamento di porfidi, marmi e materiale da escavazione. Nel marzo 2005 viene acquistato dalla società 3P S.R.L. il frantoio sito a Marmirolo (MN). Alla data dell’apertura di tale unità locale (4.4.2005) risulta tra i soci e membri del CdA Battaglia Giuseppe. Nel dicembre 2006 S.E. COM. S.R.L. cessa dalla carica di socio unico. Nel gennaio 2008 Giuseppe Battaglia viene nominato presidente del CdA, carica confermata con l’atto del 3.11.2008, col quale vengono confermati quali consiglieri del CdA Trentini Achille, Gianesini Gianni e Benedetti Fabrizio. Con l’atto del 7.3.2009 tutti e tre cessano dalla loro carica, mentre Battaglia rimane nel CdA, pur cedendo la presidenza a Cesare Muto; entra nel CdA Antonio Muto. Col successivo atto del 10.6.2009 viene nominato amministratore unico lo stesso Battaglia, mentre Cesare e Antonio Muto cessano dalle loro cariche. Nello stesso tempo, con atto del 17.3.2010, viene effettuata l’iscrizione di affitto/comodato con cedente MARMIROLO PORFIDI S.R.L. e cessionario MATERIALI INERTI NORD S.R.L. Con l’atto del 4.12.2009 viene iscritta la cessazione dalla carica di amministratore unico di Battaglia Giuseppe e l’iscrizione alla stessa carica di Perito Sergio. Con l’atto del 29.07.2010 viene iscritta la sentenza di fallimento, n. provv. 25/2010 del 29.7.2010, data deposito 03.08.2010, giudice delegato Dino Erlicher e il 5.8.2010 veniva nominata curatore fallimentare Segnana Marilena. Successivamente, con atto del 1.7.2010 viene iscritta la cessazione dalla carica di amministratore unico di Perito Sergio e la nomina alla stessa di Battaglia Giuseppe.