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Sei artiste d’oggi fra Europa e America

Una mostra a Ferrara.

Una mostra tutta al femminile quella in corso fino al prossimo 6 giugno a Palazzo Bonacossi di Ferrara. Il tema per festeggiare i vent’anni della "Biennale Donna" è lo sradicamento dal luogo d’origine, un nomadismo che accomuna sei tra le più importanti protagoniste del panorama artistico femminile contemporaneo: Marina Abramovic, Louise Bourgeois, Angiola R. Churchill, Liliane Lijn, Beverly Pepper, Kiki Smith.

Un filo sottile quello che lega queste artiste, reso fragile proprio per sottolineare la varietà d’esperienze presenti, per usare un’espressione di Lea Vergine, nell’altra metà dell’arte contemporanea: dalla dissolvenza della performance alla solidità della scultura, dalle tematiche più legate alla corporeità a quelle più formali.

Marina Abramovic (Belgrado, 1946), nata e cresciuta in Jugoslavia, è l’artista che maggiormente ha adottato la performance come modalità espressiva. Scene sgradevoli senza essere sanguinolente, che meditano su temi quali la follia, l’alienazione, la violenza. Arte a metà estrema, sensibilmente nordica, profondamente terrena, in parte raddolcita a partire dai primi anni ‘90, come si nota nelle opere in mostra. Chair for lovers (1991) rimanda ai troni egizi, e lo spettatore è invitato, possibilmente in coppia, a sedersi su rigide postazioni sormontate da grossi geodi in ametista (pietra dalla leggendarie virtù benefiche) dalle forme che ricordano i copricapi dei faraoni. Un’altra opera, Video Portraits gallery, racchiude in sé un’intera mostra: da sedici monitor vengono proiettati altrettanti video che documentano a partire dal 1975 le performance dell’artista.

Beverly Pepper (New York, 1924), di umili origini, si avvicinò alla scultura grazie a un incontro con Brancusi. Negli anni ‘60 s’accosta al minimalismo, proponendone però, su piani per lo più orizzontali, una versione eccentrica, dinamica. Dalla fine degli anni ‘60 la Pepper si abbandona invece alla verticalità più esasperata: forme a colonna - talvolta terminanti a punta - significatamente chiamate totem, che nel decennio successivo ospitano aperture dalle forme più o meno regolari, per lo più monumentali. In mostra troviamo opere in pietra ovviamente di formato ridotto, ma significative nell’evidenziare il dialogo tra rigore e caos, tra ordine e irregolarità, sicura peculiarità di quest’artista.

Louise Bourgeois (Parigi, 1911), come l’Abramovic nota da decenni in ambito internazionale, pone al centro delle proprie ricerche scultoree l’essere umano e le sue pulsioni. Attratta dal surrealismo, da esso deriva l’importanza dell’inconscio, che si materializza nei primi lavori in forme totemiche, poi liberate in espliciti richiami alla sessualità. Tra le opere esposte, più meditate ma forse meno rappresentative della Burgeois più nota, segnaliamo un omaggio a Marguerite Duras composto da una serie di pannelli in legno che ospitano forme semplici in vetro o metallo, leggermente usurati, carichi di un sottile lirismo della materia.

Kiki Smith, “The Sirens” (2001).

Kiki Smith (Germania, 1954), figlia del minimalista Tony Smith, è cresciuta in un ambiente famigliare non certo spensierato: una lapide nel giardino di casa, la precoce morte del padre e della sorella, l’attrazione per gli oggetti del solaio di casa appartenuti agli avi (dagli abiti alle dentiere), infine la paura ossessiva di rinvenire animali morti da seppellire. Tutto ciò spinse l’artista a una viscerale attenzione al corpo, al suo fluire di liquidi, alla sua consistenza carnale, al suo aspetto epidermico. Partendo dall’osservazione realistica dell’oggetto-corpo, Kiki Smith agisce poi producendo distorsioni, mutazioni, associazioni ad altri campi biologici quali la zoologia. Quest’ultimo aspetto, l’unione tra umanità ed animalità, è al centro di un lavoro come The Sirens (2001), creature con torso d’uccello e volto umano, non privo di riferimenti mitologici al tema del desiderio, della seduzione e della perdizione.

Liliane Lijn (USA, 1939) medita sugli stereotipi femminili, sia riguardanti il corpo che i più domestici dei suoi attributi iconografici, dai piumini per la polvere alle perline e ai tendaggi, utilizzati non in chiave realistica quanto piuttosto simbolica, astratta. Ciò che colpisce dei suoi lavori è soprattutto l’uso del mezzo tecnologico in chiave duchampiana, spiazzante, scenografica, come in Electric Bride (1989), in cui l’idea di donna è associata a quella di corrente elettrica, o come nella serie di video collocati in parti del corpo modellati in bronzo.

Angiola R. Churchill (USA, 1922), all’opposto della Lijn, preferisce esprimersi con mezzi artigianali e manuali. In particolare, per le sue grandi installazioni predilige l’uso di una materia effimera come la carta. L’opera in mostra a Ferrara, Pandora Box II, rivaluta la figura di Pandora come essere intelligente mosso dalla curiosità, contrapposta ai desideri maschili tendenti alla supremazia. L’opera consta in un grande ottagono - la scatola di Pandora - costruito con pannelli di tela trasparente calati dall’alto. L’interno, solo in parte visibile, nasconde un’idea di energia della natura, fatta di multiformi ombre che fluttuano sulla tela, suggerendo ora onde, ora leggeri petali, ora forme primordiali.

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