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A caccia di un visto

Lagos (Nigeria): storie (imbarazzanti fino alla vergogna) davanti allo sportello del consolato italiano.

Alessandro Brighi, Maria Mazzoli, Roberto Valussi

Gli stage svolti da laureandi o neolaureati oscillano solitamente tra due opposti paradigmi impiegatizi: il fotocopiatore e il tappabuchi sfruttato. L’esperienza da cui nascono i due articoli di queste pagine tende verso il secondo estremo. Né poteva essere altrimenti, dato il luogo di lavoro: l’Ufficio Visti del consolato italiano di Lagos, Nigeria. In sedi simili, le carenze di personale sono endemiche come le carestie nell’Europa pre-industriale, creando l’habitat naturale per il tappabuchi sfruttato.

Francesco Bert, autore dell’intervento a seguire (La lotteria dell’emigrazione) ricopre tuttora questa posizione a Lagos. Da lì ha scritto una e-mail sfogandosi contro quel pezzo d’Italia con cui si sta confrontando e con cui si sono confrontati i tre ragazzi autori del primo articolo. Alla e-mail ha fatto seguito una carovana di risposte, da parte di stagiste impie-gate in altre sedi africane, compagni di università sparsi in ogni dove, tutti a scrivere accomunati dall’insofferenza per atteggiamenti e mentalità che danno il peggio di sé all’estero, ma sono ben visibili anche a casa nostra. Migliorare il belpaese passa anche per l’aggressione a queste italianissime realtà. Abbiamo provato a farlo con questi due in-terventi; nel primo narrando le vicende di un nigeriano alle prese con la richiesta del visto; nel secondo con un commento più analitico sul caotico, farraginoso  carrozzone Italia.

 

Da circa sei mesi Godwin Ugochukwu è un assiduo frequentatore del consolato generale d’Italia a Lagos. Godwin viene da Benin City, rinomata fabbrica d’immigrati, ed è uno tra le centinaia di nigeriani che ogni giorno si ammassano di fronte agli uffici consolari di Victoria Island, baluardo dell’Eldorado europeo.

Per arrivare in Italia, Godwin sa di avere due possibilità: la prima è avventurarsi per le varie vie clandestine che lo porterebbero ad una traversata drammatica del Mediterraneo, tentando le strade che dal Niger arrivano alla Libia o al Marocco, oppure imbarcandosi dal Senegal sui battelli disperati che tagliano l’oceano fino alle Canarie.

L’altra possibilità è quella di rimediare qualche pezzo di carta che gli permetta di accedere regolarmente al nostro Paese, il che sottintende due cose: essere uno stretto familiare di un nigeriano che risiede in Italia con regolare permesso di soggiorno, o ottenere un permesso di lavoro subordinato.

Godwin non ha nessun parente in Italia, ma il fratello di un amico vive a Rovigo, e può fargli attraversare in tutta tranquillità le frontiere: non rischierà la vita nel deserto, ma partirà da Lagos, con Alitalia. Lui farà finta di offrirgli un lavoro e poi, una volta arrivato, si vedrà.

Questo fratello nigeriano non lo aiuterà gratis, certo, ma Godwin è disposto ad investire i suoi soldi. Gli arriva, allora, un foglio di quattro pagine dall’Italia, in originale, con marca da bollo e firme, e tante caselle, e cifre incomprensibili. Godwin se lo infila nei pantaloni la sera prima del suo appuntamento in consolato, mentre parte in autobus da Benin City: se lo derubano, è finita.

Sono le 6.30 del mattino. Quando si aprono le porte, ci sono da un lato un centinaio di persone, dall’altro le guardie locali della sicurezza e un carabiniere, il primo rappresentante italiano che si para davanti a Godwin. E’ un momento altamente simbolico; simbolico della completa casualità che da lì in poi segnerà le sue ore. Il caso può volere che quella mattina il carabiniere sia uno capace, con un buon inglese, o che sia un suo collega ignorante, che lo insulta in italiano e lo rimanda alla settimana successiva. Così, senza motivo.

