Menù
Home
QT
Questotrentino
Mensile di informazione e approfondimento
Utente
Cerca
QT n. 10, ottobre 2013 Seconda cover

L’uomo del clan

Le infiltrazioni della criminalità in Trentino secondo Luigi Bonaventura, ex 'ndranghetista.

Valerio Valentini

“Il Trentino isola felice? Assolutamente sì: per le organizzazioni criminali è un’isola felicissima”. Sceglie l’ironia, Luigi Bonaventura, per dare avvio al nostro dialogo, non appena gli chiedo se sia veritiera la descrizione che spesso del Trentino-Alto Adige fanno alcuni amministratori locali, come di una regione con un alto tasso di legalità ed impermeabile alle mafie.

Luigi Bonaventura

Luigi Bonaventura è un ex ‘ndranghetista di spicco, per anni reggente del clan crotonese dei Vrenna-Bonaventura, che a partire dal 2005 ha deciso di collaborare con la magistratura. Da allora, delle sue rivelazioni si sono avvalse dieci procure italiane (tra cui la Direzione Nazionale Antimafia) e quella tedesca di Stoccarda.

Un collaboratore altamente attendibile, dunque, le cui dichiarazioni hanno reso possibile la conclusione di importanti operazioni contro la mafia calabrese (Heracles, Hydra, Tramontana: solo per citarne alcune), e hanno portato all’arresto di numerosi esponenti delle cosche di Crotone e di diverse altre regioni d’Italia. Anche per questo la sua vita è scandita da assidui incontri con magistrati e avvocati, oltreché dalla costante minaccia di ritorsioni e vendette.

Eppure, quando gli chiedo se vuole rilasciare un’intervista per parlare della presenza delle mafie nel Trentino-Alto Adige, reagisce con entusiasmo: “Accetto per due motivi fondamentali: il primo è che ho avuto parecchi affari lassù, quindi posso parlare con cognizione di causa; e la seconda è che troppo spesso, ancor oggi, si racconta la favola secondo cui certe regioni sarebbero immuni dall’infiltrazione mafiosa. E invece la verità è che il Trentino è un chiaro esempio di mandamento occulto”.

Mandamento occulto?

“Si tratta di quelle zone in cui la presenza delle organizzazioni criminali è forte, ma anche molto silenziosa. Una situazione analoga a quella della Val d’Aosta, insomma, anche se lì, da un paio di anni, si comincia a parlare parecchio della ‘ndrangheta. Il Trentino invece ancora non sembra accorgersi di nulla: le cosche gestiscono molti affari riuscendo a mimetizzarsi alla perfezione, senza richiamare l’attenzione di nessuno. Sfruttano, da un lato, il fatto che difficilmente la cronaca di quella regione raggiunge le prime pagine dei giornali nazionali; dall’altro, la percezione della criminalità organizzata in Trentino è piuttosto bassa, quindi si fatica a riconoscerla e ancor di più a denunciarla. E poi conviene a molti ripetere che a Trento e Bolzano la mafia non c’è, perché ammettere il contrario viene considerato sconveniente: rischierebbe, secondo la logica di certi politici, di fare una cattiva pubblicità alla regione, finendo con l’allontanare investimenti e turisti”.

E invece quali sono le organizzazioni criminali maggiormente presenti in Trentino?

“C’è un po’ di tutto. Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra e Sacra Corona Unita investono da decenni nelle regioni del Nord, Trentino incluso. E quasi sempre raggiungono degli accordi: se prima delle stragi del ‘92-93 la leadership di questa alleanza era rivestita da Cosa Nostra siciliana, da vent’anni è la ‘Ndrangheta calabrese a guidare le consorterie criminali al Nord. Ciò non toglie che le altre mafie possano agire con una certa autonomia in Trentino (e in effetti la prima operazione della procura di Trento contro un’organizzazione criminale di stampo mafioso, l’operazione Bellavista del 2008, portò all’arresto di esponenti della Sacra Corona Unita, n.d.r.), ma è comunque la ‘Ndrangheta ad avere il ruolo dominante”.

La macroregione della ‘Ndrangheta

Quando ha inizio l’infiltrazione della ‘Ndrangheta in Trentino?

“Anzitutto, ci sono da fare due precisazioni. La prima è che è sbagliato parlare di infiltrazione: infiltrazione è un termine che dà l’idea di qualcosa che si insinua in un ambiente senza però stravolgerne le condizioni. E secondo me è un’idea fuorviante. Sarebbe più giusto parlare di colonizzazione, perché di fatto l’azione delle mafie consiste in una vera e propria conquista di settori strategici della vita politica ed economica dei territori su cui investono.

