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QT n. 1, gennaio 2013 Seconda cover

Il popolo dei senza Chiesa

Viaggio nella prima generazione incredula che vive un rapporto intricato con la religione. Giovani che prendono le distanze dalle pratiche della fede e guardano a una nuova spiritualità.

Jacopo mi chiede se appartengo al movimento Comunione e Liberazione. Linda scruta attraverso le sue grandi lenti i miei tratti somatici e ipotizza la mia professione: l’insegnante di religione. Fare breccia nel pianeta giovani per esplorare le pieghe dei loro sentimenti religiosi si rivela un’impresa ardua. Appena butto lì il tema colgo sguardi smarriti, smorfie che si traducono in sbadigli. Muri celati dietro un secco “No, grazie!”. All’Università raccolgo parecchi indirizzi mail di volenterosi disposti a discettare sul tema, peccato che al momento dei contatti si rivelino per lo più fasulli. Sono convinta che qualsiasi argomento di natura scientifica sarebbe stato più azzeccato e seducente per i ragazzi interpellati, ed io non avrei vissuto il ruolo dell’intervistatrice aliena. Eppure è proprio questo loro sguardo distaccato dal cielo che m’intriga nel profondo e mi spinge a incedere in quest’inchiesta. Un incedere lento, fatto di conversazioni con ragazzi fra i diciotto e ventinove anni, spesso senza la soggezione di un microfono. Parole che a volte faticano a uscire, perché non è facile né esprimere né carpire la trama che li lega all’Assoluto.

Quale Dio?

“Se sei una religiosa che cerca proseliti hai sbagliato proprio persona. A casa mia non trovi né crocefissi né foto dei santi” - esordisce con tono vibrante Valentina, una ragazza minuta ma tutta pepe. Incontro moltissimi atei in questo piccolo viaggio dello spirito. Mi ripetono a chiare lettere questa frase: “Io vivo bene anche senza Dio, di lui non sento mai il bisogno”.Osservo in questi ragazzi una reazione comune: vogliono giocare a carte scoperte, carpire il mio orientamento religioso. Perché la loro scelta è a lungo meditata e arriva spesso dopo percorsi tortuosi. È un guscio dentro il quale fluttuano molte sicurezze e non vogliono essere giudicati, tantomeno da una semplice giornalista. Di primo acchito avverto una presa di distanza nei miei confronti, che si accorcia quando capiscono che non voglio certo imporre contaminazioni o metterli all’indice. “Ho avuto diverse esperienze cattoliche prima di diventare ateo, sono stato anche negli scout, - commenta Denis - il mio ateismo è frutto di lunghe riflessioni e ragionamenti intimi. Sono giunto alla conclusione che Dio è solo una costruzione mentale atavica che creiamo per essere protetti dalle evenienze naturali, siano esse catastrofi o la morte”.

Colgo in molti giovani senza Dio un significato profondo che ha il sapore di una catarsi. Un recidere i laccioli da una fede percepita come non autentica. Una sensazione palpabile di liberazione che è ben espressa dalle parole di Martina: “È finita per me l’epoca del devi fare la comunione, la cresima e poi tutti quei riti di cui non ho mai capito il significato. Ora mi sono tolta un peso e non ho più quel senso di estraneità. Adesso credo solo nel mio destino, perché le cose vanno come devono andare e Dio non c’entra proprio niente”.

Nel fluire di questi pensieri in libertà un dato statistico irrompe nella mia mente: il 75% dei giovani italiani si definisce cristiano cattolico. Nel mio piccolo campione incontro rari casi che rientrano un questa tipologia. Un dubbio subito mi assale: non è che l’etichetta di cattolico sia esibita dai più solo per un senso di appartenenza alla tradizione? In effetti quando scavo in profondità nelle sembianze del loro Dio scopro spesso un credere senza appartenere. Un contatto diretto e senza mediazioni con un’entità superiore. Una forza universale che può stare ovunque. Un’ottima stampella per la vita, ma che non fa riferimento a nessuna religione. “La sento dentro di me e mi collego ogni volta che ne ho bisogno, nei momenti difficili ma anche in quelli belli - spiega Marco -. La sento come la forza dell’amore. Ciò mi spinge a meditare spesso o pregare in intimità”. Dentro questa energia superiore vagano a volte alcune reminiscenze cattoliche, frutto di anni di alfabetismo religioso coltivato con cura nell’infanzia o pubertà. Tracce che non si cancellano con un colpo di spugna, radici che affondano nella tradizione ove si è nati. Lo spiega in modo chiarissimo Silvia: “Anche il mio Dio è universale e non c’entra nulla con quello cristiano, però nel pozzo dell’educazione cattolica ricevuta da bambina mi va di attingere i concetti di paradiso e inferno. Perché il giudizio finale non mi fa paura, giacché non ho mai fatto male a nessuno. Però voglio che la gente cattiva sia punita”.

