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QT n. 13, 1 luglio 2006 Servizi

Quando l’intolleranza è ipocrita

Il pretesto della reciprocità per negare i diritti agli stranieri. Dialogo con Adel Jabbar, sociologo delle migrazioni.

Erica Mondini

Con Adel Jabbar, irakeno, sociologo delle migrazioni parliamo della controversia sulla reciprocità. "Volete la moschea? Solo quando nei vostri paesi si possono costruire chiese cattoliche" è un refrain che si sente spesso. E così per tante altre cose, che riguardano soprattutto i diritti civili e le libertà democratiche. Insomma, la reprocità intesa condizione sine qua non per concedere agli immigrati gli stessi nostri diritti.

Erica Mondini e Adel Jabbar.

Cosa ne pensa? Si tratta di una formula ricattatoria; sembra quasi un ritorno alla legge del taglione: occhio per occhio, dente per dente…

"Il discorso della reciprocità è legato alla dimensione dell’ospitalità. Spesso, quando si parla di immigrati e di immigrazione, viene utilizzato il concetto di reciprocità intesa come condizione preventiva, senza la quale non si potrebbero e non si dovrebbero instaurare relazioni di vicinanza, di prossimità, di ospitalità. In realtà la reciprocità non è una premessa, ma un traguardo: l’ospite è chi riceve, ma anche chi è accolto. Instaurare relazioni di reciprocità significa condividere uno spazio, in una relazione equilibrata di dare e avere. Una reciprocità in positivo, quindi. Alcuni imprenditori di certa politica al contrario utilizzano l’argomento della reciprocità come ostacolo all’integrazione, come condizione sine qua non appunto. Dicono all’immigrato: ‘Non hai diritto ad essere trattato secondo le nostre leggi, perché vieni da un paese in cui non ci sono le stesse normative’".

Spesso è difficile ragionare con chi la pensa in questo modo. Con quali argomentazioni rispondere?

"Innanzi tutto, che si tratta di affermazioni incongruenti sul piano giuridico. E’ come dire che si vorrebbe instaurare, all’interno di un sistema democratico, caratterizzato da una cultura basata sul riconoscimento dei diritti e delle libertà della persona, un sistema giuridico diverso, che non riconosce tali diritti. E’ un vero e proprio paradosso, una contraddizione palese; è come dire: noi siamo emancipati e progressisti, abbiamo sistemi più moderni e democratici dei vostri, viviamo in un paese più libero e migliore del vostro, ma voi non ve lo meritate, quindi vi puniamo con le regole che vigono nel vostro paese. E’ un tradimento della propria cultura giuridica, la quale dovrebbe indurre, invece, ad affermare anche i diritti degli altri. E’ un rischio: quello che s’instaurino pratiche speciali e trattamenti differenziati.

E’, infine, un’incongruenza: l’immigrato,l’altro è un semplice lavoratore, venuto qui per rispondere alle esigenze del mondo del lavoro ed ai propri bisogni personali. Non è responsabile del sistema giuridico ed istituzionale del proprio paese. Anzi spesso ne è la vittima, come nel caso dei rifugiati. Non è lui il soggetto con cui discutere della reciprocità, non è il rappresentante del proprio paese. La questione della reciprocità va affrontata con gli interlocutori deputati e nelle sedi adatte, tra stati e rappresentanze diplomatiche".

In questa relazione diseguale con l’altro, in questa retorica dell’alterità distorta e ricattatoria, che peso ha l’immagine che noi abbiamo degli immigrati e dei paesi da cui provengono?

Bou Konate, senegalese e cittadino italiano, assessore ai Lavori pubblici a Monfalcone.

"Questo è il secondo aspetto della questione: quando pensiamo ai paesi stranieri, lo facciamo spesso senza una reale conoscenza della cultura, della storia, delle leggi in vigore. Siamo ingabbiati in stereotipi, in cliché, in pregiudizi. Ragioniamo a partire da alcuni presupposti che riteniamo scontati e quindi non mettiamo in discussione: noi siamo gli evoluti, loro sono retrogradi; la nostra cultura è superiore, più democratica, la loro inferiore; da noi le donne sono libere, da loro sottomesse; noi siamo laici, loro sono integralisti. E’ effettivamente così?

Dobbiamo chiedercelo: il nostro immaginario si fonda su convinzioni acquisite che sovente non hanno fondamento nella realtà. La realtà è che ci sono paesi musulmani che hanno preceduto l’Italia nell’instaurare sistemi istituzionali laici, come l’Indonesia, il Senegal, la Turchia. Consideriamo invece cosa scontata e normale che, ancora oggi, un paese europeo al di sopra di ogni sospetto come l’Inghilterra abbia una regina che è, allo stesso tempo, capo dello stato e della chiesa, con una formula che laica non è: ‘Dio salvi la regina!’

