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QT n. 11, 3 giugno 2006 Servizi

Videogames: quanto emozionano e cosa insegnano

Come in ogni attività culturale, anche qui sono presenti elementi ideologici e il giocatore deve muoversi in un mondo dove le regole sono fissate da altri. (Seconda puntata).

"Non mi è rimasto nulla ormai, nemmeno la dignità. Eppure mi umilio per implorarti: non distruggere il mio popolo, te ne sarà grato per sempre." La sofferta voce – quella di un capo indigeno – dal computer così pregava: rivolta a mia nipote, una sveglia bimbetta di nove anni.

Un'immagine da "Civilization".

Io mi sentivo partecipe, oltre misura: "Perchè vuoi sterminare questi poveri indigeni? Che male ti possono fare? E facendoteli amici, non avresti vantaggi?"

"Ma no, sono primitivi, non portano nessun vantaggio. E se li lascio stare, beh, poi si rafforzano, e cominciano a chiedere di più, a fare azioni di disturbo...".

"Ma anche a farli fuori ti saranno una spina nel fianco...".

"No. Sono troppo deboli."

E premette il click fatale. Dal computer venne un sospiro, un rantolo soffocato: gli indigeni erano stati soppressi. Me ne andai via, un po’ turbato: il gioco ("Civilization") glielo avevo regalato io; alla bambina, stavamo insegnando il cinismo?

Questo argomento vogliamo qui approfondire: l’etica nei videogiochi, come attraverso i videogames possono passare messaggi (dis)educativi, condizionamenti ideologici. Essendo il videogioco diverso dagli altri media, all’utente viene chiesto di raggiungere certi obiettivi sottostando a determinate regole, che possono anche "imporre" di uccidere persone o distruggere cose. In pochi considerano questo aspetto. Già nel numero scorso, nel nostro servizio Videogiochi: droga o cultura?, avevamo posto il problema: in "Sim City", ad esempio, il giocatore è un sindaco, che deve sviluppare una città ricercando un equilibrio ottimale tra attività produttive, servizi ai cittadini, ambiente, viabilità ecc. Ma stabilire il punto di equilibrio è concetto squisitamente politico; e lo esprime l’autore del gioco; mentre il giocatore dovrà adattarsi, farne propria l’ideologia. E così la bambina alle prese con "Civilization": per sviluppare la sua civiltà deve sterminare gli indigeni. Deve fare propria l’ideologia – in questo caso particolarmente odiosa – degli autori.

Avvalendoci ancora una volta del prezioso aiuto di Marco Pellitteri (studioso dell’argomento, vedi la scheda), proviamo a capire in che misura lo svolgimento del gioco condizioni inconsciamente il giocatore, costringendolo a seguire una logica non sua.

Bisogna fare delle distinzioni. Un caso è quello di ‘Sim City’, dove il metagiocatore (ovvero il giocatore demiurgo, che sta al di sopra e può creare la realtà) pur con dei limiti ha una libertà d’azione piuttosto ampia, e discrete possibilità di scelta: può sviluppare una città più orientata al verde, se preferisce, o all’industria. Diverso è il caso sopra citato di ‘Civilization’, dove sono presenti in modo molto forte subdole indicazioni ideologiche, come la convenienza di sterminare gli indigeni, che finiscono inesorabilmente per condizionarci".

Certo, in ogni gioco, come in ogni attività culturale, sono presenti per forza di cose degli elementi ideologici, per quanto l’autore, magari per motivi commerciali, si possa sforzare di ometterli. "Anche il gioco apparentemente più neutrale, come ‘Pacman’ contiene in realtà spunti ideologici: il protagonista è un essere di sesso comunque maschile il cui scopo finale è liberare una ‘miss’ – prosegue Pellitteri – O perfino in giochi come ‘Tomb Raider’, che avrebbe dovuto rivalutare il ruolo femminile nel videogioco, la scelta del tipo di protagonista, una ragazza con forme molto appariscenti, in realtà reintroduce dalla finestra il maschilismo appena messo alla porta".

Il problema nuovo è l’interattività: il giocatore, a differenza del lettore di un libro o del fruitore di uno spettacolo, non assiste passivamente, è protagonista; e deve muoversi in un mondo le cui regole sono fissate da altri.