E in secondo luogo non si deve pensare che la ‘Ndrangheta consideri il Nord come diviso in varie regioni. I confini politici stabiliti dallo Stato non equivalgono a quelli della ‘Ndrangheta, che semplicemente non li riconosce come tali. Piuttosto, e soprattutto in passato, le mafie hanno guardato al Nord come a un’unica macro-regione, una sorta di Grande Nord, all’interno della quale muoversi e investire a seconda delle opportunità che di volta in volta si creavano. Detto questo, non saprei dire con esattezza quand’è che la colonizzazione del Trentino abbia avuto inizio. Sicuramente è con i soggiorni obbligati negli anni ‘50 e ‘60 che i boss scoprono il Trentino come possibile terreno fertile.

Quando ero ancora adolescente, vivevo con alcuni parenti a Vicenza, dove facevamo grandi affari con l’edilizia; dei miei zii, invece, si erano stabiliti a Cortina, e lì gestivano vari traffici che spesso riguardavano anche il Trentino e l’Alto Adige. In ogni caso, è nei primi anni ‘90 che gli affari della ‘Ndrangheta in quella regione si fanno cospicui e che il Trentino diventa a tutti gli effetti una zona strategica”.

Addirittura strategica?

“Nel Nord Italia i grandi traffici criminali avvengono grosso modo su due direttrici principali: una, in senso longitudinale, è quella che va da Trieste, cioè dai confini coi Balcani, fino a Ventimiglia; la seconda, invece, è una linea verticale che collega Firenze con i Paesi più ricchi del nord Europa. Per quanto la cosa possa sembrare ininfluente, il Trentino si trova proprio nel punto di congiunzione di queste due direttrici. È naturale che sia uno snodo fondamentale. Ovviamente non è l’unica regione che si trova al centro di questi traffici; ma, a differenza di altre, il Trentino garantisce alle mafie un altissimo tasso di anonimato. Se devo associare una parola al Trentino, immediatamente dico: invisibilità.

Il Piemonte e la Lombardia hanno portato guadagni immensi alla cosche, ma ormai in quelle zone la presenza delle ‘Ndrine è acclarata. In Trentino no, è questo è un vantaggio enorme. Non a caso molti latitanti vanno a rifugiarsi lì quando hanno bisogno di far perdere per qualche tempo le loro tracce”.

Da quale tipo di traffici è interessato il Trentino?

“Principalmente traffici di droga, e mi riferisco soprattutto alla cocaina, e di armi. Seguendo una strategia in voga presso i clan crotonesi, la mia ‘Ndrina aveva sul proprio libro paga alcuni camionisti, che compravano armi nel Nord Europa, dove è possibile acquistare veri e propri arsenali con estrema facilità, senza neppure dover esibire il porto d’armi. Poi le nascondevano negli autotreni e le introducevano in Italia attraverso il Brennero, che rimane uno dei canali più importanti per questo genere di traffici. Ricordo di averla fatta più volte, per affari. E mi colpiva sempre il fatto che i guard-rail fossero arrugginiti. Sono ancora così?”.

Sì, sono ancora così. Ma dunque tu hai gestito personalmente degli affari in Trentino?

Da reggente della cosca Vrenna-Bonaventura, riuscii a creare una mia ‘Ndrina in quella regione, proprio perché capii che era importante avere un avamposto lì. A capo di questa ‘Ndrina c’era Gaetano Frisenda, il fratello del mio braccio destro a Crotone, Pino Frisenda (condannato a 28 anni di reclusione anche grazie alle rivelazioni di Bonaventura, n.d.r.). Si trattava di una ‘Ndrina multietnica, che aveva il suo quartier generale proprio a Trento”.

Cos’è una “Ndrina multietnica?

“Era composta anche da alcuni criminali dell’est Europa, e c’erano ottimi contatti con la comunità africana di Trento, che mi dicevano essere molto numerosa. La ‘Ndrangheta si serve spesso di spacciatori africani, così da vendere grandi quantitativi di droga senza rischiare che i propri uomini vengano arrestati. Questo avveniva anche a Trento”.

Insomma era una ‘Ndrina ben radicata...

“Gestivamo affari importanti. Gaetano Frisenda vantava anche discrete conoscenze con alcuni amministratori locali”.

Collusioni?

“Diciamo che a volte verificava la disponibilità di certi politici del posto a concedere qualche favore. Di più non posso dire, per ora. Comunque poi tutto svanì nel nulla a causa della storia delle rapine”.

Le rapine fanno male agli affari

Di che storia si tratta?