Mentre vago nel credo dei giovani, così ricco di sfumature, intuisco che nessuno teme il pluralismo religioso, perché non esiste più un’unica Verità. Anzi, mi pare che i ragazzi navighino già oltre questo mare. Spesso la fede si fonde con correnti spirituali nuove, perché non si bada più all’involucro esterno, ma a ciò che tocca nel profondo le corde dell’anima. Michele questo concetto lo esprime in modo eloquente: “ Io credo in un mio Dio universale e non cristiano, però questo contatto con le energie dell’universo le ritrovo anche quando pratico il Reiki. Con questa disciplina tu diventi il conduttore di un’energia cosmica che poi trasporti anche fuori di te”.

Una religione “fai da te”

Fatico molto a seguire il filo che traccia la biografia spirituale di questi ragazzi, perché nulla è lineare. Il filo si avviluppa, poi si spezza, e di nuovo si riannoda. Capisco che se voglio connettermi con loro devo togliermi dalla testa molti schemi, residui di una religione tradizionale ormai polverizzata. Tolti i paletti, inizio a cogliere le sfumature di una fede “patchwork”, cucita addosso su misura.

Scorgo Matteo dalla finestra. Salta agli occhi il suo fisico palestrato con pettorali ben in vista. Quando scorrono le parole e incontro i suoi occhi azzurri profondi, intuisco che allena molto anche i muscoli della sua anima. D’un tratto la sua immagine davanti a me si sdoppia. Lo vedo nei panni di un alchimista che mescola con destrezza varie misture. Non ha paura di maneggiare nuove essenze e il risultato è un’identità spirituale ibrida, dai contorni inafferrabili e indefiniti. Ma questo a lui poco importa. Ciò che conta è che questo intruglio serva a farlo stare bene. A placare dubbi e ferite dentro di sé. Matteo però non è solo un alchimista ma anche un viandante dello spirito che acchiappa al volo ogni stimolo per aprire nuovi varchi: “Oggi i ragazzi cercano più spiritualità che religione. Io ho un contatto con gli angeli, intesi come figure spirituali superiori non legate al cattolicesimo. Loro possono comunicare con noi attraverso sequenze di numeri che hanno un preciso significato che io trovo in alcuni testi. Per esempio, questa mattina ho ritrovato più volte negli scontrini di una vecchia giacca lo stesso numero, che simboleggia il dialogo spirituale, e dopo un’ora è arrivato il tuo invito all’intervista. Non me ne frega se qualcuno ride di ciò. Perché una cosa è certa: mi dà molta sicurezza. Io sperimento tante vie per trovare la mia strada. Adesso sono appena tornato da un viaggio in Nepal e il buddismo m’intriga parecchio, vorrei provare a frequentare un centro qui in Trentino”.

La Messa è finita

La piccola chiesa attira il mio sguardo per i colori vivi degli affreschi appena restaurati. Dentro, lo spazio è gremito per la funzione della domenica. Uomini canuti accorrono vestiti a festa, mentre molte vecchine, già chine sui banchi, sanno ancora esprimere quella patina di pia devozione. Dall’altare il giovane prete ce la mette tutta per trascinare il suo popolo. La sua vitalità fa dimenticare quei riti polverosi officiati da parroci attempati, fiaccati da troppi anni di servizio. Eppure tra i banchi i giovani latitano. Bastano le dita delle mie mani per fare due conti: otto adolescenti che si aggirano tra i quattordici e sedici anni. Nessuna traccia di ventenni o trentenni. Mi balza in mente la frase del teologo Armando Matteo: “Hanno semplicemente imparato a cavarsela senza Dio e senza Chiesa”.

Ma se i giovani non hanno più antenne per captare il messaggio di felicità di Gesù Cristo e prendono le distanze dalle pratiche di fede, non è solo frutto di una secolarizzazione che investe molti Paesi a ogni latitudine. C’è, infatti, una nuova percezione nel modo d’interpretare la Chiesa che pulsa in questi ragazzi. È palpabile il sentimento di lontananza verso un’istituzione bollata come anacronistica che anela più alle mire del potere che a parlare di Dio. Le critiche che escono dalle loro bocche sono lucide e spietate: “A Cristo prenderebbe un colpo nel vedere come si è ridotta la Chiesa oggi - s’infervora Andrea -. Di certo lui non avrebbe voluto tutta questa struttura gerarchica fatta di preti e vescovi, giacché è nato umilmente in una stalla. Non sopporto quando la Chiesa utilizza il suo potere per entrare a gamba tesa nelle faccende private quali sessualità e fecondazione. Non ha ancora capito che la gente su questi temi vuole libertà di coscienza. Io spiego tutto ciò con il fatto che è una religione da frustrati e i dettami morali riflettono queste frustrazioni. Chiedo ai dirigenti ecclesiali di darmi giustificazione nelle Sacre Scritture di tutte le assurdità che stanno compiendo, celibato dei preti e intolleranza verso i gay in primis”.

