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QT n. 9, 3 maggio 2008 Servizi

Laura: il pacifismo sul campo

In Cisgiordania con “Operazione Colomba”: a "scortare" disarmati i civili palestinesi per evitare che siano oggetto di attacchi.

Tutti pacifisti. Almeno a parole. Chi è infatti che non si dichiara a favore della pace? A parte i militari e i loro simpatizzanti, quello della pace è probabilmente un ideale che, almeno a livello di principio teorico, mette d’accordo tutti. Ma è altrettanto evidente che, per la gente comune, questo consenso si traduce al massimo in qualche comportamento più o meno visibile: dall’esporre la variopinta bandiera pacifista sul balcone di casa, al partecipare a qualche marcia, dal firmare appelli per questa o quella causa, a sforzarsi di ottenere un’informazione il più possibile corretta e dettagliata sugli argomenti di politica internazionale. Ma se ci sono i professionisti della guerra, ci sono anche i professionisti della pace, cioè coloro che non si fermano ai proclami ma fanno della pace una scelta di vita. Laura Ciaghi 34 anni originaria di Trento è entrata in ‘Operazione Colomba’ nel 2004 e da allora ha trascorso in Palestina quasi due anni. E, quando questo articolo andrà in stampa, sarà tornata in Palestina, questa volta con i C.P.T., Christian Pacemaker Teams.

Ma nella sua storia personale ci sono tante esperienze particolari: un impiego (poi abbandonato) in Comune a Vigo di Fassa e una lunga esperienza di vita comunitaria con delle amiche, una marcia da Assisi a Roma nella forma di "itineranza senza denaro" alloggiando in conventi o parrocchie e vivendo della generosità di chi incontri per via e il cammino di Santiago de Compostela, portato a termine con gli stessi principi del precedente per "provare a mettersi in una condizione di necessità, abbassare il livello dei propri bisogni, affidarsi agli altri". Ma pensare a lei come ad una ragazza pia e un po’ stravagante è sbagliato: Laura è una ragazza perfettamente inserita nel suo tempo e nel mondo, ha una formazione scientifica ed è un tipo concreto e deciso. Una laurea in scienze forestali con una tesi sul "cambiamento nella gestione delle foreste a seguito della trasformazione del sistema economico totalitario alla democrazia di mercato", l’ha portata in Ucraina per sei mesi; un’esperienza forte, dove si è subito dovuta confrontare con i poteri, piccoli e grandi, che governano il mondo e col fatto che basta poco per dar fastidio a qualcuno e venire minacciati. In seguito, la tesi di master sullo sviluppo rurale la conduce nel 2003 in Guatemala, dove tocca con mano gli orrori di una guerra civile di cui lei, e il mondo da cui proviene, ignorano tutto o quasi. Un conflitto durato 36 anni, in cui ormai è assodato che vi erano pesantemente coinvolti gli USA, tanto che nel 1999 il presidente Clinton dichiara pubblicamente che "è stato un errore l’aver supportato le forze guatemalteche anti-insurrezionali che si sono macchiate di sistematiche stragi di civili e violazioni di diritti umani".

Un giorno capitai in un paese dove erano stati uccisi tutti; - dice Laura - tutte le 80 persone che abitavano in quel villaggio erano state ammazzate e mi sono resa improvvisamente conto che io non sapevo niente di quella storia e di quella guerra civile che era durata quasi quarant’anni. Erano avvenimenti terribili, quelli che mi raccontavano le persone che avevo davanti, avvenimenti che mi riportavano sinistramente alle nostre stragi fasciste, di cui avevo letto tanto. E allora mi venne spontaneo chiedermi: ma oggi cosa sta succedendo nel mondo di cui io non so nulla e di cui invece dovrei occuparmi?"

Da dove viene questa tua sensibilità?

"Penso sia un lato del carattere, ma in parte anche una questione di storia famigliare. Mia mamma era stata sfollata e si ricordava dei bombardamenti di Trento (nell’aprile del 1945, quando venne colpito anche il Duomo, n.d.r.) e mi parlava spesso della guerra e di quelle vicende. Inoltre la mia nonna materna era di origini ebraiche e l’attenzione per le vicende di quel popolo era costante".

Ti senti ebrea?

"Io sono un miscuglio di sangue e storie diverse, mi sento cittadina del mondo e non di un mondo in particolare. Nella mia famiglia, a parte la nonna ebrea, ci sono avi francesi e ungheresi, ma io mi sento trentina, orgogliosa di appartenere ad una terra che è un crocevia dell’Europa. Montagne e valli le vedo come punto di incrocio e di contatto tra culture diverse e non ostacoli all’incontro e all’apertura verso l’altro".

Perché hai scelto ‘Operazione Colomba’?