Una parte di quella ‘Ndrina, compreso Frisenda, aveva costituito una batteria che si dedicava a rapine, anche piuttosto clamorose. Agivano soprattutto in Trentino, ma talvolta si spostavano pure in Veneto. Nel giro di quattro anni misero a segno nove colpi, ferendo anche una guardia giurata. Più volte a Frisenda fu intimato di smetterla, perché rischiava di alzare un polverone; ricevetti anche varie ambasciate da parte di altre famiglie che avevano degli affari in zona e che temevano di vederseli sfumare a causa sua. Sta di fatto che nel 2004, dopo una rapina in pieno centro (si tratta della rapina alla Snai di via Maffei a Trento, avvenuta il 3 aprile 2004, n.d.r.), Frisenda venne arrestato assieme agli altri della banda. E questo fece fallire alcuni traffici che avevamo in sospeso. Soprattutto, mi ricordo, una partita di armi militari dotate di silenziatore, oltre alle solite partite di droga”.

Hai parlato di ambasciate da parte di altre famiglie. Quali sono le cosche maggiormente presenti in Trentino? È possibile fare una mappatura della regione?

“Io non ne sono in grado, anche perché ormai è da parecchio che sono uscito dall’ambiente, e l’evoluzione della ‘Ndrangheta nel Nord, in questi anni, è quanto mai rapida. In ogni caso, so per certo che i Grande Aracri, una cosca del crotonese, sono molto attivi in Trentino. Poi ci sono anche i Muto di Cosenza (nel dicembre del 2010 una grande operazione contro il clan Muto ha riguardato anche il Trentino, portando all’arresto, tra gli altri, di un colonnello dei Carabinieri residente a Bolzano, ndr), e varie cosche calabresi che fanno capo direttamente a San Luca (sede della “mamma”, cioè del centro direzionale assoluto della ‘Ndrangheta calabrese, ndr). E in ogni caso, molti clan radicati in Lombardia estendono spesso i loro traffici in Trentino”.

Finora abbiamo parlato soprattutto di traffici di droga e armi. Sono questi i principali affari della ‘Ndrangheta in Trentino?

“Sicuramente non sono gli unici. Il settore in cui la mafia calabrese investe maggiormente in Trentino è senza dubbio il turismo: la zona più interessata è quella intorno al lago di Garda, dove una parte delle strutture alberghiere e residenziali è da anni in mano alle ‘Ndrine. Anche nel settore agricolo - lo ricordo bene - all’inizio degli anni 2000 si prospettavano nuovi possibili investimenti per le cosche, e poi c’è l’edilizia. Ma per quello che ne so io, in Trentino non c’è il monopolio della ‘Ndrangheta sul movimento terra come in altre regioni, come la Lombardia; gli affari maggiori, in Trentino, la ‘Ndrangheta li fa col turismo”.

Il fatto che il Trentino sia una provincia autonoma attira o respinge le cosche calabresi?

“L’autonomia è un’attrattiva enorme per la ‘Ndrangheta. Indipendentemente da come poi quell’autonomia viene gestita, è chiaro che se un politico locale può prendere decisioni molto importanti, decisioni per le quali altrove sarebbe necessario passare per le autorità centrali di Roma, alla ‘Ndrangheta basta corrompere o influenzare quel politico per poter controllare appalti, concessioni e quant’altro. Tutto ciò la criminalità organizzata lo sa, ed è anche per questo che sempre più spesso sceglie le regioni autonome del Nord per fare affari”.

A questo punto la conversazione si conclude.

Ci stiamo già salutando quando Bonaventura riprende il discorso, quasi avvertendo l’urgenza di aggiungere un ultimo particolare: “Ti ho detto che a causa dell’arresto di Frisenda, nel 2004, molti progetti rimasero in sospeso. Subito dopo io decisi di collaborare con i magistrati, quindi dell’esito di quei progetti non ho saputo granché. Però mi ricordo che, proprio nel 2004, stavamo decidendo di investire molto, in Trentino, sul business delle sale slot. Non so bene come è andata a finire. Ce ne sono molte, ora, a Trento?”

Il Procuratore: “Territorio assolutamente sano”

dott. Giuseppe Amato

L’intervista di Bonaventura ci lascia scettici su alcuni punti. Oltre all’approssimazione geografica nell’individuare Trento come intersezione fra la linea del Brennero e la direttrice Trieste-Ventimiglia (a rigore dovrebbe essere Verona, o forse Bologna), ci sono alcune peculiarità della società trentina che è difficile inserire nel quadro tratteggiato dal pentito.

Alludiamo all’infiltrazione nel mondo agricolo, poco credibile in una realtà fatta di cooperative, dove tutti conoscono tutti (tutt’al più, teoricamente, la cosa è ipotizzabile solo nelle società controllate, nei successivi incastri societari di scatole cinesi, nelle operazioni fuori provincia o all’estero), Né ci sembra verosimile l’infiltrazione in gran parte del mondo turistico, specie del Garda, dove gli alberghi sono da decenni di proprietà famigliare e dove sussiste un capillare controllo sociale.