Ma non è solo l’ingerenza della Chiesa nelle scelte intime a essere mal sopportata dai giovani. C’è un porre incessante sotto i riflettori la sua immagine opulenta. E qui i toni non sono solo critici, si fanno davvero rabbiosi. Perché la Chiesa non può predicare bene e razzolare male. La sua ricchezza è la cosa che più balza agli occhi e crea una voragine. Sara lancia qualche strale con tutta la forza che ha in gola: “Loro fanno i soldi ed io faccio la fame. Hai visto il Papa l’altro giorno con il vestito d’oro e i super anelli?Avete mai messo piede in seminario a Trento? All’entrata le sontuose pareti sono rivestite di marmo luccicante fino in cima. Che schifo! È uno smacco alla povertà incredibile. È questo il messaggio evangelico che insegnano ai pochi preti in erba? Col cavolo do alla Chiesa l’otto per mille!”.

Di fronte a tanta incredulità dei giovani nel vivere il loro rapporto con la fede faccio fatica a proseguire l’intervista discettando sul perché abbandonino i riti o non vadano a messa. D’un tratto mi sembrano questioni antidiluviane, da maestrina con bacchetta. Avverto che i ragazzi sono lontani anni luce da questi riti formalizzati dal loro sguardo spento alle mie domande. Valentina con il suo fare energico pare intenzionata a riportarmi alla realtà: “Con tutte le contraddizioni della Chiesa che ti ho espresso e con tutti gli stimoli belli e nuovi che ci sono fuori, mi dici perché dovrei alzarmi alle otto per andare a messa? Secondo me è un’ora buttata per ascoltare letture sempre uguali e canti che ti fanno morire. Se dovessi seguire il mio istinto, farei una cosa rock tipo ‘Sister Act’. La gente che ci va per consuetudine mi fa solo pena”.

Percepisco che in una fede “fai da te”, ove ognuno guida le redini del suo spirito, parlare di riti preconfezionati abbia perso seduzione. Le tracce di una ritualità vuota affiorano spesso anche nei racconti degli atei che hanno vissuto precedentemente qualche impronta cattolica. Mattia esprime tutto il suo senso di estraneità: “Quando ero scout mi cuccavo parecchie messe. Ancora oggi mi fa accapponare la pelle quando le persone ripetono le frasi rituali senza capirne il senso. Mi chiedo come faccia la gente a seguire come pecore riti ridicoli”.

Chi ha paura della morte?

Nella navigazione tra questo popolo senza chiesa e spesso senza Dio, mi stuzzica la voglia di capire come i giovani affrontino certe ansie esistenziali. Parlare di un evento imprevedibile come la morte con ragazzi che sprizzano gioia di vivere da ogni poro può sembrare fuori luogo. Eppure dai loro racconti colgo che il tema è tutt’altro che messo in soffitta. Mi chiedo allora come si siano attrezzati per elaborare questo concetto, privi di quell’anelito alla vita eterna che rassicura gran parte dei cattolici cristiani. Scopro che ognuno ha elaborato le proprie strategie per esorcizzare quest’aspetto. Igor segue un orientamento filo buddista e crede nella reincarnazione. La morte non lo spaventa, anzi può essere una liberazione: “Lasci questo vestito e ti liberi di tutti i pensieri e dal materialismo. Quindi è solo un trapasso buono”.

Molti atei ripetono che non serve aggrapparsi alla fede per gestire questo passaggio naturale. I più si augurano di tramutarsi solo in un “buon concime”. Poi, grattando sotto la superficie, scopro che molti ragazzi senza Dio hanno una scialuppa di salvataggio: la filosofia epicurea. “È semplice - sintetizza Denis - come dice un filosofo quando ci sono io lei non c’è, quando c’è lei, non ci sono io”. Insomma, l’ombra della morte mai ci tocca e il problema caso mai lo giriamo ai nostri cari. Ringrazio Denis per avermi rammentato questo concetto. Anch’io all’Università lo rubai da un libro di Epicuro e ripetuto come un mantra, oggi come allora ha su di me lo stesso effetto tranquillizzante.