"Dopo il Guatemala cercavo un progetto di cooperazione dove poter impegnarmi, ma non avevo le idee ben chiare e stavo vagliando alcune proposte. Però non pensavo ancora a partire, a quel tempo avevo in mente di aprire uno studio come dottore forestale. Ma sulla cooperazione avevo dei punti fermi: non avrei accettato di entrare a far parte di un gruppo che avesse una visione che non condividevo perché anche in quell’ambiente c’è chi ha in testa modelli colonialisti. Invece ‘Operazione Colomba’ era molto più vicina al mio modo di vedere e di sentire, così nel luglio del 2004 partecipai ad uno dei loro corsi di formazione. Mi interessava sapere qualcosa di più dei corpi civili di pace e capire che cosa può fare il singolo per favorire lo sforzo verso un mondo senza violenza. Poi, man mano che i giornipassavano, mi sembrava scorretto essere lì a fare il training ed escludere a priori la possibilità di una partenza. Concluso il corso, ho cominciato a pensare sul serio a diventare una di loro. La possibilità è arrivata pochi mesi dopo e a dicembre sono partita".

Dove sei andata?

"Io sono sempre stata in Cisgiordania, un po’ ad Aboud che si trova ad ovest di Ramallah, ma principalmente ad At Twani, un villaggio di circa 150 abitanti sulle colline a sud di Hebron, dove sto per tornare. Ad At Twani dal 2004 c’è un progetto condiviso portato avanti insieme da ‘Operazione Colomba’ e dai C.P.T.".

In che cosa consiste il progetto?

"Il progetto in generale consiste nell’accompagnare e sostenere la resistenza nonviolenta palestinese nell’area delle colline a sud di Hebron. La resistenza nonviolenta può assumere molte forme, ma quella prediletta dalle comunità del posto consiste nel rimanere a vivere sulla propria terra, nonostante l’occupazione militare e la presenza di colonie illegali con residenti estremisti e violenti che rendono molto difficile – per non dire impossibile – la vita quotidiana. Noi affianchiamo i palestinesi in una rete che si basa sulle comunità locali, ma poi si allarga a comprendere molte associazioni israeliane. In concreto, siamo impegnati in alcune attività quotidiane, tra cui il monitoraggio di un gruppo di bambini che vengono a scuola ad At Twani da Tuba, un villaggio vicino. Per arrivare ad At Twani i bambini devono attraversare un territorio pericoloso, dove hanno subito spesso attacchi dei coloni israeliani insediati in quell’area. I bambini vengono scortati dall’esercito israeliano, noi li controlliamo a vista – non possiamo avvicinarci, né affiancarli nel cammino – ma ci teniamo a portata di binocolo, verificando passo passo che cosa succede e, quando necessario, contattando la scorta".

Perché proprio lì e non altrove?

"L’invito a intervenire ad At Twani è arrivato nel 2004 da Ta’ ayush ("Convivenza"), un’associazione arabo-israeliana nata nel 2000 per favorire la coesistenza pacifica ed abbattere i tanti muri fisici e mentali tra i due popoli. ‘Operazione Colomba’ accettò subito la proposta e concretizzò la presenza insieme a C.P.T., il progetto continua quindi da circa quattro anni. L’invito venne avallato e confermato dalle comunità palestinesi locali che sono ancor oggi il nostro partner fondamentale e sono quelle che decidono della prosecuzione o meno della nostra presenza".

Cosa è cambiato da allora ad At Twani?

"Molte cose. Quando la scorta è iniziata, nell’ottobre del 2004, i bambini che si recavano a scuola erano 5, adesso sono 25. Inoltre affianchiamo anche altre persone, che ce ne fanno richiesta, nell’attività quotidiana. La loro vita, da quando ci siamo noi, è più sicura, e a dirlo sono prima di tutto loro. E poi ci sono l’incontro e le relazioni, sia personali che economiche, che si sono instaurate in questi anni tra noi e loro, il che, per un villaggio così piccolo, non è poca cosa".

Come si svolge la vostra giornata?

"La sveglia è alle 6, chi è di turno (almeno due, ma di solito quattro persone) si avvia verso Tuba per il monitoraggio dei bambini. In tarda mattinata il copione si ripete, a ritroso. Inoltre seguiamo gli agricoltori nei campi, o i pastori, dipende dagli interventi che ci richiedono. Alcuni abitanti hanno i campi in zone pericolose, dove sono frequenti gli attacchi del coloni ebraici. Inoltre facciamo monitoraggio ai check point, presenza alle attività militari e documentiamo il più possibile le attività illegali dei coloni, dei militari e della polizia. Poi c’è il rapporto con i media palestinesi, israeliani e internazionali e lo sforzo costante per tenere i contatti con gruppi e organizzazioni locali e internazionali. Altro fronte è quello della partecipazione alle azioni dirette non violente (come la rimozione di un blocco stradale) che avvengono circa con frequenza settimanale. Alla sera invece cuciniamo e ci prepariamo per il giorno dopo. Spesso visitiamo qualche famiglia e a volte partecipiamo alla vita sociale del villaggio. O ci concediamo un po’ di tempo per noi".