Prima di approfondire l’argomento Pellitteri ci tiene a sottolineare come, su questo aspetto, tra i videogames ci siano delle significative eccezioni, nelle quali "il giocatore non deve adattarsi, ma può agire secondo la sua personalissima ideologia. E’ il caso delle gilde on-line (gruppi di giocatori che si aggregano su Internet, formando "gilde", "clan" ecc, argomento di cui parleremo più dettagliatamente nei prossimi speciali) nei giochi di ruolo: talvolta si slegano completamente dallo scopo originario del gioco e lo interpretano a modo loro, formando delle comunità che vivono il gioco secondo un’ispirazione propria, ad esempio comunità agricole, oppure di banditi che compiono razzie o di mercenari. Si può comunque dire che questa è l’eccezione che conferma la regola".

E generalmente è raro che i giocatori si rendano conto di diventare parte di un grande meccanismo ideato da altri, che può comportare anche ideologie, culture completamente diversi dai propri.

Andrea, studente universitario di 22 anni combattuto tra gioco e studio, con semplicità risponde che "Non è una bella cosa, ma in fondo va bene così, l’importante è divertirsi". E Alberto, giocatore – quasi - per professione, ci dice tra il serio ed il faceto: "Quando giochiamo ci dobbiamo calare nei panni di colui che lo ha sviluppato, capire cosa si aspetta da noi e comportarci di conseguenza. Ma questo non è per forza di cose un male, io mi diverto a calarmi nella mentalità dello sviluppatore e capire come ragiona. I giocatori più assidui dopo pochi minuti davanti ad un gioco hanno già capito come si dipanerà l’intera vicenda e come sarà opportuno comportarsi".

Ma allora, la domanda che sorge spontanea è: i videogiochi spingono al conformismo? Ci portano ad adattarci ad una realtà che ci viene stabilita da altri e che finiamo per accettare perché in fondo ci sta bene così?

Secondo Pellitteri il conformismo nei videogiochi è molto presente, ma in altro modo: ci dobbiamo conformare al videogioco non tanto nel raggiungere l’obiettivo finale, ma piuttosto nel modo di raggiungerlo. Le capacità che i videogiochi forniscono ai giocatori, secondo questi ultimi, stando ad una recente ricerca, sono, nell’ordine, la capacità di gestire situazioni complesse, di migliorare i riflessi e di riflettere prima di agire. In tutto questo, il giocatore tende a migliorarsi sempre di più, a perfezionare le proprie reazioni in rapporto a ciò che ha costruito e delineato l’autore, tentando e ritentando.

Questo è stato reso possibile solo dall’ evoluzione tecnica del videogioco che ha comportato l’introduzione di due funzioni fondamentali: il tasto pausa (possiamo fermare il tempo per analizzare la situazione) e il tasto salva (possiamo provare e riprovare a compiere una sequenza di azioni, per esempio possiamo continuare a provare a superare un ostacolo, finché non troviamo la maniera di farlo).

E, oltre all’interattività cui abbiamo accennato prima, è proprio la possibilità di fermare il tempo ed indagare le immagini una delle differenze principali tra videogioco, libro e film.

Vediamo meglio come sono vissute queste tre forme di media che pure hanno molti punti in comune tra loro.

"Quando leggo, provo emozioni maggiori rispetto a quando guardo la televisione, perché sono libera di fantasticare e lasciare spazio all’immaginazione, prendendomi dei momenti per riflettere ed assaporare ciò che mi aspetta nelle pagine a venire" - prova a spiegare Giovanna, 30 anni. Di contro c’è chi sostiene che "i film sono molto più coinvolgenti, perché, tramite effetti speciali ed interpretazioni degli attori, non lasciano nulla al caso e riescono a far sentire lo spettatore parte della storia".

In tutto questo che ruolo ha il videogioco? Nessuno sa darci una risposta precisa; c’è chi sostiene che il videogioco non ha nulla a che spartire con libri e film e chi invece sostiene che è una sorta di film "vissuto in modo più personale". Difficile, ma non impossibile sentirci dire che "il videogioco è un perfetto misto tra le due culture, il punto d’incontro fra la freneticità dello schermo e le pause di riflessione imposte dal libro".

Una cosa è certa: il punto di forza del videogioco rispetto a libri e film è che in esso possiamo interagire. E’ così che le emozioni che proviamo davanti ad una console non dipendono dalla trama, come avviene invece in libri e film, ma bensì dal gameplay stesso, come dimostrano le ricerche di "Pioneers in Player Experience Research" e "Design methods XEODesign". Insomma, il videogioco costituisce un’esperienza unica: uno scontro adrenalinico, un’avventura, una sfida mentale; oppure le strutture sociali che forma: un momento di solitudine o di compagnia con amici. Si gioca perché si vogliono provare esperienze momento per momento, sia quando si sta per superare una sfida difficilissima, sia quando si cerca riparo dalle preoccupazioni quotidiane, sia quando si mira a quello che Hal Barwood definisce semplicemente "la gioia del venirne a capo".