La testimonianza di una cattolica

Scovare un giovane cattolico, che vive ogni giorno con forte coinvolgimento la propria appartenenza religiosa attraverso tutte le pratiche della fede, è come cercare un ago in un pagliaio. Solo dopo aver sguinzagliato parecchi intermediari arriva il fatidico incontro con Giulia.

Lei è fiera di essere una cattolica fervente e ci tiene a mandare un messaggio positivo a chi si pone i dubbi del credere. Ecco la sua testimonianza: “I miei genitori sono molto credenti. Crescendo anch’io mi sono ritrovata nel messaggio cristiano. Lavoro in un ambiente di estrema sinistra con rifugiati e richiedenti asilo, quindi credo molto nell’etica e nella difesa dei diritti umani. In tal senso il messaggio di Cristo dopo duemila anni è ancora rivoluzionario e attuale. La mia fede mi fa sentire felice e completa, perché non ci si deve fermare solo sulle quattro cose che si dicono dei cattolici: la povertà, l’umiltà ecc. Credere in Dio per me significa anche avere uno sguardo profondo sul mondo.

Nella mia professione incontro un sacco di atei e agnostici e voglio che mi percepiscano come una persona bella dentro, responsabile, che non si accontenta della superficie. Molti si stupiscono che io sia una cattolica e dicono: ‘Non è una sfigata, però va in chiesa’. Ho passato l’adolescenza a vergognarmi del fatto che andavo a Messa. Ora questa fede la sento forte e se ho raggiunto obiettivi importanti e mi sono posta molte domande è grazie ad essa.

Sono laureata in arabo e ho frequentato tantissimo le moschee e il mio moroso è un kosovaro musulmano. Spesso noi cattolici non siamo fieri della nostra fede e per questo abbiamo timore di interagire con i musulmani. I quali sono convinti fin troppo del loro credo, mentre noi abbiamo perso identità, non sappiamo più chi siamo.

Certo, la Chiesa è fatta di uomini e fa delle belle stronzate. Neanche a me piace la pedofilia o l’opulenza. Però c’è una Chiesa che fa meno clamore e merita di essere valorizzata: quella che vive in modo povero tra i poveri.

Io appartengo al movimento ecclesiale carmelitano e ogni settimana faccio incontri con i ragazzi della mia età. So che molti percepiscono i cattolici come una massa di caproni che vanno in chiesa, fanno i riti ed escono tutti contenti. Io dico che dipende da come uno ci sta in chiesa. Certo c’è anche la ragazzina che ci va per obbligo. Io lì sento veramente Dio nella mia intimità più profonda e soprattutto non ho bisogno di fingere se sto bene o se sto male. Mi sento totalmente libera.

I riti per me hanno ancora il loro significato. Se recito il credo ho un dialogo con Dio. Il pane rappresenta una persona che ha dato la vita per me.

Per quanto riguarda i dettami morali, io vivo liberamente i rapporti con il mio ragazzo e non ho mai trovato un prete che mi dica che sono una sporcacciona. Però se io vivo la fede come una dimensione che coinvolge tutte le sfere è chiaro che m’influenza anche nella politica.

Una fede forte non può essere totalmente avulsa dalle scelte che fai nel quotidiano”.

Il commento di un intellettuale cattolico

Molti spunti interessanti emergono da questa inchiesta su giovani e religione. Aspetti noti e meno noti quali la difficoltà a parlare pubblicamente delle proprie convinzioni, il progressivo allontanamento dalle fedi tradizionali, il bisogno di spiritualità ma anche il diffondersi di una visione semplicemente naturalista, un vago retaggio cattolico che si può cogliere per paradosso dalle critiche trasversali rivolte alla Chiesa.

Partendo da quest’ultima considerazione si nota che, pur essendo ormai immersi in un mondo multiculturale segnato dalla presenza di varie opzioni etiche e spirituali, la maggioranza dei giovani sostenga anche senza volerlo l’equazione “religione uguale cristianesimo uguale cattolicesimo (romano) uguale Vaticano uguale Papa”. Un modello frutto di un’ignoranza religiosa dilagante per cui, almeno nelle parole di alcuni (che a mio parere sono moltissimi), si coglie l’eco dell’eco di un cattolicesimo ormai superato oppure completamente travisato o non capito.