Detto questo, le parole di Bonaventura, a iniziare da quando parla del business delle slot machine, non sono da prendersi sotto gamba. E su questi temi abbiamo sentito il dovere di chiedere il parere al Procuratore della Repubblica dott. Giuseppe Amato.

Il quale, riferendosi al Trentino, ci parla di “territorio assolutamente sano”: “Non ci sono elementi obiettivi per affermare che questa provincia sia oggetto di infiltrazioni da parte della criminalità organizzata”, ribadendo come tutti i sospetti che spesso sono stati sollevati rispetto alla presenza delle mafie non abbiano avuto alcun riscontro effettivo. “Del resto, quando si parla di criminalità organizzata, non si può essere generici: ci si riferisce a dei gruppi di persone che attraverso metodi illegali, tipicamente riconducibili alla modalità mafiosa, perseguono arricchimento e acquisizione di potere. Ecco, questa specifica eventualità in Trentino non si è mai verificata”.

Anche rispetto alla presenza di latitanti di un certo spessore, Amato è piuttosto scettico, e spiega i motivi per i quali il Trentino ha mantenuto una certa impermeabilità alle organizzazioni criminali: “Anzitutto il controllo del territorio da parte delle forze dell’ordine, che qui è più capillare che nel resto d’Italia. Un’altra garanzia è costituita dalla natura del tessuto economico locale, basato su un modello, quella della cooperazione, refrattario all’infiltrazione. E poi c’è l’attaccamento del popolo trentino al proprio territorio, la tendenza a controllarlo e a difenderlo, ed un’alta fiducia nelle forze dell’ordine: l’esatto contrario, dunque, dell’omertà di cui le mafie si nutrono”.

Quello che Amato non si sente di escludere, invece, è che una parte dei proventi della criminalità organizzata vengano investiti in Trentino. Da quel punto di vista, nessun territorio può dirsi immune da fenomeni di riciclaggio. “In ogni caso, con la collaborazione della Guardia di Finanza, sono stati condotti controlli molto serrati sulle rendite patrimoniali di tutti i soggetti con pendenze penali in qualche modo riconducibili a reati associativi. Ma anche in quella circostanza gli esiti delle indagini sono stati assolutamente confortanti. Così come confortante è l’efficienza della normativa che impone a istituti di credito e a notai di segnalare alle autorità giudiziarie eventuali operazioni economiche ritenute sospette sulla base dei parametri stabiliti, tra gli altri, dalla Banca d’Italia. La macchina burocratica a volte è complessa, ma in questo caso è un ottimo strumento nelle nostre mani”.

Ad ulteriore conferma della sua tesi, il procuratore adduce anche l’assenza dei cosiddetti “reati spia”, ovvero di quei reati che possono evidenziare la presenza di attività mafiose: minacce, violenze, estorsioni, attentati e sabotaggi non episodici, ma finalizzati al racket o al controllo di attività, non riguardano la realtà trentina. “Anche per quanto concerne la droga - conclude Amato - di solito si tratta di semplice spaccio gestito da piccoli gruppi: microcriminalità, insomma, non certo mafia. Eviterei allarmismi inutili che poggiano sul nulla”.

E. P.

Parole chiave:

Articoli attinenti

In altri numeri:
La mafia è anche un po’ “cosa nostra”
Marta Tacchinardi

Commenti (1)

@Procuratore Ciccio

Per abitudine non attribuisco mai a malizia quello che puo` essere spiegato semplicemente con superficialita` (o stupidita` in alcuni casi).
Nel suo caso sono perplesso. In veneto e lombardia dicevano le stesse cose: qui si conoscono tutti, il pizzo non lo pagherebbe nessuno, etc. Invece poi si e` scoperto che la 'ndrangheta a milano c'era e che il pizzo lo pagavano anche i commercianti veronesi. Gli ultimi per vergogna non denunciarono l'estorsione all'inizio, quando poteva essere controllata, con il risultato che chissa` quanti ora pagano il pizzo.
Lo stesso stara` succedendo in questi giorni a trento o in qualsiasi zona dove ci sono interesse commerciali. Caro procuratore la mafia non conosce confini regionali. A voler pensare male potrei assumere che lei sia il colluso.
Scrivi un commento

L'indirizzo e-mail non sarà pubblicato. Gli utenti registrati non devono inserire altre verifiche e possono modificare il proprio commento dopo averlo inserito.

Riporta il codice di 5 lettere minuscole scritto nell'immagine. Puoi generare un nuovo codice cliccando qui .

Attenzione: Questotrentino si riserva la facoltà di cancellare commenti inopportuni.