Godwin ce la fa. Si siede nella rovente, umida sala d’aspetto con altre 80 persone e passa le sette ore d’attesa chiacchierando con i suoi colleghi. Molti hanno in mano un pezzo di fortuna intestato allo stesso modo: "Nulla Osta al lavoro subordinato in qualità di domestic worker", per il cognato nigeriano residente in Italia. Ed ecco un altro aspetto della cabala amministrativa: non è detto che casi uguali siano trattati allo stesso modo. Ognuno ha la sua storia: chi ha tentato per mesi di contattare gli uffici, chi è stato gentilmente invitato a pagare la parcella di un avvocato che verificasse i suoi documenti, chi è al sesto appuntamento, chi vuole solo ritirare il passaporto perché sono nove mesi che tenta di avere il visto e ormai il nulla osta è scaduto.

La frontiera italiana non è una linea retta. Somiglia piuttosto ad un percorso ad ostacoli, un limbo giuridico nel quale le leggi si scontrano di fronte alla loro applicazione, lasciando spazio alla discrezionalità e a tutto ciò che si può frapporre tra un documento legislativo e un’azione amministrativa.

Godwin impara anche che ognuno ha trovato il suo modo per beffare le leggi migratorie italiane. C’è un ragazzo di 27 anni che è riuscito a farsi fare un passaporto con scritto "17" e forse riuscirà ad ottenere il ricongiungimento familiare. C’è una donna che è già al terzo diniego, ma crede che stavolta riuscirà a farsi dare 15 giorni per turismo, e allora la Nigeria non la rivedrà più. La vecchia di fronte a lui, invece, si è fatta assumere da suo figlio ad Ancona; i due hanno combinato la cosa in lingua Bini, perché lei non parla nemmeno Pidgin English...

E’ il suo turno: Godwin si affaccia allo sportello delle interviste e tira fuori il suo nulla osta. Non può sapere che da quella posizione è in grado di vedere il ventre più profondo dell’Italia: lo sportello è lo specchio del nostro rapporto con la migrazione e della nostra impreparazione a confrontarci con essa.

Alla frontiera dovrebbero lavorare gli uomini più capaci; in realtà, fatta salva la nostra classe diplomatica, il personale amministrativo e locale che lavora nei consolati e nelle ambasciate italiane nel mondo è di una disarmante arroganza e impreparazione. Capita che il funzionario abbia avuto accesso a quel posto tramite concorsi privi di requisiti minimi e non abbia le competenze, la preparazione giuridica e la lucidità intellettuale necessari a confrontarsi con l’umanità debordante che preme per accedere al "primo mondo". Così, di fronte a Godwin, siede un funzionario che, come tutti i giorni, aspetta incazzato la sequela di bugie, mezze verità e goffi sotterfugi che i nigeriani gli propineranno, sempre con la stessa faccia tosta; non vedrà nel "richiedente visto" un cittadino da trattare secondo i crismi del diritto, ma, a prescindere dalla malafede di Godwin, lo tratterà come l’ennesima grana, un fastidio, una persona inutile e dannosa al sistema Italia.

Nei buchi neri lasciati alla discrezionalità amministrativa, il funzionario eserciterà la sua autorità senza alcuna consapevolezza del ruolo chiave che sta svolgendo, quello di supervisore del flusso migratorio. Commenterà, invece, tra un Godwin e un altro, con accenti razzisti, quella che vive come un’invasione del suo spazio, della sua italianità.

A Godwin non importano le angherie o quei toni accesi, che farebbero scandalo in qualunque ufficio pubblico italiano: prega solo di riuscire a strappare un sì e di lasciarsi alle spalle il confine.

Una volta in Italia, Godwin si troverà di fronte a nuovi confini: troverà un lavoro in nero, sottopagato, in una fabbrica veneta, laverà i piatti in qualche ristorante o raccoglierà frutta per qualche azienda agricola del sud. Pagherà un affitto in nero per una stanza con altri sei nigeriani. E si sentirà trattato dagli italiani nello stesso modo con cui si è sentito trattato dietro quel vetro, sentendosi chiamato in causa ogni qualvolta i politici sfrutteranno la sua presenza per creare un capro espiatorio su cui addossare le colpe della propria incapacità amministrativa e dei propri fallimenti politici.