I giovani arrivati alla maggiore età si sentono spesso “liberi” di non dover partecipare a riti di cui non comprendono il significato e che sono giudicati ammuffiti e ripetuti soltanto per tradizione. In effetti la Messa (unico rito che i giovani sembrano conoscere almeno per sentito dire, anche se il cristianesimo ne contempla molti altri) è una celebrazione complessa e articolata, stratificata nel corso dei secoli, con segni di difficile comprensione e avulsi dalla mentalità corrente. Certo ci sono i canti stonati, le prediche soporifere, il clima generale di decrepitezza che allontana i giovani. Ma è soprattutto il travisamento o la non conoscenza del messaggio cristiano a determinare l’indifferenza. Alcune verità dogmatiche, come l’inferno o il paradiso, permangono nell’immaginario collettivo ma finiscono per essere ridicolizzate o costruite secondo le proprie idee individuali; altre più centrali, come la risurrezione, sono completamente ignorate. Molti se la prendono con la Chiesa istituzionale, vista molto spesso a ragione come un organismo di potere, che si intromette troppo nelle vicende personali e nella politica, percorsa da scandali che vanno dalla finanza alla pedofilia. Pochissimi conoscono il Vangelo e la figura di Gesù di Nazareth.

La minoranza ha una visione atea o agnostica o comunque frutto di una legittima scelta matura e consapevole. Il resto è indifferenza, bisogno di acquistare qualche prodotto al supermercato del sacro, divenuto ora globale grazie a internet. Poi si miscela tutto in una spiritualità “fai da te”, così tipica del mondo contemporaneo. Ma pure così fragile.

Piergiorgio Cattani

Il commento di un sociologo della religione

Non ho avuto dubbi in questa giungla con mille credi a contattare Franco Garelli. Forse perché un tema così inafferrabile richiede uno sguardo particolarmente sensibile. Docente di Sociologia della religione presso l’Università di Torino, ha pubblicato vari saggi che ci aiutano a cogliere le sfumature più intime del credere. Nel suo ultimo libro “Religione all’italiana”, edizioni il Mulino, ci offre uno straordinario spaccato sui modi di vivere la fede in Italia.

Si dice che la nostra epoca sia quella della morte di Dio. Qual è il suo parere?

“Bisogna fare una precisa distinzione fra gli atei indifferenti al tema di Dio e i senza religione. Questi ultimi, magari per esperienze negative vissute negli ambienti religiosi, rifiutano di appartenere a una chiesa o a una religione storica. Spesso anticlericali, combattono il formalismo delle chiese tradizionali. Il 45% degli europei si dichiara senza religione, ma ciò non significa che siano senza Dio, poiché credono comunque in un’entità superiore e trascendente. In Italia l’ateismo si aggira al 18%. Diciamo che sono molto diminuite le fedi religiose certe e aumentate quelle dubbiose e altalenanti”.

Nei ragazzi interpellati ho colto un’eclissi della fede a fronte di un anelito alla spiritualità che batte forte. Che ne pensa?

“Indubbiamente i giovani esprimono più un bisogno di spiritualità che di fede. Però sono spesso percorsi vissuti soggettivamente o al massimo con piccoli gruppi di amici. Ho rilevato nelle mie indagini come questi percorsi rappresentino più un punto di riferimento ideale che un vissuto in termini concreti. Un anelito, un’istanza, senza un vero approfondimento. Certo trovi i ragazzi che seguono la filosofia del Karma, ma spesso brancolano nel buio, senza comprendere le implicazioni profonde di una disciplina. Sovente orecchiano certi temi, nel tentativo di migliorare se stessi”.

Quali forme assume la fede nei giovani d’oggi?

“Il bricolage del loro credo è frutto del nostro tempo. Ci sono molte proposte e c’è un bel disorientamento. Ognuno attinge qua e là, in base a ciò che è funzionale alla propria realizzazione e rassicurazione. La fede è sempre più frutto della scelta e dell’esperienza diretta, perciò in futuro ci saranno sempre più polarizzazioni fra credenti motivati e no. Oggi i giovani riescono a trovare un senso profondo in molte altre realtà affettive e di amicizia. Il percorso soggettivo dei ragazzi si rispecchia anche nei riti. La preghiera individuale e la meditazione sono molto praticate perché aiutano l’auto riflessione e portano ordine nella propria esistenza. Permettono di lavorare sul proprio sé. La preghiera non è più quella standardizzata ma un dialogo personale.

Il nostro resta un paese dalle piazze piene e chiese vuote. Resiste l’attrazione dei giovani per i grandi eventi religiosi, perché è una cosa che scalda il cuore, crea passione, specie con un leader carismatico”.

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Commenti (1)

dispiaciuto

L'articolo sarebbe stato più completo se avesse dato voce anche a giovani cattolici che seguono il Papa e il Magistero e che ne condividono gli insegnamenti anche, per esempio, nella morale sessuale. Pazienza, un'occasione persa.
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