Ed è proprio per questo che stanno nascendo numerosi videogiochi che mescolano le emozioni derivanti dallo svolgersi della trama e dall’azione in sé: in queste prime settimane del 2006, fra le proposte più interessanti, spiccano i titoli tratti da grandi opere letterarie. Tre in particolare sono quelli appena usciti: "Il giro del mondo in 80 giorni" da Verne, "E non ne rimase nessuno" (da Agatha Christie) e il celeberrimo "Il Padrino" (dal libro di Mario Puzo).

L’eredità dei giochi tratti da libri, o più comunemente da film che sono stati tratti da best seller, è un percorso ormai collaudato e "sicuro" per gli sviluppatori: sono ormai infatti innumerevoli gli esempi di successo nel genere. Ubisoft colleziona un record dopo l’altro con i giochi tratti dai romanzi di Tom Clancy e i meno giovani ricorderanno che i romanzi di fantascienza furono portati nei videogiochi da titoli vecchi come il primo "Blade Runner", "Dune", o i fenomeni del momento, come "Il Signore degli Anelli", "Harry Potter" o l’attualissimo "Codice da Vinci".

Nonostante questo, però, il videogioco non è considerato alla stregua di un libro o di un film, anzi, non è nemmeno paragonabile ad essi nella concezione comune. Questi sono riconosciuti come opere d’arte, o in ogni caso, espressioni culturali, mentre il gioco è visto come puro ludus e pertanto privo di ogni spunto positivo ed educativo. E’ per questo che, mentre nei libri e nei film sono considerate lecite le ideologie in quanto segno comunque di un determinato tipo di cultura e di pensiero (vedi anche il recente esempio de "Il caimano" di Nanni Moretti), nel videogioco tale ideologia viene criminalizzata. Quest’ultimo è un tema poco discusso, anche perché deve ancora emergere come consapevolezza, ma spesso è stato dibattuto in altro modo, ovvero: "Qual è il rapporto tra etica e videogioco?"

I videogiochi sono spesso accusati di fomentare comportamenti violenti all’interno della comunità dei giovani: causa la violenza delle immagini, l’immedesimazione in personaggi negativi, l’attuazione, pur solo virtuale, di gesti efferati. Effettivamente vi sono stati, in proposito, eventi realmente accaduti che devono far riflettere, ma che tuttavia non permettono di demonizzare in toto il fenomeno videogame. Il 28 agosto del 2003 due giovani di Los Angeles affermarono di aver ucciso un uomo ed una donna ispirandosi, a "GTA", un gioco ben noto per le situazioni e immagini crude e brutali.

Ora, è vero che questo accade anche quando i giovani si ispirano a film o a libri, ma tali gesti fanno comunque da trampolino di lancio privilegiato per le tesi di alcuni autori, come ad esempio Eugene Provenzo, che accusa i videogiochi di spingere i ragazzi alla follia, e di eroderne spirito di squadra e moralità. Questo perché nel mondo dei videogiochi "ogni persona pensa per sé. E’ necessario uccidere o essere uccisi, consumare o essere consumato, combattere o perire". La continua necessità di sparare, senza un vero motivo, senza nessun bisogno di ragionare, che caratterizzerebbe, secondo Provenzo, tutti i videogiochi, sottoporrebbe i giovani ad un autentico lavaggio del cervello, creando degli automi capaci unicamente di pensare e vivere egocentricamente, pronti ad esplodere in ogni momento in insani atti di violenza. Anche la figura dell’eroe, che da solo combatte contro i malvagi, sarebbe altamente dannosa, in quanto inculcherebbe nei ragazzi una pericolosa sfiducia nella legge e nei tradizionali e legali sistemi di giustizia.

E’ una delle innumerevoli posizioni nell’usuale diatriba che vede da un lato alcuni psicologi ritenere i giochi elettronici altamente dannosi, altri, al contrario, benefici per lo sviluppo cognitivo dei giovani, altri ancora, preferire una valutazione articolata sui singoli prodotti.

A nostro avviso è inutile formulare un giudizio universale: dobbiamo ribadire però che le nuove tecnologie all’inizio sempre intimoriscono, e hanno bisogno di essere mentalmente assorbite, comprese al meglio da tutti.

