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In cammino verso un paese migliore?

In Mozambico, la piccola storia di Mosè, tra analfabetismo endemico e corruzione dilagante

Andrea Facchetti

Da fine dicembre, dopo cinque anni bellissimi piuttosto intensi a Chemba, mi trovo di nuovo a Charre, dove avevo vissuto tra il 2014 e il 2015. Sono qui temporaneamente, per dare una mano ad un confratello burundese che era rimasto solo. Poi, a fine luglio, tornerò in Italia per le ferie e, al ritorno in Mozambico, andrò in una nuova realtà.

Per noi missionari gli avvicendamenti sono normali. Siamo itineranti, pronti a smontare la tenda e a montarla altrove.

Da un lato non è facile staccarsi quando si mettono radici, dall’altro si impara ad essere liberi e a non attaccarsi troppo ai progetti portati avanti.

Il mio avvicendamento avviene nel contesto di alcuni cambiamenti che interessano noi (pochi) missionari saveriani in Mozambico. Dopo 22 anni di presenza a Chemba, a luglio consegneremo la parrocchia (con le sue 65 comunità, la scuola e lo studentato) alla diocesi di Beira. Si pensa che i tempi siano maturi perché sia la Chiesa locale a proseguire. Coscienti di questo, negli ultimi tre anni abbiamo ristrutturato l’intera scuola e lo studentato. Lasciamo una realtà bella e dinamica.

Dunque, anche se per pochi mesi, eccomi di nuovo a Charre. L’ambiente di questo villaggio di capanne a 20 km dal confine col Malawi è sempre quello della savana. In linea d’aria, Charre si trova a circa 60 km da Chemba, ma sull’altra riva dello Zambesi. Qui serviamo due parrocchie, per un totale di circa 70 comunità. La più distante si trova a circa 200 km di strada sterrata. Non che Chemba fosse New York, ma a Charre è tutto più semplice e povero. Non c’è l’energia elettrica: abbiamo i pannelli solari che, quando va bene, ci garantiscono l’energia per una decina di ore al giorno. C’è una debole rete del telefono, ma non internet: per aprire l’email ci si sposta di otto km.

Ma ora lascio parlare la storia di Mosè per raccontare come va la vita in questo angolo di Africa.

Mosè a scuola

Mosè ha 15 anni, un nome importante, i pantaloncini rattoppati e le ciabatte più grandi dei suoi piedi. Entra, si toglie il cappello, si guarda attorno stralunato, aggiusta la seggiola e, con un po’ di impaccio, siede. Saluta a bassa voce, mentre con la mano destra si toglie il sudore dalla fronte. Ha appena percorso in bici, sotto il sole impietoso della stagione del grande caldo, i 20 km di buche e sassi che dal suo villaggio, sul confine tra Mozambico e Malawi, portano a Charre.

Quest’anno, a causa della pandemia, l’anno scolastico è cominciato a metà marzo, con un mese e mezzo di ritardo rispetto agli anni scorsi. Mosè viene per iscriversi nell’ottava classe, dopo avere frequentato i sette anni della scuola primaria nel suo villaggio.

Cerco di metterlo a suo agio, chiedendogli come va. “Tutto bene”, risponde, forse più per circostanza che per convinzione. Sul tavolo ha davanti a sé un libriccino colorato per bambini dal titolo: “La nonna è andata al mercato”. Gli chiedo di leggere il titolo. Prende in mano il libriccino con la reverenza di chi ha a che fare con qualcosa di inconsueto. Respira e, dopo alcuni secondi, esclama solennemente: “La!”. Mosè avvicina il libriccino agli occhi, prende fiato e con l’indice destro punta la seconda sillaba. Dopo un silenzio prolungato, il monosillabo “No!” gli fuoriesce dai polmoni con lo stesso impeto di quando nel campo da calcio grida: “Gol!”. E lì si blocca, sconsolato, Mosè, come avesse davanti a sé le acque del mar Rosso che, stavolta, non vogliono saperne di aprirsi.

Proviamo con matematica: 5+3. Mosè inclina il capo e comincia a contare sulle dita delle mani. “Otto!”, esclama soddisfatto. Al 7+14, comincia allo stesso modo. Poi, non bastandogli evidentemente le dita delle mani, si piega e comincia a contare le dita dei piedi. Si rialza, solleva lo sguardo verso il soffitto e, dopo una decina di interminabili secondi, esclama: “Diciotto!”.

Quando l’anno scorso abbiamo realizzato una ricerca sugli alunni che si iscrivevano nell’ottava classe, ci siamo resi conto che il 33% si trovavano nella stessa situazione di Mosè, mentre il 57% non comprendevano quello che leggevano.

Sono migliaia i Mosè in un paese che, negli ultimi dieci anni, se è vero che è riuscito a diminuire il tasso di analfabetismo in termini percentuali dal 50% al 39%, ha anche visto aumentare da 7 a 10 milioni il numero assoluto di mozambicani sopra i 15 anni che non sanno leggere. Mentre nelle aree rurali il tasso di analfabetismo continua al 50,7% e cresce esponenzialmente al 62,4% nel caso delle donne.