In alcuni paesi a maggioranza musulmana non c’è quest’ambiguità tra ambito religioso e politico, tanto che spesso sono riconosciuti i calendari delle festività di diverse religioni (come ad esempio in Egitto, dove vi sono quattro calendari, musulmano, ebraico, cristiano ortodosso, cattolico); in diverse realtà, il pluralismo religioso, la compresenza di cimiteri e luoghi di culto di varie religioni, l’insegnamento delle religioni sono cose acquisite da tempo. Anche in Iran, ora nell’occhio del ciclone, sono riconosciuti i diritti dei non musulmani, nell’educazione, nel culto e nella celebrazione delle festività, nel diritto di famiglia; e nel parlamento è garantita la presenza di quelle minoranze che difficilmente, data la loro minima consistenza numerica, potrebbero essere rappresentate attraverso sistemi elettivi".

Dobbiamo ammettere che in Italia, ed in Trentino, tali questioni invece hanno sollevato e sollevano dibattiti accesi. Basti pensare alla Consulta degli immigrati che non si è riusciti ad approvare a Rovereto, alla discussione sempre attuale sull’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, sulla realizzazione di cimiteri e luoghi di culto "altri". Tanto per dirne una, all’interno del calendario scolastico, solo le festività ebraiche sono state recentissimamente riconosciute. Insomma, non si può certo dire che in Italia la laicità sia una realtà compiuta e matura. Ma lei, non sta forse idealizzando la realtà dei paesi musulmani?

"Dico semplicemente che l’idea che i paesi musulmani, in genere, non riconoscano i diritti dei non musulmani è sbagliata. Non possiamo generalizzare: ogni Paese si è mosso in un contesto storico molto diverso ed ha avuto un percorso diverso. Dobbiamo verificare, approfondire, saper distinguere. Invece si continua a ritenere genericamente tutti gli altri paesi come retrogradi, non democratici, oppressivi e monolitici.

Dico semplicemente che taluni di coloro che utilizzano l’argomento della reciprocità, colpevolizzando l’altro, lo fanno per legittimare una posizione di chiusura, di intolleranza. Il loro ragionamento è incongruente: poiché gli altri sono poco tolleranti, poco moderni, poco emancipati, anch’io mi permetto di esserlo. Se avessero interiorizzato le regole della società democratica, non utilizzerebbero tali argomenti. Si tratta quindi di un uso strumentale della reciprocità per legittimare posizioni discriminatorie.

Non è facile contrastare questa mentalità, che purtroppo ha permeato vasti strati della nostra società. La gente spesso raccoglie queste provocazioni, anche perché è effettivamente disorientata ed impaurita. Quali possibilità, quali percorsi possono essere utili per superare questa mentalità?

"La questione va posta in modo diverso. Viviamo in un mondo in cui i confini sono labili e gli sconfinamenti frequenti. Sono in atto trasformazioni che producono incertezza sul piano politico, giuridico, sociale e culturale. Come muoversi di fronte al cambiamento è una domanda che richiede l’individuazione di una pista di lavoro. La trasformazione in atto coinvolge e travolge tutto il pianeta: sulla barca traballante ci siamo tutti, autoctoni e alloctoni. Tutti viviamo un momento di grande incertezza e paura.

Ma se abbiamo tutti paura, questo può essere un terreno comune di ragionamento. Possiamo cominciare a raccontarci la nostra paura, per capire come elaborarla, per trovare una risposta condivisa. Questa è una pista di lavoro: interrogarci tra persone consapevoli della nostra paura e incertezza. Abbiamo davanti delle sfide comuni: giustizia sociale, cambiamento del mercato del lavoro, economia globale, utilizzo delle risorse naturali, diritti dei lavoratori … Come riuscire ad affrontarle? Non certo strumentalizzando la paura ed incolpando l’altro. L’incertezza e la paura sono comprensibili, la strumentalizzazione è inaccettabile".

Come parlare con chi si fa portavoce di questa strumentalizzazione? Come ci si difende dalle strategie di paura?

"Non è facile! Le loro parole d’ordine sono semplici; di fronte alle semplificazioni un discorso argomentativo fatica a reggere. Però non possiamo abdicare ad un ruolo educativo culturale politico. Si deve contrastare tale strumentalizzazione, mostrando il dato oggettivo della realtà: l’altro è un lavoratore che lascia il proprio paese rispondendo ad una domanda del mercato, ad un’esigenza della nostra società che richiede la sua presenza. Io faccio un invito a ragionare sulla paura, ad elaborarla attraverso relazioni".

Reciprocità: arma a doppio taglio

Uno del Marocco o della Tunisia o dell’Algeria potrebbe dire: "Anch’io vorrei venire come turista in Italia senza il visto, come fa un italiano che viene nel mio paese".
Un tunisino potrebbe dire: "Nelle scuole del mio paese io studio francese; perché in Francia non si insegna l’arabo?"
Molti paesi africani hanno basi militari americane: "Perché un paese africano non può averne una in Europa?"
E ancora: "Se un cittadino statunitense si macchiasse di un reato grave, potrebbe essere condannato a morte, giacché nel suo paese vige la pena di morte?"
La reciprocità è reciproca. E se fosse richiesta anche dall’altra parte?