Per il videogioco questa è una strada molto dura perché, a complicare le cose, c’è la grande novità: l’ interazione. E’ quindi ovvio rimarcare questa differenza: mentre al cinema assistiamo a scene violente, nel videogioco le eseguiamo. Ma le eseguiamo virtualmente, il che non vuol dire aspirare a farlo nel mondo reale. Insomma, il videogioco è un’esperienza: e va valutato anche chi vi si approccia, se un bambino o un adulto.

Resta aperto il problema iniziale: che tipo di emozioni generano i videogames? Abbiamo già visto le differenze eispetto a libri e film; ma allora come mai i videogiochi sono talmente potenti da suscitare nelle persone reazioni così forti, come quando ci troviamo a battere coi pugni contro la tastiera, dimenticare bisogni fisiologici o urlare a squarciagola dopo aver completato un livello? Ma anche: si gioca per provare emozioni allo stessa maniera in cui cerca una sfida? E se le emozioni sono importanti nel gioco, da dove provengono? E come, in proposito, gli sviluppatori si stanno orientando?

Indagando il rapporto che esiste tra emozioni reali ed emozioni virtuali dobbiamo partire da un distinguo fondamentale, tra i vari generi di giochi.

Marco Pellitteri 

Marco Pellitteri, sociologo trentaduenne, si occupa di immaginario e cultura di massa, fumetto, cinema d’animazione, culture del digitale, dinamiche transculturali fra Oriente e Occidente. E’ autore di quattro libri: "Sense of Comics. La grafica dei cinque sensi nel fumetto", Castelvecchi, 1998; "Mazinga Nostalgia. Storia, valori e linguaggi della Goldrake-generation", Castelvecchi, 1999 e King|Saggi, 2002); "Anatomia di Pokémon. Cultura di massa ed estetica dell’effimero fra pedagogia e globalizzazione", Seam, 2002; "Conoscere l’animazione. Forme, linguaggi e pedagogie del cinema animato per ragazzi", Valore Scuola, 2004. Pellitteri scrive per riviste italiane e straniere e suoi contributi sono presenti in numerosi cataloghi e testi collettanei. Collabora ai progetti scientifici di mostre, conferenze e festival sul fumetto e il cinema d’animazione. Svolge consulenze scientifiche per ricerche sociologiche su giovani e mass media. Dirige le collane di saggistica dell’editore Tunué.

In genere si gioca per cambiare od organizzare le proprie esperienze interiori. Gli adulti sono propensi a riempirsi la testa di pensieri ed emozioni lontani dal mondo del lavoro o della scuola, mentre altri sfruttano il momento ludico per testare le proprie capacità. Si possono provare sensazioni provenienti dall’esibirsi in cose mai fatte nella vita reale, come volare o prendere parte a una gara di ciclismo estremo; e così colmare lacune di capacità, o di risorse, o persino divieti sociali. C’è chi ama evadere dal mondo reale; e chi invece rifuggirne le regole sociali e magari infrangerle. Quasi tutti sperimentano ed apprezzano la sfida e l’immersione totale. Gli effetti rilassanti o eccitanti dei giochi risultano molto intriganti, e qualcuno li sfrutta per trarne beneficio calmandosi dopo una giornata di lavoro, "acquistando prospettive diverse", migliorando la propria autostima.

E il coinvolgimento emotivo risulta accresciuto dal gioco in "multiplayer", in più persone davanti ad uno schermo o collegate in rete: in questo modo i videogiocatori tendono ad emozionarsi più frequentemente e con maggiore intensità rispetto a chi gioca da solo. Il gioco in comitiva aggiunge nuovi comportamenti, rituali, ed emozioni.

E l’apporto dei videogiochi al nostro cervello si può considerare tale? In parte anche questa tematica è stata già sviluppata, con il richiamo in causa di varie capacità che sviluppano i videogame, quali la fantasia, l’ingegno e la mentalità parallela e il senso strategico.

Manca però un apporto nuovo, nato da poco tempo e che si sta sviluppando con grande interesse: quello che i videogame potrebbero portare alla memoria. In Cina sta vendendo milioni di copie ogni settimana un gioco denominato "Brain Training for Adults", (Allenamento del cervello per adulti). Il gioco, che approderà in Europa tra qualche mese, si propone di sviluppare l’intelligenza dei suoi (per lo più anziani) acquirenti tramite una serie di quiz e giochi di logica, non particolarmente faticosi. La novità sta soprattutto nel target a cui si rivolge, ovvero un pubblico di età avanzata; ma la cosa più sorprendente è l’effettivo successo che sta avendo nei negozi. Non è la prima volta che si parla di videogiochi benefici: già in passato si era adottato "Counter Strike" per curare - in manicomio! - alcuni malati affetti da patologie di insicurezza e difficoltà relazionali

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