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Fra Libano e Siria

Note di viaggio fra arte e costume. Da L’Altrapagina, mensile di Città di Castello.

Ivan Teobaldelli

L’autostazione di Baramke è uno dei posti più caotici di Damasco. Copre le linee del sud della Siria e la collega con la Giordania, l’Egitto e il Golfo. Per il Libano però non ci sono autobus. Bisogna contrattare coi taxisti privati che hanno una prepotenza di stampo mafioso. Il nostro autista è uno dei boss dell’autostazione. E’ un cinquantenne dal fisico massiccio e lo sguardo risoluto che non perde tempo a discutere. Con noi ha messo subito in chiaro: o partiamo a quel prezzo o nisba! Ci dobbiamo rassegnare e gli consegniamo i passaporti. In pochi secondi sbriga le formalità (è incredibile il numero di timbri, di moduli e di controlli che ci aspettano) e via, sulla sua Dodge, in direzione della mitica Baalbeck.

Le sei colonne di Baalbeck.

Di Baalbeck ho un’immagine indelebile fin da piccolo. E’ quella delle sei colonne sospese contro il cielo, un’epifania di marmo fuori dal tempo e dalla geografia. Mi apparivano perfette, indistruttibili, come le piramidi.

Immaginate la sorpresa quando le ho trovate al centro di un gigantesco sito archeologico, in mezzo a un mare di altre rovine. Ma procediamo con ordine.

La strada che porta a Baalbeck attraversa una pianura coltivata a cotone e tabacco che fino a una decina d’anni fa era un deserto e che i fondi dell’Onu hanno rivitalizzato.

Alla nostra destra una fila di camion lunga chilometri in attesa della dogana. E’ necessario sul passaporto il visto multiplo, altrimenti dal Libano non si rientra: è l’annosa questione per cui i siriani non considerano ancora il Libano un’entità indipendente ma sognano "due paesi e una sola nazione", la Grande Siria. Perquisizioni al taxi e lunghe pratiche burocratiche ci preparano al deprimente spettacolo di filo spinato, cavalli di frisia, dissuasori e casematte di cemento che costellano l’itinerario. Sembra un percorso di guerra. Finalmente Baalbeck.

La sua acropoli impressionante ripaga di tutto. In origine consacrata al dio fenicio Baal, fu dai Greci chiamata Heliopolis e dai Romani riciclata per il culto di Giove. E’ suo il tempio più imponente che svetta in cima a una scala monumentale con le celebri sei colonne alte 22 metri.

A rompere l’incantesimo, un siparietto di maleducazione italiota. Quattro signore burine imitano i passi di un musical sporgendosi a più riprese dalle colonne e berciando ai rispettivi mariti di fotografarle. "Buttatele giù!" - mi sgolo inascoltato.

Il tempio di Bacco è il più pre-zioso e affascinante, un ricamo
fittissimo di decorazioni – il marmo lavorato a merletto – dove sono scolpiti i piaceri e le attività degli dei. Per ultimo incontriamo il tempio di Venere, piccolo e slanciato, che è appena fuori del sito, vicino all’ingresso. Qui puntuale come un orologio a cucù c’è il nostro autista per il ritorno.

E’ venerdì e nel giardino del museo nazionale di Damasco una famiglia vestita a festa si muove ordinata tra i cippi e i sarcofaghi. In testa c’è il padre che indica anche il più insignificante reperto. Lo segue attenta la prole: cinque femmine che sembrano clonate, il fazzoletto bianco in testa e il soprabito lungo fino ai piedi. Per ultima, a fatica, avanza la madre. Porta il peso d’una gravidanza quasi agli sgoccioli. Che sia la volta buona del maschio?

Aeroporto di Damasco, terminal dei voli internazionali. Sto aspettando Carlo che arriva da Parigi. E’ circa mezzanotte e mi sembra di vedere una scena d’un film di Godard. Una coppia d’estrazione borghese, con figlia adolescente al seguito, passeggia sul marciapiede specchiandosi nelle vetrate. L’uomo è in grisaglie e cravatta, le donne intabarrate in cappotto lungo e foulard. Mostrano un’aria compita e soddisfatta. Dall’uscita s’affaccia un giovanotto con valigia e subito da un’auto parcheggiata una ragazza si precipita ad abbracciarlo. Abbigliamento punk, fisico prosperoso, gli si arrampica addosso e lo soffoca d’effusioni. L’occhio mi cade sulla famigliola. Pietrificata. Fissano la minigonna della ragazza che s’accorcia, s’arrotola e s’arresta all’altezza degli slip, liberando due impudichi cosciotti. Il trio è medusizzato, boccheggiano come pesci. Il primo a riscuotersi è il padre. Fa schermo con la mano alla figlia e con uno strattone alla moglie ordina il dietro-front. Ma bastano pochi passi ed eccoli tutti e tre che si rigirano. Stregati dalla "degenerazione".

Il caffè Ash-Shams è il paradiso dei giocatori di scacchi di Aleppo. Arredo déco primo Novecento, tavoli intarsiati col piano a scacchiera, camerieri solleciti e silenziosi. Ha luminose finestre che danno sul parco e un’atmosfera di sorniona concentrazione che è l’ideale anche per scrivere. Il parco è un’oasi di verde e di zampilli d’acqua. L’attraverso ogni giorno, obbligandomi a una deviazione. Non riesco più a passare davanti alla gabbia della scimmia, una specie di padiglione sgangherato con una rete metallica dove un povero e vecchio babbuino viene sistematicamente tormentato da ogni cretino che passa. L’ultima volta erano dei militari a infastidirlo coi manganelli. L’animale era pazzo di rabbia. Si scagliava contro le sbarre, gli occhi iniettati di sangue. Sono riuscito a fermare il branco d’idioti, ma subito dopo un ragazzino ha tentato di rifilargli una sigaretta accesa beccandosi un graffio a un dito. Sono dovuto andar via dalla pena.