Faccio l’avvocato del diavolo: qualcuno potrebbe affermare che non ci sono solo lavoratori, ma anche clandestini… Come pensare a percorsi di elaborazione della paura rispetto a questo problema che è reale?

"Essere clandestini non è una scelta della persona. Tutti gli immigrati vorrebbero essere in regola, camminare tranquillamente per le strade; nessuno di loro vuole vivere nascosto e nell’incertezza. I clandestini spesso lavorano presso le nostre case, le famiglie o le ditte. Il problema è che la legge Bossi Fini è troppo rigida e penalizza l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, non tenendo in considerazione la dinamicità, la flessibilità del mercato del lavoro oggi, spesso è una delle cause dirette della clandestinità.

Ma anche rispetto a questo problema, è molto importante, secondo me, continuare ad insistere e far emergere un altro dato di realtà: l’immigrazione oggi, nella maggioranza assoluta dei casi, è regolare e ‘normale’; gli immigrati vogliono percorrere, spesso anche con fatica, un itinerario di ‘normalità’. Ecco perché è importante rendere visibile la partecipazione effettiva della gente nella vita di tutti i giorni; gli immigrati sono nelle fabbriche, nei negozi, nelle scuole, nei condomini. Al di là della lettura economicistica, al di là dell’aspetto lavorativo, a livello di quartiere, si stanno instaurando vincoli, momenti di prossimità, di vicinanza, di conoscenza ed è importante aiutare questo processo, promovendo percorsi di lavoro a partire dai quartieri, dialogando dei problemi comuni a tutti: del servizio pubblico, del servizio sanitario, della scuola ecc.".

Spostando un po’ l’attenzione (anche se non tanto quanto sembra) ad altro tema, vorrei fare una domanda sulla laicità. In questi ultimi anni, la barra dei rapporti tra Stato e Chiesa si è sensibilmente spostata verso una posizione meno indipendente. Il tema della laicità si è intrecciato con quello dell’identità e della difesa dei valori tradizionali, in relazione proprio al fenomeno dell’immigrazione e della nuova complessità/pluralità sociale. Il concetto dello Stato laico sta traballando, sotto i colpi della destra e della gerarchia ecclesiastica, timorosa di una perdita del proprio primato. Cosa ne pensa? In che modo questo è in relazione di causa/effetto con l’atteggiamento nei confronti degli immigrati e con le retoriche dell’alterità?

Aicha Mesrar, premiata dal Comune di Trento per il suo impegno nell’integrazione degli immigrati.

"Alcuni esponenti di quegli ambienti che rivendicano per la religione un peso maggiore nello spazio pubblico e politico, sono gli stessi che accusano altri di essere troppo integralisti.

Credo che abbiamo bisogno di maggiore laicità per poter gestire una società sempre più plurale anche sul piano religioso. Il rischio di un’azione politica non più laica ma condizionata dalla/dalle comunità religiose è duplice. Potrebbe significare il predominio di una comunità religiosa ed il condizionamento della pratica politica e delle sue decisioni rispetto ad altre comunità religiose. Oppure, potrebbe determinare un compromesso tra diverse comunità religiose, per l’occupazione dello spazio politico, a scapito della laicità. Entrambe le eventualità metterebbero in discussione la libertà dell’individuo in quanto portatore di diritti; non sarebbe certo un passo avanti se una comunità religiosa, forte del proprio peso politico, negoziasse il riconoscimento delle libertà e dei diritti dell’individuo".

Ma anche il concetto di laicità va ripensato alla luce della trasformazione in atto. Quando si rivendica il ruolo della/delle religioni nello spazio pubblico, quando si tende ad individuare nelle radici religiose il fondamento privilegiato dell’identità di un Paese, è necessario ricordare che le radici sono sempre molteplici: non solo religiose. Ed anche fossero solo religiose, non sarebbero legate ad un territorio, ma plurali e universali. Rivendicare le radici, territorializzando la religione, significa in qualche modo tradire lo spiritostesso delle religioni. Quando alcuni rivendicano le radici cristiane d’Europa, come sociologo delle migrazioni mi piace ricordare che, pur se nessuno può trascurare il peso di queste radici, esse non sono solo cristiane. Ma fossero anche solo cristiane, quelle radici sono extraeuropee, vengono dalla Palestina. Questa è una cosa proprio interessante: San Pietro e San Paolo erano migranti e sono diventati parte integrante di un paesaggio culturale.

Andando alle radici delle radici, scopriamo che la loro matrice è la dinamicità, il movimento, la molteplicità. L’elemento venuto da fuori è diventato parte costitutiva. Non è facile portare avanti questi ragionamenti, perché la tendenza è quella di fermarsi alla superficie. E’ necessario, invece, andare in profondità, precisare, distinguere. Anche per quanto riguarda la laicità, è necessario superare una certa retorica laica. Laicità, secondo me, non significa espulsione della religione dallo spazio politico, né azione politica contro la religione, ma azione politica che abbraccia/coinvolge/garantisce/rappresenta tutta la società, nella sua pluralità di singoli e comunità, religiose e non, nelle sue individualità e diversità".