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QT n. 2, 27 gennaio 2001 Monitor

Woody Allen: Criminali da strapazzo

L'ultimo lavoro di Woody Allen: humour e freschezza.

Puntuale all’appuntamento annuale con il pubblico, Woody Allen ha dato agli schermi l’ultimo lavoro, come sempre un intelligente intrattenimento, che restituisce il buon umore e, cosa affatto scontata vista l’indifferenza o il fastidio dei conterranei per questo regista, è riuscito gradito pure in America.

Questa volta egli esce dagli abituali tòpoi delle nevrosi metropolitane, quelle tipiche degli intellettuali, dell’appartenenza ebraica, di conflitti, tormenti interiori o questioni sottilmente morali, e, più spensierato, ritorna agli albori del suo cinema ("Prendi i soldi e scappa", "Il dittatore dello Stato libero di Bananas"), tinto di comicità e popolato da "criminali da strapazzo", protagonisti della storia che narra le piccole vicende delle loro vite perdenti.

L’ambientazione è, al solito, nell’amata Manhattan, microcosmo che lui abita e conosce in ogni piega e sa estendere a simbolo del mondo di tutti, divenuto cioè a tutti così familiare, proprio attraverso la rappresentazione datane dal regista, specchio del suo vissuto e della profonda relazione che con esso intrattiene e che sa comunicare allo spettatore al punto che la fa propria.

Ray (Allen), un ex-rapinatore di scarso talento ormai in età e fuori esercizio, insieme a tre amici progetta un grande colpo, e al fine convince la moglie Frenchy (Tracey Ullman), manicure avvenente e ancora assai vitale, ad aprire un negozio di biscotti, nella cui cantina i quattro scaveranno un tunnel verso il caveau della contigua banca da rapinare. Ma, invischiati in maldestraggini, errrori e chiacchiere esilaranti, sbagliano la direzione e tutto fallisce; mentre la biscotteria, gestita con zelo e serietà dalla moglie, fa grossi affari, con le file dei clienti sempre più lunghe sui marciapiedi. Come a dire che il lavoro onesto e ordinato di lei è in fondo vincente su quello disonesto e creativo di lui che, coinvoltala solo come copertura di poco conto ma utile e necessaria, non riesce a concludere nulla. Comunque le cose non filano lisce come potrebbe sembrare, anche se il negozietto in poco tempo si trasforma in una gigantesca industria dolciaria, con ordinazioni e affari a raggio internazionale, e con troppo rapido arricchimento della coppia. Tutto ciò comporta una trasformazione radicale dello stile di vita e delle frequentazioni sociali: non più il mondo dei miseri mortali, ma quello dei ricchi e potenti, che non gli appartiene e non conoscono e alle cui regole tentano pateticamente di addestrarsi. Per imparare a vivere nel nuovo ambiente, Frenchy ingaggia un raffinato e accorto antiquario, i cui fini però passano oltre le lezioni di bon ton, procedendo la relazione sull’equivoco di infatuazione ignorante e astuta utilizzazione.

Mentre lei si affatica in questo apprendimento, Ray sente il richiamo delle origini semplici, e i due giungono a separazione. Sarà la ruota della fortuna, che inverte la rotta con un tracollo dell’impresa, a riportarli insieme nella routine modesta di sempre, dove torna un solidale amore coniugale.

Il racconto procede con un ritmo cadenzato al meglio in un susseguirsi di gags, battute, cattiverie magari acide ma non feroci, forse risapute ma irresistibili per il modo come sono cucite, e di sicura ilarità; provocata, questa, proprio dal modo di essere di Ray sempre inadeguato all’obiettivo, in quanto tutto ciò che pensa o fa produce effetti contrari ai previsti, con conseguenti situazioni comiche che ridimensionano la realtà e la umanizzano. Il film infatti si prende gioco di tutti: la borghesia, dei ricchi vecchio stile, distinti e superbi, e dei nuovi ricchi, gonfi e goffi, e gli intellettuali, raffinati e volti ai massimi sistemi, accomunati però dalla brama per il dio denaro, pur se in mille modi camuffata, come si appura quando la ricchezza scioccamente ostentata della sprovveduta coppia in gioco viene soffiata dall’ingordigia dell’elegante ceto alto.

Nella costruzione della storia si possono riconoscere due parti: la prima è perfetta e travolgente, con un’impostazione corale che mette al centro Ray e moglie, intenti in acri ma affettuose dispute di coppia, e intorno i complici sempre in primo piano, mentre la seconda, più debole e dal tono un po’ allentato, vede la coppia reggere prima l’ascesa nella ricchezza, che incuriosisce per la naiveté dei modi di gestione, e poi la caduta nel patetico di un’esibizione di arredi e orpelli decisamente kitsch.

Ma l’insieme si ritrova in sintonia con la freschezza e l’humor intelligente ben noti del regista; la sceneggiatura scorre disinvolta, l’interpretazione del cast è strordinaria: si nota certo l’invecchiamento di Allen, specie nel confronto con la prorompente Ullman, ma la bravura resta intatta ed è con buffa sobrietà che lui, abituato al mondo dell’intellighénzia, recita il ruolo di piccolo criminale passato a nuovo ricco e ritorno. E’ stato criticato come film carente di novità, e infatti molti elementi rimandano a qualcosa di già visto, citazioni sue o di altri, e forse alcuni snodi sono prevedibili, ma sono la vivacità e lo stile che intesse i dettagli nell’insieme a connotare questo film della leggerezza arguta e della tipicità del cinema di Allen.

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