Dove vivete?

"In una casetta di 4 metri per 7, costruita da volontari israeliani su terreno di una famiglia palestinese a cui paghiamo l’affitto. Abbiamo il pozzo esterno e la luce elettrica per alcune ore al tramonto. Con una casa così piccola a volte le dinamiche di gruppo (composto da quattro ad otto persone, dipende dai periodi) sono difficili e così da Pasqua all’autunno dormiamo all’aperto, anche per avere fisicamente più spazio. Ogni otto-dieci giorni abbiamo due giorni liberi e di solito ci spostiamo a Hebron o a Gerusalemme, per cambiare ambiente e vedere facce e luoghi nuovi. Quando ci muoviamo, lo facciamo sempre con i mezzi pubblici, una scelta precisa, perché la condivisione è un nodo cruciale e ci sforziamo di vivere come tutti i palestinesi, anche se è uno sforzo simbolico, perché la difficoltà del loro quotidiano – a cominciare proprio dalle restrizioni sul movimento – non ha paragone con il nostro status, rispetto a loro molto privilegiato, di internazionali".

Cosa pensano i palestinesi di voi?

"All’inizio c’era da parte loro sospetto, curiosità, timore. Non capivano cosa facessimo là: la perplessità era probabilmente il sentimento più diffuso. Adesso, dopo quattro anni di progetto, molte cose sono più chiare, sia per noi che per loro. Sono nate modalità di lavoro condivise, create dalla pratica comune e si sono creati dei legami forti, anche di amicizia. Per alcuni io sono semplicemente ‘Laura’. E comunque adesso in paese si dice di noi ‘Quelli sono cristiani, ma buoni’".

E gli israeliani?

"La società civile israeliana ci conosce poco e soltanto attraverso i media, che ci descrivono come estremisti che appoggiano la resistenza armata. I coloni poi ci vedono come fumo negli occhi, perché con noi fra i piedi non possono agire in modo indisturbato come vorrebbero. Tuttavia ci sono molte associazioni e gruppi israeliani che con modalità e approcci diversi lavorano contro l’occupazione e la militarizzazione del proprio Paese, a fianco e in coordinamento con la resistenza nonviolenta palestinese. Con alcuni di questi gruppi collaboriamo e con alcune persone sono nate relazioni e amicizie significative".

i è mai capitato di trovarti in situazioni particolarmente difficili?

"Molte volte, fin dall’inizio del mio primo periodo in Palestina, ci sono stati dei pestaggi dei nostri a cui non ho assistito direttamente, ma che naturalmente hanno avuto un forte impatto anche su di me. Io stessa poi sono stata malmenata dai soldati israeliani che mi hanno confiscato la macchina fotografica, che non ho più visto. Un’altra volta mi hanno arrestata per aver scattato fotografie ma, arrivata alla stazione di polizia, hanno dovuto rilasciarmi perché non potevano accusarmi di nulla. L’abuso di potere è all’ordine del giorno, l’esercito fa quello che vuole nei territori occupati, non esiste alcun tipo di controllo e tutto è lasciato al singolo e alla sua coscienza".

Quanto dura il vostro periodo di servizio e quanto vi pagano?

"Facciamo tre mesi sul campo e un mese a casa; di più non si resiste, la tensione a cui si è sottoposti è molto alta. Abbiamo vitto e alloggio, i biglietti aerei e 300 euro al mese di rimborso spese".

Non è un "mestiere" che si fa per soldi. Per che cosa si fa?

"Per condividere le sorti di chi è sfortunato e oppresso, in Palestina e in tanti altri altrove. Perché c’è chi dall’oppressione trae vantaggio e ci sono tanti che tacciono e si girano dall’altra parte per non vedere. Ecco, io non voglio essere fra questi".

Come vedi il tuo futuro?

"Non ho idee precise. Mi piacerebbe anche farmi una famiglia e in quel caso dovrei fermarmi in Italia, avere una vita più ‘normale’, con un lavoro e una residenza stabile. Ma nei corpi civili di pace ci si può tornare comunque, anche per brevi periodi o durante le ferie, perché la pace e la non violenza restano comunque un punto cardine della mia vita".

Grazie Laura. Grazie a nome di tutti noi che la pensiamo come te ma viviamo da questa parte della barricata.