E mentre riflettevo che la crudeltà in natura non esiste, l’hanno inventata gli umani, m’imbatto in questa scenetta familiare: l’uomo è in piedi, in mezzo all’aiuola, a gambe divaricate. Porta occhiali da sole tipo rayban, camicia aperta sul collo, e a gesti indica alla moglie dove disporsi coi figli per la foto. Fa mostra di competenza professionale e sposta più volte la poveretta fino a metterla in ginocchio, con lo zampillo ben in vista sullo sfondo e un pargolo per lato. La donna esegue restando velata. Che la fotografi così, senza viso? Continuo a camminare osservandoli in tralice. Come dò loro le spalle, la donna solleva il velo per un istante e click, lo scatto. Un musetto pallido pallido, un mezzo sorriso furtivo.

Incistato dentro una fortezza araba e riportato alla luce solo un secolo fa, il teatro romano di Bosra è così integro da togliere il respiro. Ci arriviamo, Carlo e io, attraverso un dedalo di sale oscure e opprimenti, depositi di munizioni, locali per la guarnigione. Volte basse e massicce, contrafforti al salnitro. In sottofondo il limìo degli scalpellini che intagliano le pietre. Poi di colpo la luce, e una vertigine di anelli di basalto nero si drizza verso il cielo e sembra incastonarlo in un cammeo. Ti senti rimpicciolito a insetto, non osi immaginarti sotto la lente di 15.000 spettatori che dai gradini ti avrebbero scrutato. Ne senti il fiato sul collo. E la riprova è semplice. Ti basta sibilare un’esse – tant’è perfetta l’acustica – per essere percepito in cima all’emiciclo.

Il teatro di Bosra.

E’ il gioco che sta divertendo una scolaresca, docile ai comandi degli insegnanti che gli fanno schioccare le dita, tossire, applaudire e poi li lasciano sbrigliarsi nella gazzarra d’una filastrocca. Ho detto docile, ma come mi vedono armeggiare con la macchina fotografica è un rompete le righe generale e mi trovo circondato da una nidiata di pulcini che strillano "welcome", "what’s your name?" e mi tirano per la maglia, vogliono provare il mio cappellino, cosa avrò mai dentro la borsa. E i giovani maestri continuano a sorridere mansueti, tentano gesti di scuse, flebili richiami, ma sono più curiosi dei piccini. Risolvo tutto con una foto generale e l’indirizzo della scuola. Sono di Suweida, la città da dove viene il migliore arak (anice) della Siria? E anche il grande Farid al-Atrache? Mi fissano come fossi un marziano.

Percorro l’ultimo anello tra le vertigini. I sedili hanno ancora lo schienale col marchio dei proprietari. Da quassù cerco d’immaginarmi come fosse uno spettacolo duemila anni fa quando il palcoscenico era rivestito di marmi preziosi, si stendevano teli di seta a protezione dal sole e nuvole d’acqua profumata venivano vaporizzate sul pubblico. Adesso devono accontentarsi del faccione di Bashar Assad, il Presidente, che campeggia sui capitelli corinzi. Dall’alto si vede ciò che resta dell’antica Bosra che fu nel II sec. d.C. capitale della provincia romana d’Arabia, diede a Roma un effimero imperatore, Filippo, e divenne tappa del pellegrinaggio verso la Mecca quando il giovane Maometto, passando di lì con la carovana d’uno zio mercante, incontrò il saggio monaco nestoriano, Boheira, che gli predisse un futuro da profeta.

Sono molte le rovine: le quattro porte d’ingresso, il mercato, il ninfeo, il decumano, il monastero. Tutti in pessimo stato, ma che rabbia scoprire attraverso l’arco trionfale una villetta moderna fatta con lo stesso materiale!

Chi invece lavora alla conservazione lo scopriamo dal rimbombo degli scalpelli. In fondo a un cunicolo, dietro una porta, quattro ragazzi mazzolano le pietre. Sono completamente infarinati di marmo e uno ha anche l’anima del clown: è Alì, un moretto atticciato, la faccia da scugnizzo. E’ il primo a mettersi in posa per le foto e a fare l’acrobata. Risale a forza di braccia un pozzo con una corda (erano le segrete della prigione), s’azzarda in volteggi sull’impalcatura e atterra con una piroetta per rimettere il bricco del tè sopra il fornello.

I ragazzi sanno tutto del football nostrano: conoscono Totti, Maradona e Roberto Baggio. Ma il grande sogno di Alì è trovare una fidanzata italiana, e sposarla. E tra le risate e gli applausi s’inumidisce l’occhio, il labbro tumido, la mano sul cuore, e canta la struggente storia d’un cacciatore che rifiutato dalla bella sparge lacrime che coprono la terra di fiori. La ritrosa è riconquistata ma dubito che da noi funzionerebbe. Comunque trascrivo sull’agenda il suo indirizzo. Le lettrici de l’Altrapagina sono avvertite.