Samora Machel, primo presidente della rapidamente decaduta Repubblica Popolare del Mozambico, con la sua pomposa ma incisiva retorica maoista, affermava che “l’educazione è la base affinché il popolo prenda il potere”. Sono passati cinquant’anni, ma stiamo ancora aspettando.

Se vogliamo decifrare il cammino di questo paese, la storia di Mosè e i dati nazionali sull’analfabetismo rappresentano una chiave di lettura. Ad esempio l’indice di sviluppo umano (che bilancia PIL pro capite, speranza di vita e scolarizzazione), secondo il quale, nel 2020, il Mozambico è sceso al 181° posto su un totale di 189 paesi. Oppure l’indice di democrazia, che vede il paese classificato come regime autoritario e dove ha perso sette posizioni in due anni, collocandosi al 122° posto su un totale di 167 paesi. O l’indice di corruzione, dove scivola di tre posizioni in un anno e si piazza 149° su un totale di 180. E come dimenticare il tasso di povertà, in aumento, sotto la cui soglia minima vive il 63,7% della popolazione?

Tuttavia, credo che la storia di Mosè e, in senso lato, i dati drammatici relativi all’analfabetismo rappresentino una prospettiva privilegiata rispetto alle altre perché, oltre a disegnare lo stato attuale delle cose, tracciano un’indicazione del cammino futuro di medio e lungo termine che il paese ha davanti.

Sentinella, quanto resta della notte?” si chiede il profeta Isaia, che così risponde: “Verrà il mattino e verrà la notte. Se volete chiedere, chiedete pure, tornate un’altra volta”. Dall’interno della notte mozambicana, mi permetto di glossare: “Della notte, purtroppo, resta ancora tanto tempo”.

Due perdite

Ci sono due fatti accaduti nella seconda metà di febbraio che potrebbero farmi aggiungere addirittura un “tanto” in più. In pochi giorni sono infatti venute a mancare due persone che contribuivano a iniettare una dose vitale di speranza nella plumbea congiuntura del paese. Li ascoltavi e pensavi: siamo nel pieno della notte, ma là in fondo un barlume di luce c’è.

Luiz Fernando Lisboa

Il primo a uscire di scena è stato don Luiz Fernando Lisboa, vescovo di Pemba, capoluogo della martoriata regione di Cabo Delgado, dove dall’ottobre 2017 è in corso una guerra nella quale si mischiano povertà endemica, ricchezza di risorse naturali, terrorismo jihadista, investimenti miliardari delle multinazionali del gas, speranze frustrate della popolazione e interessi opachi del partito al potere. Una guerra che in tre anni e mezzo ha fatto più di tremila morti e di 700.000 rifugiati. Dom Luiz, fin dall’inizio, è stato la voce della popolazione che soffre. È stato il primo a portare all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale il dramma di Cabo Delgado, mettendo in discussione la narrazione trionfalista del governo per il quale era diventato troppo scomodo.

Dinanzi alle minacce alla sua persona che provenivano da più parti, la Chiesa mozambicana, divisa e pavida, ha peccato di prudenza e forse anche di ignavia ed è stata incapace di una parola profetica chiara e forte. Il “promoveatur ut amoveatur” ha riportato, contro ogni suo desiderio, dom Luiz in Brasile, sua terra natale.

Difficile leggere tutto questo con gli occhi della fede. O meglio, lo si può leggere solo attraverso la prospettiva della croce. È una perdita per il popolo di Cabo Delgado, che rimane orfano di chi era apertamente schierato dalla sua parte. Ma anche una sconfitta per la Chiesa e per la società mozambicana, che perdono un uomo di Dio e un profeta.

Daviz Simango

Dieci giorni dopo, muore all’improvviso Daviz Simango, leader del secondo partito di opposizione. Come sindaco di Beira, la seconda città del paese devastata dal ciclone Idai due anni fa, aveva dimostrato di essere un politico onesto, capace di costruire un progetto politico fondato sul principio del bene comune a partire dai più poveri. Nelle sue vene correva il sangue di suo padre, esponente di punta del movimento di liberazione, ucciso assieme alla moglie dal Frelimo subito dopo l’indipendenza. Simango era un politico di un altro spessore rispetto alla pletora corrotta al potere ed era uno dei pochi che sarebbe stato in grado di guidare le sorti dell’intero paese.

Non ci resta che tornare a Mosè, ai suoi pantaloncini rattoppati, alle sue ciabatte troppo grandi e al suo 7+14 che fa 18. Tornare ai tanti Mosè, ripartire da loro. Ripartire con loro.

La terra promessa appare un miraggio sideralmente distante. Davanti ci sono tempi imprecisamente lunghi di sete acuta e serpenti velenosi nel deserto, di vitelli d’oro e falsi dèi. Ma Mosè non ha nulla da perdere e, soprattutto, ha tutta una vita davanti per costruire un paese migliore.